Discorso tenuto in occasione della presentazione del libro, Roma, 8 aprile 2015
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Conoscevo già Leonardo Bonetti attraverso i suoi romanzi, la bellissima trilogia dedicata alle stagioni, iniziata con “Racconto d’inverno” che me l’ha svelato come autore capace e inusuale. Recentemente ha pubblicato “Una storia immortale”, confermando l’ottima impressione dei precedenti lavori. Oltre ai romanzi ho avuto il piacere di incontrarlo anche come costruttore e cesellatore di aforismi nella infinita raccolta “A libro chiuso”. Infinita nel senso borgesiano del termine, poiché incapace di un inizio e di una fine: circolare e mutevole, continua ad avvolgere il lettore come una sostanza cangiante e proteiforme, in grado di cambiare il senso di lettore e letto. Il classico libro da comodino, mai finito mai iniziato ma sempre letto.
Ora questa raccolta di racconti, “La quercia nella fortezza”, me l’ha presentato sotto una nuova luce. Il racconto, più o meno breve, dimostra, inequivocabilmente, la forza della parola bonettiana, parola ma anche filosofia e, oserei dire, una psicologia del Bonetti. Psicologia perché spesso, quando penso ai suoi testi, mi viene quasi spontaneo pensarli come parti di uno studio psicologico, uno scandaglio vivo, curioso e mutevole sull’animo e sulla psiche umani. I frammenti dei suoi libri sembrano vere e proprie particelle di psiche che affiorano, vedono la luce e illuminano, da angoli inattesi, le pulsioni, le reazioni, le attese umane. In Bonetti tutto è centrato, infatti, sull’uomo padrone del proprio destino, senza attendere l’intervento divino, che infatti è assente o presenzia in modo arcaico, quasi totemico, attraverso la sua emanazione più visibile: la Natura. E il divino non è mai padrone dei destini, artefice del fato o monarca dei sentimenti, della liceità delle posizioni. In Bonetti lo scettro del giudizio e delle scelte, con il suo inalienabile peso, è affidato all’uomo; all’essere – in senso di quintessenziale sostanza – umano, carico di dubbi, di incertezze, di paure e sogni. L’uomo guidato dalla luce, interiore ed astrale, capace di squarci nel cielo azzurro, a dispetto degli enormi nuvoloni che si addensano sulla testa di Leonardo, nel suo incedere su petraie, tra alberi, in foreste dalle quali si intravvedono corsi d’acqua, elementi molto ben presenti nella scrittura, mai come sfondo o scenografia ma come elementi vivi, la voce della natura si fa forte, si fa richiamo, monito e spiegazione tra le pagine.
Ho citato gli aforismi e i romanzi, ecco, penso che la nascita dei racconti si debba ad un “miracoloso” cortocircuito fra i due mondi. Frammenti strappati dalla carne viva della letteratura, immersi nella materia sfuggente e misteriosa del sogno, del ricordo e della fantasia propria dei romanzi, hanno dato vita a questa raccolta, “La quercia nella fortezza”.
La prima impressione leggendo? Ah la letteratura! che bellezza. Perché la mano di Leonardo è quella dell’orafo cesella ed accostata con gusto proprio raffinato, le frasi sono pensate, da orafo e l’orecchio bravura del bravo musicista fa sì che la melodia non stoni mai, le frasi si susseguono armoniche, con respiro sinfonico, sinfonia, che nei racconti si fa breve, concisa, urgente direi, ma mai affrettata o troppo stringata. L’autore si prende il suo tempo, racconta con calma, svela l’arcano del vivere con passo da alpinista, quel passo che, prima di posarsi, saggia brevemente il terreno per non posarsi su qualcosa di instabile. La scrittura di Bonetti qui ha una sorgente antica, trae linfa da quell’indimenticabile Novecento del Gadda, di Palazzeschi, Landolfi, si allunga fino a Moravia, ma inatteso si allinea al Giappone: ombreggia come Kawabata e ricorda Murakami. Le frasi hanno una bellezza cubista, le parole sembrano essere squadrate con perizia ma per non incastrarsi perfettamente le una nelle altre.
