Nel mondo della letteratura e in particolare nel settore della poesia, Giuliano Ladolfi è un nome riconosciuto e riconoscibile per autorevolezza. In primis per la sua opera poetica in proprio e quindi per la sua militanza critica extra-accademica ultradecennale, che negli ultimi anni lo hanno fatto approdare al ruolo di Editore, svolto con la fede nello spirito di chi ha sempre creduto nel valore delle lettere nelle more di educare l’uomo all’essere e al saper essere a prescindere da qualunque cosa faccia nella vita, alla ricerca di una tonalità che possa dare senso all’esistenza, nel combattimento diuturno avverso al nichilismo. Ladolfi è stato professore di ruolo nei Licei e quindi Preside. Mi si lasci dire che Ladolfi, -che sicuramente sarà più che contento del ruolo svolto-, a mio avviso, sarebbe stato un ottimo professore universitario e avrebbe sicuramente contribuito a dare all’accademia quel lustro, che, ahimè, negli ultimi decenni l’Università ha perduto per il fatto di essersi lasciata sfuggire personalità del suo calibro a tenere cattedra, poiché purtroppo per una gestione a dir poco fallimentare dei concorsi universitari e delle abilitazioni legata a nepotismi e clientelismi, non sempre si è dato libero accesso ai più meritevoli. Qualcuno potrà pensare che tale affermazione possa essere gratuita, magari legata ad amicizia, o a semplice conoscenza di Ladolfi, oppure a una qualche riconoscenza. Non è così. Dacché questo giudizio si basa da una parte sul curriculum letterario del nostro, ma soprattutto dal fatto che l’Opera che stiamo presentando in questa breve nota, La poesia del Novecento: dalla fuga alla ricerca della realtà, in ben cinque volumi, basterebbe a giustificare quanto appena affermato. Difatti La poesia del Novecento si profila come opera monumentale sulla poesia a noi contemporanea, tale da dover sicuramente lasciare il segno.
Nei corposi cinque volumi ci troviamo davanti ai numerosi saggi dedicati alla poesia italiana di tutto il Novecento fino ai nostri giorni, qui raccolti organicamente e armonizzati allo stato presente, pubblicati negli ultimi venti anni sulla rivista «Atelier», tra le più quotate Riviste di poesia, che è stata fondata da Ladolfi insieme all’allievo Marco Merlin, con il quale ha con-diretto la Rivista, circondandosi di numerosi collaboratori, per lo più giovani e provenienti anche dall’accademia, che ancora oggi contribuiscono a tenere in piena forma la rivista e il blog a questa collegato.
Certamente titanica e in qualche verso non esente da rischi, una operazione come questa di volere presentare un discorso organico sulla poesia del Novecento. Ladolfi, checché se ne dica, ci prova, per cercare di trovare un qualche filo rosso in una particolare dimensione estetica, che contempli anche la dimensione storica del presente della nostra civiltà in un confronto serrato con le correnti non solo letterarie ma di pensiero. Infatti dalla lettura dei cinque volumi emerge una critica che non si limita al solo discorso letterario, ma che spesso colloca questo discorso nella sfera filosofica, sociologica, psicologica, religiosa, teologica, etc. Insomma, il metro di Ladolfi ha più sfaccettature e cerca di trovare una misura di possibile com-prensione sullo sfondo di una ermeneutica veritativa, che soddisfi il tutto in un vero e proprio olismo culturale, nelle more di un nuovo umanesimo, in antitesi al pensiero analitico che ha scientizzato teoria e pratica fino a portare a un non-senso sul piano umano. Operazione che nel Novecento è stata spesso negletta dalla maggior parte di intellettuali, scrittori, poeti e critici, nella misura in cui la compie invece Ladolfi, che sapientemente sposta l’attenzione dalle opere come oggetto-struttura, che rischiano di perdere di vista e di delocalizzare l’artista, ricentrando lo scrittore e il poeta, da una parte, l’uomo e la persona, dall’altro. E non me ne vogliate, se mi azzardo a dire che Ladolfi è un critico “personalista”, dal momento che, anche con il recupero di un’estetica molto vicina al personalismo esistenziale di Luigi Pareyson, tenta di ricercare gli abbagli del Novecento e tramite il movimento antinovecentista prova a ri-centrare la persona del poeta in una realtà in cui la massificazione da una parte e l’individualismo solipsista dall’altra hanno portato a uno sfacelo destrutturante del mondo e della letteratura. Nell’ambito delle linee interpretative del Novecento, Ladolfi si pone infatti in una dimensione cognitivista, sia sul piano epistemologico sia su quello etico, che lo portano ad abbracciare “una estetica e una poetica a misura d’uomo”. Nelle more di approdare ad un orizzonte ermeneutico in cui finalmente prevalga il concetto, -dopo tanta “liquidità” e non-senso-, di una cultura letteraria in cui siano ben embricati sia l’opera che l’autore dell’opera. Per Ladolfi, “il valore dell’opera dipenderà dalla possibilità di ‘chiusura dell’arco ermeneutico’; se un solo segmento cede, tutto l’edificio ne resta coinvolto. All’interno stesso della validità artistica l’opera rappresenta un modo originale secondo cui l’autore ha interpretato il periodo in cui visse e la sua realtà di uomo unico e irripetibile. La sola perfezione formale, se non è segno di un cammino generale, rimane sterile e priva di significati”. Il vero artista, l’artista per antonomasia è, allora, per Ladolfi, quello che nella sua individualità e irripetibilità ha saputo “elaborare opere d’arte divenute testimonianza del cammino percorso dall’umanità”. E allora, e solo allora, la critica, nei termini ermeneutici gadameriani di un possibile dialogo, trova il suo significato e un senso, perché “la critica risulta momento di intellegibilità non solo del testo, ma anche di chi lo compone e in questo modo il critico diventa l’homo querens, il ricercatore inesausto di significati e verità”.
