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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

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incarminandosi follemente

Poesia

Enomis
EdiLet

Recensione di Gian Piero Stefanoni
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Pubblicato il 15/09/2015 12:00:00

 

"Enomis è un invenzione di S. Carunchio (dottore di ricerca) il quale ha trovato i testi di questo autore , per caso, in un suo angolo d'uno scantinato, nel corso del suo operare come bibliofilo". Così, in terza di copertina, viene presentato al lettore l'autore di questo libro dietro al quale però non è difficile pensare celarsi il doppio letterario di Carunchio stesso (che di nome infatti, come da lettura al contrario di Enomis, fa Simone), figura fittizia insomma grazie alla quale muoversi liberamente gettando magari curiosità- e scompiglio- tra lettori e critici. Operazione non nuova ma per questo coraggiosa perché soprattutto in questi casi quando il dettato non è supportato da un adeguato e vero, provocatorio, dire del mondo, il rischio della banalità nel vaniloquio è sempre dietro l'angolo a confermare piuttosto una tendenza a servirsi (non servendolo..) dello strumento poetico per spegnersi dietro scritture senza altro interruttore che quello di un solipsismo privo d'uscita. Per buona parte è il caso di queste pagine, nel senso del rischio intendiamo, il nostro Enomis- Simone gonfio di letture di poesia italiana e francese e di filosofia, soprattutto giuridica, "intellettuale visionario e viaggiatore" con "venature moderne e romantiche" (così, sempre in terza di copertina, nella descrizione allo specchio) del quale questa è la prima prova di altre uscite successivamente ("Ondivaghe per Lepisma nel 2014 dopo "Nudi vermi" per Poiemata nel 2012). Poesia di "sogno e di ragione", come l'ha definita Elio Pecora, che ha però nei tic e nei diktat ossessivi di un pensiero sempre acceso, sempre interrogante, sempre auto-fustigante la freccia e il limite evidente di un orizzonte ora rivelato ora negato per una impossibilità connaturata e sempre ritornante, sempre ostacolante, di una semplice- se non per brevissimi istanti- liberatoria e respirante, dimenticanza di sé. Il tormento dell'equilibrio, nell'instabilità, è allora il punto nodale del libro; non tanto, si badi bene però, relativa ad una condizione umana tout court quanto così strettamente personale, appunto, da potersi rivelare solo raramente in qualche modo paradigmatica e dunque, per noi- anche per gli altri- illuminante. Volendo allora seguire le tracce di un discorso poetico così fortemente annunciato nella "ricerca del sublime" anche tra gli oggetti e i luoghi più oscuri del quotidiano, di una bellezza che per Enomis trova misura con la danza soprattutto ( oltre che con la musica e il canto ) letterariamente a suo dire legata in poesia colla giovinezza e al ridare nitidezza a ciò che è confuso, a sorreggere la lettura è piuttosto una fortissima malinconia, una dolenza di fondo che, sotto il dominio di un io che (come direbbe ancora Elio Pecora) sovrasta instancabile, ce lo rende alla fine più caro tra goffi propositi e fallimenti diurni, tra evanescenze oniriche e confuse idealità di notti infinite (con punte che ci ricordano qualcosa alla lontana di Lautremount e Laforgue) . Di più, lo riscatta, dicevamo, e ci cattura nella perenne sconfessione di un sé passivamente ed eccessivamente allo specchio. Vanità di viaggi, di visioni autodivoranti, di salite e di incontri di mare: è questo spossarsi continuo a chiedersi e a negarsi aiuto entro spirali di inaccessibili accordi, di irrivelabili risucchi a ricordarci allora (seppure non sempre nella volontarietà delle intenzioni) quella permanente inarrivabilità a se stessi che altro non chiede se non il cogliersi in mancanza, anche di speranza se fosse, sì.. come in "Tappeti di colore" dove nella struggente confessione ne fa "punto di partenza". "L'umano/ non si è ancora con fiducia abbandonato/ all'oscura e misteriosa memoria del creato", ancora (in "Rovine), a dire tra i denti- e in subitanea, mortifera dimenticanza- quel fluire pietoso, senza rancori né perdite, di un paesaggio che nel riconoscimento teneramente si leviga- e ci invita- "al carico di tutte le penitenze della vita" (di una vita che altrimenti "a volte, /assomiglia ad un'insonne/veglia funebre per la morte/ di un'innocenza che, in verità,/non si è mai verificata"- "Canto lugubre"). Forse allora, nella progressione del libro, nella consapevolezza che l'uomo "non può essere/ improvvisamente/ diverso" potendo"solo camminare nel mezzo della sua umanità" basterebbe essere proprio in questo, "minutamente" (come da omonima poesia), minuziosamente umani, dimenticandosi e annodandosi al mosaico divino in quel soffio per pochi istanti appena percebile ("quando il ritmo del respiro/ si accorda a quello della mente"- "La brezza azzurra") in quell'abbandono "al pensiero del creato,/ nella sua eterna creazione" che in "Magica contemplazione e melodioso presente" prorompe poi finalmente in canto "con una sconosciuta/ armonia di fondo:/ una magia di allegoria: una danza:/mancanza assoluta di prigionia". Mancanza di prigionia che si rivela allora per tenerezza, quella tenerezza che l'uomo all'uomo sovente nega a partire da se stesso, Enomis dimostrandolo- e mostrandolo- nel soffertissimo tentativo di suo scioglimento in parte realizzato e che ci pare il punto vero, la direzione interessante di una scrittura di cui non conosciamo, però, gli attuali approdi e a cui auguriamo (valendo anche per ognuno di noi) più umile pace.

 


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