“Il cubismo non è il parallelismo”, e infatti, in queste costruzioni affascinanti, le forme e i volumi sono accostati in modo ammirevole ma mai scontato, in modo da far passare al lettore l’immagine esatta che l’autore vuole trasmettere. Ma improvvise giungono le famose metafore di Bonetti, a sbilanciare, a spostare il baricentro del sentire verso altezze o precipizi inattesi, quasi disarcionando il lettore, ma si sa quanto per un lettore l’inatteso sia fonte di godimento. Le metafore, rendono visibile lo spigolo del cubo, svelano lo slittamento tra i due piani di realtà, ma poi ecco arrivare un gerundio in soccorso di chi legge, a riportarlo tra le dolci note della musica del testo. Gerundio che, come un compasso, ricomincia a disegnare un cerchio e raccoglie in un abbraccio il lettore; sembra dirgli: non temere, anche questa è realtà, solo vista in un modo differente, ma vieni proseguiamo nella storia.
Il titolo di questo libro La quercia nella fortezza, racchiude due elementi tipici della scrittura di Bonetti, l’inespugnabile fortezza, baluardo inattaccabile, eterno, custode di misteri, richiama per esempio la misteriosa abitazione di “Racconto d’inverno”; e la quercia elemento apparentemente immobile che, invece, riesce a espugnare la fortezza, si colloca al suo interno.. Dicevo, poco prima, della casa del “Racconto d’inverno”: case, abitazioni, manufatti comunque umani capaci di racchiudere la storia, il sapere, ricettacoli di dubbi e di inseguimenti di speranza, contrapposti all’eterno sapere ed essere presente della natura. Lo svettare della quercia richiama gli alberi di “Racconto di primavera”, a formare un luogo eterno in cui essere al sicuro, elementi che ci parlano del nostro essere precari rispetto alla sterminata presenza nel tempo della natura. Alberi come monito all’uomo: “bada con me nascondi qualcosa che hai creato tu, uomo, ma ci sono io a vegliare”, sembrano dirci per fare in modo che le aberrazioni umane restino controllate, non provochino uno sbandamento eccessivo. La natura è molto ben presente nei racconti, soprattutto con un elemento che, forse, è la cosa più cubista che essa ha creato: le pietre. Cesellate, levigate ma sempre col loro carattere, fatto di forma e colori (sono le prime sensazioni che ho avuto dalla lettura). Certo, in un racconto fanno da sfondo alla vicenda, ma è per quanto ho detto prima che tutto il racconto ha un gusto, un suono vagamente petroso, e lo dico nel modo più positivo possibile. Cerco di spiegarmi, le pietre come elemento simbolico, di solidità, legame con la terra, col mondo arcaico, ma anche elemento alchemico, capace di cambiare quel che appare. E il suono, che producono, quel mormorio che si sente camminando su di esse, mai stonato, sempre in sincrono coi passi di chi cammina ma di volta in volta inatteso, come il suono delle fasi di questo libro. E nel suono delle pietre vi è l’eterno, i milioni di anni passati di piogge, di folate di vento, di gelate, di foglie posatesi e dissolte dal tempo ma in qualche modo rimaste impresse nella materia della natura. Così come Bonetti richiama questi milioni di mutamenti atmosferici per costruire il suo presente romanzesco, propaggine del “sempre” del tempo e che dal tempo risorge.