In particolare, nel I tomo, Dal Decadentismo ai nostri giorni, Ladolfi affronta in termini generali il problema della poesia italiana a partire dal XX Secolo per approdare ai primi anni del XXI Secolo, fornendo le categorie e i paradigmi teorici sui quali si muoverà nei tomi successivi nell’affrontare i singoli poeti inseriti nella sua ripartizione. Il punto nodale di tutto l’excursus sulla poesia del Novecento sta nel fatto della profonda crisi della cultura e della civiltà occidentale a partire dal mondo classico per trovare approdo nel momento storico in cui si ha contezza della crisi, il Decadentismo, quando si consuma “la più grande rivoluzione della Modernità” con l’evento princeps: “il divorzio tra parola e realtà”. Per Ladolfi, la “consunzione della parola” provoca scaturigini sul piano esistenziale. E l’ermetismo, in cui la parola poetica prende la fuga da una reale possibilità di comunicazione diretta, portando al rischio di un individualismo serrato nell’ineffabile della parola stessa, nel momento stesso in cui la gnoseologia viene sostituita dalla nuova scienza epistemologica, si perde la bussola anche dal punto di vista esistenziale e si dà il la ad un imperante alogismo e relativismo spinto che nella postmodernità condurrà all’individualismo e al solipsismo, nonostante già allora Wittgenstein ne avesse intravisto il rischio e il pericolo. Attraverso l’Ermetismo, il Decadentismo, letto da Ladolfi nell’orizzonte di una ermeneutica non solo letteraria, ma più ampiamente culturale e filosofica, proseguirà nel Novecento “nella linea avanguardistico-sperimentale che da Govoni giunge fino a Zanzotto”.
Per comprendere quello che è accaduto nel Novecento, Ladolfi sostiene che vi sia un punto cruciale, come ho detto più sopra, legato alla crisi della cultura occidentale, che giunge a consapevolezza nel Decadentismo, che provoca “il divorzio tra parola e realtà e si rivela nella linea, denominata Secondo Decadentismo o novecento, che da Corrado Govoni giunge fino a Zanzotto”. I poeti novecentisti (II tomo) sono Michelstaedter, Govoni, Corazzini, Gozzano, Palazzeschi, Sbarbaro, Campana, Quasimodo, Ungaretti, Montale, Porta, Rosselli, Giudici, Zanzotto.
Ladolfi sostiene che “mentre il Primo Decadentismo permetteva la fuga dalla realtà in un rifugio alla ricerca di un ‘minimo di vivibilità’, il Secondo si rassegna di fronte alla costatazione che la crisi della cultura occidentale sta distruggendo ogni possibilità di trovare un senso all’esistenza e di conseguenza di comprendere il reale, per cui all’artista non resta che rappresentare «ciò che non siamo e ciò che non vogliamo» (E. Montale) o giocare con le parole, con le forme e con i colori”. Siamo nella temperie dell’Esistenzialismo, nella quale la precarietà, l’instabilità etica ed epistemologica con la caduta delle certezze, insieme al concetto di “gettatezza” heideggeriana, pongono l’uomo, e in tal caso il poeta, in un mondo senza logica, lontano, nemico, per certi versi addirittura sgradevole, dove non abita il senso e il fine e dove l’esistenza pare affogare nel nulla, in quel nulla da cui si è venuti, in cui si sta e in cui si è destinati a tornare. Ne deriva la sartriana nausea e l’angoscia, che rimanda all’elaborazione di tutti i pensatori esistenzialisti a cominciare da Kierkegaard. In questa situazione, “la parola non riesce più a ‘dire’ il mondo e fugge o nell’Iperuranio, come avviene nell’Ermetismo, o nell’autonomia del significante, come nelle Avanguardie”.
