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L’ultimo eremita - parte seconda

di Michele Rotunno
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Pubblicato il 01/04/2011 17:18:15

Devo ammettere che appena messo piede sul sicuro poggio tirai un bel sospiro di soddisfazione, non è da tutti i giorni infatti che un sessantenne pensionato dopo una intera vita vissuta tra i banchi di un liceo con le poche escursioni alla ricerca di funghi si possa improvvisare un Indiana Jones o un pellerosse mohicano. Compiaciuto rivolsi lo sguardo alle mie spalle e la vista dello strapiombo appena oltrepassato mi riempì di orgoglio. Sinceramente in quel momento non pensai affatto che in giornata avrei dovuto rifare la stessa strada per il ritorno. Mi concentrai invece sul luogo in cui mi trovavo.
Il terrazzamento era lungo una cinquantina di metri e largo mediamente due, con punte di tre nella parte centrale, quella davanti l’accesso alla grotta. Proprio in quella zona vi era l’origine del fumo, dovuto alla bruciatura di un mucchietto di foglie e sterpaglie in parte secche e in gran parte ancora verdi e umide. Al centro dello spazio, quasi a mezza distanza dalla grotta era stato improvvisato un braciere fatto di pietre disposte a semicerchio e in quell’incavo erano state deposte le foglie. Non molto lontano dall’improvvisato focolaio vi era un grosso mucchio di sterpi e foglie che, poco alla volta, sicuramente venivano usate per alimentare il fuoco. Ovvio che in quelle condizioni il fumo che ne scaturiva fosse grigio, quasi bianco, e per la quasi mancanza di vento si innalzava alto nel cielo come una colonna bianca.
Aguzzando lo sguardo riuscii a notare oltre il fumo una indistinta sagoma umana accovacciata per terra e con le spalle poggiate ad un grosso arbusto, di quelli che spuntano miracolosamente anche dalle rocce. Prima di avvicinarmi lanciai un rapido aguardo ai dintorni, alla mia destra il magnifico panorama che spaziava sulla sottostante valle e le basse colline, qualche centinaio di metri più sotto, oltre una mezza dozzina di altri terrazzamenti si riusciva a intravedere un vecchio ovile in muratura e da esso un cavo nero che superando la distanza arrivava fino all’arbusto e da lì entrava nella grotta attraverso una fessura tra le pietre a secco della parete. Ricordai allora come oltre venti anni prima il barone Pizzuto ave provveduto a portare quel cavo elettrico dall’ovile alla grotta dicendo che doveva servire per le eventuali luminarie della ricorrenza di san Guittone. Essendo il santo mai stato ufficializzato dalla Chiesa la festa non era mai avvenuta e l’elettricità mai adoperata.
Ritornai a interessarmi di quella figura umana e con prudenza iniziai ad avvicinarmi. Fatto pochi passi sentii una voce ben chiara e tenorile e altrettanto ferma che mi incoraggiava senza tentennamenti.
“Venga, venga senza alcun timore, venga ad accomodarsi qui, sarà sicuramente stanco, immagino, hehehe, ha scelto una brutta strada per arrivare fin qui” disse in tono gentile e garbato e, soprattutto, in perfetto italiano. Mi avvicinai allora più speditamente e intanto ebbi modo di osservare meglio il mio interlocutore. Pian piano le sue forme si facevano più distinte, era un ometto magro e alto forse un metro e sessanta, almeno tanto appariva stando seduto.
Ciò che impressionava era tutto l’insieme, aveva una lunga barba bianca e altrettanto lunghi capelli che fuoruscivano da uno strano berretto, più tardi ebbi modo di constatare fosse un vecchio cappello a cui era stata tolta tutta la tesa, ormai sembrava più un copricapo arabo. L’abbigliamento era costituito da un paio di jeans straconsumato e sfilacciato da più parti, che sicuramente avrebbe fatto l’invidia dei giovani moderni che li comprano apposta così, un paio di scarponi da alta montagna dal colore indefinito legati con dello spago al posto dei lacci, una vecchia consunta camicia di flanella a quadroni blu e rossi sotto la quale si intravedeva il bordo giallastro di una maglia intima di lana. Sopra la camicia una vecchia e deforme giacca di velluto dal bavero alzato e abbottonata sul davanti dall’unico bottone visibile. Le tasche rigonfie all’inverosimile di noci raccolte e non aperte, notai infatti che ogni tanto l’uomo ne estraeva una e con un piccolo temperino l’apriva e mangiucchiava poco alla volta con i pochi denti di cui ancora faceva sfoggio nei suoi smaglianti e dolci sorrisi.
