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Tra consonanze a alterità

Argomento: Letteratura

di Rossella Cerniglia
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Pubblicato il 29/10/2013 08:58:20

 

                           TRA  CONSONANZE  E ALTERITA’

 

 

Sono sempre stata assorbita dal pensiero di ciò che è caduco. Per chi guarda al senso dell’esistenza è difficile allontanare l’idea e il sentimento di una estenuazione e di una fine. È un pensiero che vive di una lunga macerazione, di una estenuante malattia, di una morbosa e dolce, di una placida agonia. È un pensiero tanto intriso dei sentimenti di tutte le cose, dell’andare verso, del naufragare, del viversi in questa costante dimensione. Quietamente, beatamente trascina in quella conca cedevole della vita che è prossima al suo baratro. È, del dramma, la verità acquiescente che riposa in noi in un’amarezza pacata, trattenuta da un’ultima dolcezza. Di fronte ad essa ogni realtà cede la sua bellezza e la sua grandezza che divengono memorabili in virtù di essa.

   Con questo spirito accolgo la pienezza che dilegua, soffro il pensiero della potenza, della grandezza, della maestà che dileguano.

Il poeta spagnolo Luis Cernuda ha dato una bellissima e conturbante prova di esse, del senso di questo venir meno, di questo sfinimento, nella poesia intitolata “Il Cesare”. In essa è la grandezza che esala l’ultimo respiro, l’ultimo pensiero, l’ultimo sentimento, l’ultimo amore.

   Il Cesare sta su un’isola, su una rocca scoscesa, inaccessibile, sola dimora adatta a lui. Intorno è solitudine, lo seguono errabondi pensieri, ricordi fugaci, malate fantasie. Si dipanano con travaglio e lentezza, si districano inesorabili da quell’intricato viluppo che fu la sua vita vera, partecipata, attiva, per consegnarsi al giudizio presente. Egli sta con se stesso, “padrone di sé e in sé del mondo”. In un eremo custodito, ma ostile, in un ozio voluto ed attediato trascorre il suo ultimo tempo. Tutto è languore: lo riscuote, a volte, una sferza d’energia, un eros subito acquietato, tramortito  dall’estenuazione,  compresso dalla recrudescenza di un tormento implacabile. Ed è il turbamento di fronte alla fanciullezza fragile, sottomessa: “Pel piacere son vecchio. Voglio a volte,/presso la pubertà arresa, ricambiarla/ anch’io in modo perfetto. (…) “ma no: meglio (…) umiliarla, mentre striscio su di essa,/ come lumaca su petalo nuovo (…). Oppure è l’improvviso senso di pienezza che ha un risveglio, un guizzo; ma l’idea delle ancora intatte energie cede al senso del perituro, della senescenza, della fine incombente: “ In qualche istante/ sento la gioventù in me, piena, perenne,/ (…) E non sembrano gli anni già vissuti/ menomarla; (…) Ma poi, in un altro/  istante, l’incalzante tempo aggrava/ il fardello di cui vorrei disfarmi.” Il ripiegarsi dell’uomo sui propri pensieri, il discutere di sé a sé nell’ozio, il senso dell’esaustività d’ogni desiderio conduce ai confini del tedio e della nausea: ”Ma forse la sazietà non insidia/ tutto, amore e capriccio? / Perché incolpare, e di che, alcuno?” Il passato sembra stagnare, talvolta, in una zona lontana, rarefatta che è quasi estraneità, non appartenenza a quel che pure era. La lacerazione  svilisce il ricordo. Nel presente la paura lo assale. La paura che la quiete sia attentata dal pugnale nemico nascosto nell’ombra: “ Ma ecco suona cauto un calpestio/ (…) e m’angoscia un rumore inesistente/ ognora.” “E’ così debole ormai il vittorioso / che il peso di una piuma lo atterrisce.”

    Il suo discorrere lo conduce inesorabile tra passato e presente , tra odio e amore, lontano dalla gente, da ogni volto umano ”tirannia insopportabile” nella solitudine di un viversi estremo, interiorizzato e sofferto.

   Conosco un altro grande uomo che nei versi di un magistrale poeta, parla o potrebbe parlare una lingua affine. Una lingua imbevuta di sogno e di tristezze, di impazienza e rassegnazione, una lingua tanto umana che svilisca il passato, che attenui il senso d’ogni cosa in prossimità della fine. E’ il genio di Napoleone che nell’immaginazione del Manzoni ci appare, almeno per un attimo, non più nell’epopea guerriera, né nella sontuosa veste imperiale, ma in quella profondamente umana di una dimessa e chiusa sofferenza. Certo la grandezza della figura commisurata alla profonda solitudine e all’umanità del dolore acquista, come per il Cesare cernudiano, un fascino chiaroscurale nuovo che qui si fa sostanza stessa della poesia. “E sparve, e i dì nell’ozio/ chiuse in sì breve sponda,” (…) e ancora: “ Oh quante volte, al tacito/ morir d’un giorno inerte, / chinati i rai  fulminei, / le braccia al sen conserte, / stette e dei dì che furono/ l’assalse il sovvenir!”  Di fronte al vuoto e al senso di nullificazione e frustrazione presente è il passato, più o meno glorioso, a far sentire la sua voce, a rinascere e a rivivere nei suoi picchi radiosi e nelle sue ombre, nei suoi vertici e nei suoi abissi, nelle fortune e nelle miserie: “E ripensò le mobili/ tende e i percossi valli,/ e il lampo dei manipoli,/ e l’onda dei cavalli…” Ma è un passato diluito nella ormai fatale distanza dal tutto, nell’ormai fatale lontananza dalla stessa vita, è il senso insoddisfatto della fugacità e della vanità del tutto. E’ qui che poesia e poesia si fondono, qui che sentimento e sentimento si accorpano: nell’unica triste vicenda di una grandezza che declina portando con sé il senso di un universale dolore. Questo è il luogo dove ciò che non è detto parla grandiosamente attraverso pochi essenziali tratti. E’ qui sottesa la rassegnazione e la sconfitta, lo sconforto che chiude in un piccolo senso ciò che è stato grande, che offusca la potenza, il turbine del divenire e di un destino che ha scritto grandi cose. In questa pietas che scorge l’uomo – il grande, l’eroe, il potente – farsi piccolo e fragile nell’interiore vicenda di solitudine che apre il destino della finitezza e della morte è l’elemento quanto vuoi esile di comunione tra i due testi e tra i due personaggi. Il Cesare cernudiano potrebbe ben prestare parole e pensieri e sentimenti all’altro e viceversa, sebbene le esperienze dei due uomini siano diverse, e tuttavia accomunabili in una più profonda identità, in una comunione che non è certo dello stile né della versificazione, non della forma né del linguaggio, che rimangono l’uno estraneo all’altro, ma di consonanza spirituale di due grandi di fronte al declino e all’esperienza della fine.

   

                                                                                                             Rossella Cerniglia


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