I poeti, che non riconoscono tale discrimine e che non si ri-conoscono su questa linea, sono i cosiddetti antinovecentisti (III tomo): Saba, Rebora, Betocchi, Pavese, Caproni, Penna, Scotellaro, Pasolini, Fortini e Bertolucci, che tentano di seguire percorsi diversi dai novecentisti e, seppure con le dovute differenze tra loro, cercano di ricucire lo strappo e di rifarsi a poetiche, che abbiano fede in una parola che sia capace di “dire” il mondo.
Per Ladolfi, tuttavia, con questi poeti “l’opera di saldare la parola con la realtà non giunge a compimento, perché ci si limita a lavorare sullo stile, ignorando che la crisi riguarda le basi della civiltà occidentale”.
Il Novecento ha avuto, invece, per Ladolfi, i suoi maestri riconosciuti, “i quali hanno rappresentato in profondità la crisi della cultura occidentale e ne hanno indicato gli esiti”: Vittorio Sereni, Bartolo Cattafi, Pier Luigi Bacchini, Mario Luzi (IV tomo). I “maestri” sono coloro che “hanno saputo portare la poesia italiana oltre il “novecento” mediante una duplice opera di fondamento e di profezia”. Vittorio Sereni rappresenta l’uomo contemporaneo come “prigioniero” dell’intero sistema, politico, economico e culturale, che rasenta il camusiano “assurdo”. Bartolo Cattafi è, secondo Ladolfi, un poeta a torto trascurato, “uno dei più importanti poeti del Secondo Novecento per il fatto che ha poeticamente rappresentato la parabola della civiltà occidentale, ne ha esplorato gli esiti nichilistici e ha lasciato intravedere le linee della svolta”. Pier Luigi Bacchini, a sua volta, “presagisce la formazione di un nuova sintesi speculativa in grado di prospettare un’interpretazione del reale capace di superare le aporie dualistiche del pensiero greco e cristiano e di porre fine alla crisi della modernità”. Difatti, con la sua ultima produzione poetica, cerca di mettere riparo alle aporie della cultura contemporanea, uscendo dal pensiero “espressivo” per attingere al pensiero “rivelativo” (Pareyson), per cogliere in modo nuovo le istanze esistenziali, culturali, sociali e politiche dell’ Età Globalizzata. Ma chi ha saputo “saldare in profondità parola e realtà è stato Mario Luzi, il quale è riuscito in un’impresa, tentata invano da molti, perché ha “ricostruito” un senso per l’esistenza, per il mondo, per la storia, per il problema del male e del dolore, per la natura, superando la frammentazione e la “liquidità” postmoderna”.
Infine si giunge alla nostra epoca, la più recente, dagli anni Settanta al 2014, quella che Ladolfi definisce Età Globalizzata (V tomo), che comprende gli autori della Postmodernità, tra i quali “sono segnalati diversi giovani che inducono a sperare in una prossima fiorente stagione della poesia italiana”, che stanno cercando di andare oltre le avanguardie e gli sperimentalismi attraverso nuove vie. I poeti presi in considerazione sono nella Parte prima: Alla ricerca della parola perduta, Magrelli, Viviani, De Angelis, Buffoni, Pontiggia, Cucchi, Raboni, Conte, Oldani, Angiuli, D’Elia, Mesa, Deidier, Ritrovato, Riccardi, Ceni, Anedda; nella Parte seconda: La vertigine della parola “che dice”, Fiori, Franzin, Temporelli, Zuccato, Pusterla, Iacuzzi, Beck, Lucarini, Ielmini, Rivali, Cattaneo, Piccini, Italiano, Brullo, Fantuzzi, Nota. Ladolfi non intende assolutamente “tracciare un canone” del momento attuale, tutto in divenire, ma “esaminare una serie di poeti come portatori di una particolare istanza all’interno del difficile tentativo della poesia italiana di agganciare la parola alla realtà” in un periodo come il nostro devastato dalle problematiche sociali, politiche, economiche e, mi sia consentito, morali, dal momento che ci troviamo davanti a una vera e propria questione morale, dalla quale sembra impossibile venirne fuori. Anche nel mondo della letteratura le cose non cambiano sul piano etico, granché, di riflesso, e l’individualismo e il solipsismo, come recentemente ha sottolineato Alberto Asor Rosa, nel suo saggio Scrittori e massa (2015), hanno corroso sempre più le possibilità di dialogo, in primis degli scrittori, che non riescono più a dialogare tra loro e si disperdono in un “atomismo molecolare” annientandosi nella massa. Ma gli scrittori, a cui si riferisce Asor Rosa, sono per lo più i romanzieri e i narratori, dal momento che questi a un certo punto, riponendo fiducia nella poesia, afferma: “Si può rispondere alla massa, abbassando, invece di alzare, il tono di voce? C'è chi ci prova: la poesia”.