Passeggiando negli scenari, mirabilmente costruiti per accogliere le vicende narrate nei racconti, si ha l’impressione che il campanello di palazzo Guermantes continui a riecheggiare in una foresta e il viandante che vi si addentra senta, sulle sue labbra, l’inamidatura del celeberrimo tovagliolo proustiano portato dal vento. Così, in ogni angolo, risorgono, dallo scrigno fatto di passato, dei ricordi, delle sensazioni, prima fra tutti la Verità. Ed è la verità del sentimento a costituire la materia con cui Bonetti costruisce le sue scritture, è la verità che rende il romanzo capace di svelare il passato, renderlo presente e proiettarlo verso il futuro. Perché senza verità non vi è sentimento, i ricordi sono scatole vuote, le parole non sono romanzo – o racconto – sono ellissi disegnate su di una nuvola, sono parole spese nel vento. Le parole di Bonetti, invece, hanno la verità del vento, la verità dell’aria, la solidità dell’acqua perché sorrette da un sentire di sentimenti forte, vero, vissuto. Non immaginato ma vissuto, l’uomo esce di prepotenza dallo scrivere, diventa tangibile – tridimensionale – ed è la verità del sentimento a donare a un foglio di carta le dimensioni che gli mancano. Ritorno sul simbolo delle pietre, ben presenti in questa raccolta, che, insieme agli alberi, creano la simbiosi con la natura e, obbligatoriamente, con il passato, proiettando il presente verso il futuro. D’altra parte, come elemento alchemico, creano quel particolare istante in cui il piombo inizia a rilucere ed appare come oro… o forse lo diventa? Non si sa, ma è quel che accade nei racconti di Bonetti: basta un istante affinché il reale scivoli verso un reale differente, quel che era visibile assume un’altra forma, forse cambia di sostanza, o quel che cambia è l’occhio dell’osservatore. Un padre che forse non riconosce più i figli è perché sono cambiati loro – o gli occhi di chi li guardava e li ha attesi a lungo?
Vi è poi, nello scrivere di Bonetti, una ricerca di qualcosa che si è perduto, che potrebbe non ritornare più. Ed ecco quindi i bimbi, portatori dell’innocenza che non torna, ma che è ancora racchiusa dentro di noi; ecco i bambini riportare alla luce antiche domande che si credevano sepolte, antichi ricordi, arcaiche paure che si pensava di aver sconfitto. Ma basta uno dei quei piccoli slittamenti, di cui dicevo, per farle tornare vive e, forse, per farsi risolvere. Accanto alla ricerca di qualcosa che sfugge, a volte sembra essere la scrittura stessa che il Bonetti teme di non raggiungere. Forse un ideale più alto, dimostrazione di una costante ricerca, e di una continua attenzione al mondo circostante per trovare qualcosa o ritrovare qualcosa che è sfuggito. e con la ricerca giunge anche la domanda: ma anche cosa cerco cercando? cosa troverò? Veramente voglio trovare quel che cerco? Domande che simboleggiano una paura atavica e vibrano in questi racconti, si forse più che nei romanzi perché, nella brevità gli elementi si dissimulano meno, o perché Bonetti vuole che la paura sia un asse portante del libro. Sottolineo che non condanno la paura, non la giudico una debolezza, assolutamente no, è una forza: è umiltà, e mi ripeto, è la ricerca, è il volerla capire per sconfiggerla. La paura si guarda, se si è uomini, la si nasconde se non lo si è, e l’autore la guarda, la scruta ce la fa vedere perché vi combatte una lotta.
Ora vediamo, brevissimamente, la composizione del libro nel dettaglio, mi voglio soffermare un attimo sulle dinamiche dei vari racconti, due parole, anche se su ogni racconto ci sarebbe da parlare a lungo.