Quando fui a pochissima distanza da lui si alzò con sorprendente agilità e allungando la mano strinse energicamente la mia, dopo averla quasi coattamente afferrata.
“Buongiorno, ma prego si accomodi” disse di nuovo indicando una pietra liscia e piatta poco distante. Risposi sorridendo di circostanza e accogliendo l’invito mi accomodai alla meglio.
“Non ha avuto alcun problema a superare quel balzo?” mi chiese gioviale.
“Non molto, non soffro di vertigini”
“Beato lei, conosco gente che svenirebbe solo a guardare questo straordinario panorama” disse indicando con un gesto ciò che avevo poco prima ammirato anch’io giungendo sul posto.
“Come mai è venuto fin qui?” Beh, questa poi…
“Come dice scusi?” chiesi quasi costernato.
“Voglio dire cosa l’ha spinta ad arrampicarsi fin qui, quale motivo”
“Accidenti, lei è davvero straordinario, mi parla come se fosse il padrone di casa”
“In pratica lo sono, sono anni che risiedo qui, lei è appena arrivato”
“Per via del fumo” dissi sconcertato e disarmato.
“Prego?”
“Il fumo, si vede da lontano, fino dal paese, credevo avesse preso fuoco la grotta”
“Oh bella, questa? Scusi, e se anche fosse stato?”
“Come, lei sta qui da.. anni ha detto, e non sa cosa rappresenti questa grotta per Montepiano?”
“Questa..grotta..significa..qualcosa..per la gente del..posto?” chiese stupefatto.
“Certo che sì, questo è l’eremo di san Guittone!”
“Ah, mi scusi, ma chi sarebbe stato costui?”
“Beh, diciamo quasi il fondatore di Montepiano. È, comunque, una storia lunga” dissi tagliando corto e in tutta risposta ebbi un sorriso divertito che metteva in bella mostra tutti e cinque i suoi denti in tutto. Quel sorriso invece di contagiarmi mi irritò e dalla mia espressione egli capì di aver esagerato. Infatti, rifattosi serio se ne rammaricò.
“Mi scusi, non volevo offendere nessun abitante del posto, tanto meno lei che mi sembra una persona tanto gentile e a modo ma, quando ha citato la storia, è stato più forte di me”
“Non capisco cosa voglia dire, cioè perché la storia dovrebbe divertirla tanto. Sappia che io sono, anzi sono stato perché adesso in pensione, un professore di storia e geografia al locale liceo di Montepiano” improvvisamente i suoi occhi si dilatarono eccitati.
“Lei è un professore di storia? Ah, non dica che lo è stato perché o lo si è oppure no. Non significa nulla, lei è professore di storia che HA insegnato al liceo. Ma è e rimane un professore di storia. Permette che mi presenti? Pancrazio De Osvaldi, professore di storia che ha insegnato per ventisei anni al liceo classico di Napoli. Attualmente in pensione da…ventisei anni appunto. Che splendida giornata! Incontrare un collega! Ah, com’è piccolo il mondo!”
“Lei è stato un professore di storia al liceo classico e…?”
“E cosa, signor…?”
“Ah sì, Mirante, Carlo Mirante”
“Non posso crederci, un collega! Ma sa che lei ha davvero l’aspetto di un professore di storia?”
“Di lei certamente non si direbbe. Come è potuto succedere che..?” chiesi accompagnando la domanda con un plateale gesto della mano.
“Succedere cosa? Ah, capisco, lei si riferisce al mio modesto abbigliamento!”
“Veramente non solo a quello ma a tutto questo” indicai ampliando il gesto. Non rispose subito, agrottò la fronte mentre con una mano si lisciava la folta e lunga barba bianca, scosse più volte il capo e infine, dopo un lungo e liberatorio sospiro, riprese a parlare.
“Eh, caro collega, la sua domanda merita non una ma tante risposte, non è facile spiegarglielo. Intanto togliamo ogni superfluo dubbio. Non ci sono retroscena per così dire sentimentali, familiari o eventi drammatici, sia ben chiaro, si tratta di una scelta di vita, ponderata e quindi fortemente voluta”
“Ma perché? A cosa o a chi serve ridursi così?” la sua reazione fu davvero sconvolgente.