Anche secondo Giuliano Ladolfi nel nostro mondo “martoriato” la poesia lascia ben sperare, dal momento che sta avendo una svolta “realistica”, in quanto i poeti attuali, tra i quali molti giovani, “rifiutano una concezione autoreferenziale e ludica della poesia” e, in barba ad ogni scetticismo, concepiscono la poesia come “originale interpretazione del reale”, all’unisono con l’insegnamento dei “maestri”, per cercare di chiudere definitivamente con il Novecento, con una parola finalmente riagganciata alla realtà, che riapra spazi veritativi ri-posizionando l’uomo nel mondo, nelle more di ridonargli il senso dell’esistenza.
Certamente, quest’opera monumentale di Giuliano Ladolfi, nonostante la sua stessa estensione in cinque tomi, per complessive 1434 pagine, non riesce a fornire, e di questo ne è consapevole l’Autore stesso, tutto il panorama della poesia italiana contemporanea. Indubbiamente, sono state fatte delle scelte e ci sono molte omissioni riguardo i singoli poeti. Per quel che mi riguarda, ma questo conta poco, se non come esempio valido per ogni lettore, che potrà trovare discordanze con il proprio modo di vedere e di percepire e di interpretare e di includere o escludere i singoli poeti, ritengo che sia stato dato poco spazio ai poeti della scuola romana, e in genere della linea meridionale, rispetto ai poeti della scuola milanese, dove pure qualche nome manca, come per esempio, quello di Roberto Mussapi. E poi sono assenti tanti altri poeti come Davide Rondoni, che pure riscuote successo tra i giovani, e Umberto Piersanti col suo romanticismo-illuminista ereditato dal conterraneo Leopardi, dal quale ha preso il testimone come principale cantore contemporaneo del paesaggio naturale ed esistenziale delle Marche. Per tornare alla scarsa analisi dei poeti della scuola romana, basti fare qualche nome come quello di Dario Bellezza, di Elio Pecora, di Renzo Paris, di Gabriella Sica, di Claudio Damiani, di Dante Maffia, etc.
Va però detto che il titanismo di un’opera come questa sta anche nella scommessa di essere soggetta a critiche e Ladolfi di questo ne è più che consapevole. Ma vorrei spezzare una lancia nei suoi confronti, pur non condividendone alcune cose, per il fatto che le scelte da lui effettuate sono state tutte per lo più funzionali al discorso di base col quale ha cercato di mettere in evidenza come la poesia del Novecento sia stata caratterizzata dalla “fuga” dalla parola e dal suo significato e dalla sua ricerca di senso, determinata da una profonda crisi della cultura occidentale, per approdare ad una svolta che con “la ricerca della realtà” vuole mettere fine ad un’Epoca per andare “oltre il Novecento” nella misura in cui la parola si aggancia nuovamente alla realtà in una dimensione ermeneutica veritativa. Per qualche verso, possiamo dire che il fondamento da ricercare, con tutte le difficoltà del caso, sia quello di una conoscenza nuovamente intesa, secondo Tommaso d’Aquino, come adaequatio rei et intellectus. E non per niente, a me sembra di aver colto, come dicevo anche in precedenza, nelle pagine de La poesia del Novecento: dalla fuga alla ricerca della realtà, il tentativo da parte di Ladolfi di ravvisare la necessità, che si sta in qualche modo compiendo negli anni più recenti, di ri-centrare nel mondo della letteratura, dove vi era stata una delocalizzazione del soggetto, la persona con il suo logos e con il suo ethos. Al punto che la parola possa tornare a “volare alta” come ha insegnato la poetica di uno dei più grandi poeti del Novecento, quello che per Ladolfi è il “maestro” per antonomasia, Mario Luzi.
Insomma, Giuliano Ladolfi ci ha regalato un’imponente opera sulla poesia italiana contemporanea, un’opera che non potrà mancare negli scaffali degli addetti ai lavori, dei poeti, dei critici e comunque di chi ama la poesia e la letteratura. Un’opera monumentale con la quale dovremo fare i conti per rimanere nel presente pur guardando al passato e alla tradizione, opera nella quale Ladolfi ci ha offerto la sua interpretazione personalista (il riferimento è al personalismo filosofico del Novecento) della letteratura e in particolare della poesia contemporanea, che a mio avviso sia ora sia nel futuro, attraverso la sua Wirkungsgeschichte, non potrà non portare frutti sia nell’elaborazione delle poetiche sia nell’approccio critico e che, anche se l’Autore se ne è guardato bene per modestia a dirlo, ci permetterà di poter parlare con maggior cognizione di causa di un possibile canone per il presente e per il futuro.