Adottando un ritmo versificatorio veloce che racconta con disincanto cose e persone, Claudio Pagelli sembra simulare il flusso anonimo della vita negli spazi di una città onnivora (potrebbe essere, ovviamente, qualunque città dell’occidente industrializzato), che, dopo avere offerto allo sguardo una complessa e brulicante messa in scena sotto cieli privi di qualsiasi dimensione metafisica, puntualmente inghiotte nel buio delle sue viscere addomesticate dalla tecnologia tanti uomini-burattini come un’enorme bocca di balena (il riferimento è chiaramente collodiano). Lo sguardo fermo, a ciglio asciutto, del suo sguardo, che analizza le forme di quell’esilio da se stessi, dal proprio nucleo più intimo, a cui il mondo attuale costringe l’uomo medio in nome della necessità produttiva, dà l’impressione che la sua poesia si regga sulle schegge di una frana ormai antica tra le quali sarà molto difficile aprire un qualche varco.
In questo senso dobbiamo leggere i testi della sezione L’inferno di Chisciotte, che introduce un riferimento letterario di notevole importanza per l’individuazione di un possibile riscatto. Se il capolavoro di Cervantes viene, infatti, contestualizzato nel suo tempo così da coglierne le motivazioni storico-sociali, la follia del prode cavaliere Chisciotte altro non appare che una forma di contestazione estrema ed una necessità, sia pure solo “romanzata”, di recupero di valori ed ideali sepolti dall’incalzare di un mutamento storico, nel quale egli più non si riconosce.
L’inferno di Don Chisciotte ha molto a che fare con il nostro inferno attuale; ed è probabilmente per questo che Pagelli prende a modello questo personaggio evocandolo sia pure in miniatura con la “bandiera rossa della visione”; ed è per questo che l’esortazione rivolta a Sancho Panza a gettarsi in nuove avventure risuona non senza coloriture perfino ideologiche. (La diversità di Don Chisciotte, inoltre, potrebbe essere letta anche come una frecciata all’indifferenza del nostro sistema per la realtà parallela dell’immaginazione, della fantasia, e che, perciò, colloca ai margini la letteratura, e in specie la poesia).
Setacciando attentamente i versi, non è difficile imbattersi in alcune parole o immagini-spia della donchisciottesca “santa ossessione di sogni” e del “nucleo dolce dell’illusione”: può essere una parete tinteggiata di verde e quasi vuota che sembra un mare verticale; il disegno tracciato da un dito su un vetro appannato, l’apparizione di dulcinea (che il nome sia scritto in lettere minuscole annulla il personaggio a favore dell’idea che rappresenta) seduta “fra i papaveri e le stelle”; e perfino l’improvviso irrompere di uno sguardo visionario all’interno di un call-center, così che gesti, volti, oggetti sembrano assumere la fiabesca luminosità di un acquario ed annullare l’insensatezza di un lavoro ripetitivo fatto di formule.
Intanto dall’anonimia di tanti corpi “stretti come fiammiferi in scatola”, il poeta ricava una serie di svelti ed efficaci ritratti, che, pur ribadendo la schiavitù di ciascuno all’imperativo economico (fatta eccezione per il visionario che ancora riesce ad ascoltare “la voce leggera” delle cose), servono a consegnare i vari individui ad una loro specificità umana all’interno dell’ingranaggio. Tutti, in ogni caso, sono riscattati dalla loro infelicità, dallo squallore del sesso senza amore, dalla mancanza di una prospettiva metafisica, grazie alla “buona novella” della poesia.
Il cielo finto della metropolitana probabilmente ha suggerito all’autore il titolo della silloge che suona più o meno così: se con il vero cielo viene annullata la dimensione metafisica, non resterà all’uomo che l’azzurro di quel culo di balena. Ma il “grande pesce” che inghiottì, come racconta la Bibbia, il profeta Giona per poi rigettarlo sulla riva dopo tre giorni e tre notti, è divenuto, come si sa, il simbolo universale della risurrezione; ed, allora, si può congetturare che anche Pagelli vi faccia riferimento alludendo ad una possibile rinascita dell’uomo da una condizione di “morte”; tanto più che sin dal testo iniziale egli canta la persistenza, “mondo dopo mondo”, della luce, la quale continua a “tatuare di stelle la schiena della notte”.