“Ridursi così? Così come? Cosa ci vede di tanto strano in tutto questo se non un personale anticonformismo controbacchettone? Professore mio le nostre strade hanno preso direzioni ben diverse, eppure sono partite dallo stesso punto”
“Francamente non comprendo”
“Allora l’aiutero volentieri. Sappia intanto che il mio numero personale è il 26. A ventisei anni ho iniziato la mia carriera di professore di storia, che ho ininterrottamente svolto per altri ventisei anni quando, sfruttando la possibilità del prepensionamento, ho lasciato la scuola per iniziare una nuova e più gratificante avventura: la vita libera da ogni legame.
“Qui come c’è finito?”
“Al liceo, quando lo frequentavo come studente avevo un compagno di banco di nome Alberto Pizzuto, sì proprio il vostro presunto barone. Ovviamente non è affatto un titolato ma, poveretto, lo ha sempre desiderato di esserlo che non se ne può fare alcuna colpa per esserselo imposto. Abbiamo sempre avuto un ottimo rapporto di amicizia e quando per caso l’ho incontrato tre anni fa, dopo una lunga chiacchierata mi ha messo a disposizione questa umile dimora. Badi che questa ha superato ogni mia aspettativa, se solo sapesse in che posti ho vissuto…”
“Appunto questo le chiedo, perché questa sua scelta?”
“Caro collega, la mia scelta nasce proprio dalla materia che.. entrambi abbiamo insegnato, la storia appunto. Mi segua, se possibile.
Ventisei anni, mio caro, ad insegnare sempre le stesse cose, fatti, date, eventi, biografie di grandi personaggi, ogni ciclo di anni sempre le stesse cose e per chi poi? Studenti a cui non fregava niente”
“Su questo devo darle ragione, ci sono passato anche io”
“Eppure ho sempre fatto di tutto per far capire loro giusto l’essenziale, che nella storia dell’uomo tutto si ripete perché a muovere i fili dell’esistenza umana sono solo ed esclusivamente i sentimenti umani”
“Sentimenti? Amore, odio…?”
“Ma no, non questi. Perlo dell’ambizione, potenza, ricchezza, fama, gloria, sono questi i sentimenti che portano l’uomo a compiere sempre le stesse azioni. Più che un giro compiuto è una spirale eterna in cui l’uomo è sempre perdente.
“E poi l’uomo non comprenderà mai”
“Esatto, compierà sempre gli stessi errori. Non capirà mai l’inutilità di un’ambizione smisurata. Tutto finisce, mio caro, anche l’universo un giorno finirà di vivere e di tutto questo cosa resterà? Nulla, per cui sarà valsa la pena di lottare.
“Per questo si è ritirato? Non le pare un tantino esagerato?”
“Esagerato, lei dice? Per nulla, non avverte la grazia di respirare aria pura, lontano dall’avvilente consumismo, in pace con la natura, a leggere sani libri e ponderare sul pensiero di chi davvero nel passato, avendo capito questo mistero che è la vita, ha fatto di tutto per tramandarlo ai posteri?”
“Non possiedo la sua forza per condividerla ma l’apprezzo totalmente”
“”Riflietta, amico caro, e se possibile si spogli della civiltà che l’avvolge e torni alla natura. Oh, ben inteso la mia non è una forzatura, solo un invito”
“Era evidente”
“”Ora, però, devo lasciarla per qualche minuto. Sa, l’architetto quando ha eretto questa reggia ha dimenticato i servizi sanitari, pertanto… oh, ma lei stia pure, mi assenterò al massimo per cinque minuti”
“Francamente vorrei andare, prima che si faccia tardi, dimentichi che dovrò rifare il sentiero”
“Ah, giusto, allora per cortesia faccia una cosa, io vado davvero di fretta, prima di andare via vuole gentilmente attizzare il fuoco aggiungendo un po’ di quella sterpaglia?”
Gli feci cenno di si e lo lasciai allontanare con una trotterellante e buff andatura. Prima ancora che si fosse allontanato dalla mia vista attizzai il fuoco e mi avviai anche io verso il ritorno. Una curiosità, però, m’invase passando davanti l’entrata della grotta, quella di vedere come si era attrezzato. Mi chinai leggermente e misi dentro il busto. Alla destra notai subito un grosso pagliericcio composto da un sacco ripieno probabilmente di foglie di mais, a fianco una grossa cesta piena di vai logori indumenti, dall’altra parte una cassetta tutta sgangherata colma di vari libri.
Nel voltare le spalle lo sguardo cadde sul lato sinistro della grotta e soprattutto su un grosso cubo bianco, un mini frigorifero da 300 cc, sopra di esso spiccava un cellulare e, poco distante, posizionato alla meglio su di un’altra grossa cesta capovolta un LCD a schermo piatto da 20”.

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