“Le due sorelle”, racconto d’apertura, suite sinfonica, magistrale overture, abbiamo proprio il tema della scomparsa, del ritorno, una scomparsa che giace dietro l’orizzonte del protagonista, il tempo, inteso come clima lo trae a sé (il protagonista) lo porta all’interno di un edificio ove avviene la visione, il riformarsi del ricordo, il risorgere dell’immagine, immagine che modifica la visione del reale e si fa ricerca e attenzione per vedere il ritorno E’ singolare che nell’edificio si debba scendere in uno scantinato, portarsi quasi sotto al livello del terreno: si scende per osservare dal basso una danza. Noi la natura la osserviamo dal basso, la danza delle fronde degli alberi la vediamo da sotto. Questa visione turba il narratore (Bonetti/protagonista) abbiamo una donna, ha abbandonato la casa–rifugio perché tradita, ed è scomparsa, morta. La scrittura abbandona l’uomo che non la comprende, la maltratta, ma, comunque sia, c’è sempre un uomo che ne è irresistibilmente attratto. Ora la deve ritrovare, e la ritroverà dopo parto ancestrale, dopo un immersione nel mito (il Novecento di cui dicevo prima) la letteratura/madre rinasce e chiede delle figlie: “Leonardo tu che mi hai capita e cercata come tratti le mie figlie? Come tratti la scrittura?”
“Così dopo averla ingannata (la guardiana/madre) ogni volta, mi calo nell’inghiottitoio giù nella pozza, dove le due sorelle mi conducono per mano al Liri che sbocca dal monte: un punto tanto, troppo vicino alla vita e alla morte da apparire davvero senza significato, danzante e a boccapesci; per questo, ogni volta, io canto mentre vado”.Canto o scrivo mentre vado incontro alla vita e alla morte, non conta, l’importante è la testimonianza.
“Zio Sorgo”, è una nostalgia, bellissima, vissuta con gli occhi dell’infanzia, verso l’infanzia strappata, racconto quasi onirico, di un ritorno che non può avvenire, perché mai è avvenuta la cesura del legame, lo strappo c’è stato, ma qualcosa resta. Qualcuno se ne è andato ma resta il legame e il legame coi vivi che lo alimentano, sempre attraverso la terra madre.
Ne “L’annegata” torna il tema della rinascita attraverso il ventre dell’acqua, lo slittamento fra chi resta e chi se ne va, chi ha abbandonato e chi invece rimane incredulo testimone. In questo racconto c’è forse il giacimento più ricco di dolore. La natura si fa quasi edenica, puledri, germani, il racconto si vena di sensazioni alchemiche, di tratteggi alla Andrei Tarkowskij, la simbologia è ricca: la pieve, l’oliva interminabile, per dare struttura ad un dolore senza eguali. Anche qua il racconto sembra essere un sogno, ma forse è chi sogna a generare una realtà onirica. È un racconto molto complesso, stratificato ma di una bellezza struggente, i simboli si susseguono incalzanti fra pietre, acqua e foglie, a costruire un mistero che solo uno sguardo innocente sa comprendere e celare. La ricerca, spasmodica, continua, che fa trovare, incontrare, qualcosa o qualcuno che si deve celare perché il mondo perché non lo capirebbe, ma che si annida nel cuore, dando nuovo sguardo agli occhi. “Lina le gira intorno per illuminarla con la sua luna ma da ogni parte trova, di fronte a se, una cortina di capelli, di linfe, di mari…” Quel che si trova non sempre – non subito – mostra il suo aspetto, ma resta compagno e guida.
“La quercia nella fortezza”, che dà il titolo alla raccolta, è il racconto a mio parere che più richiama Borges, cosa nasconde la quercia se non un umanissimo Aleph, in grado di illuminare e mostrare il mondo ad una bambina rinchiusa in sé? Trovo assolutamente geniale quel che trova dentro la quercia. Ma non so se posso rivelarlo e rovinare la sorpresa ai prossimi lettori. Comunque, in un mondo fittizio, che ha snaturato l’essenza della fortezza, la natura si riprende il suo posto, si sbarazza degli orpelli umani e ridona un frammento di un grande occhio tutto umano creato ed andato distrutto. Direi la cultura del Novecento prebellico, spazzata e frantumata dagli orrori della guerra che riaffiora nel grembo della natura e si offre a chi la sa cercare con occhi innocenti e non artefatti. Non cinematografici. Immagino Leonardo sgusciare furtivo la notte dalle mura della certezza per inerpicarsi su di una collina a cercare la luce misteriosa che lo guida. Immagino… per concludere aggiungerei che la condizioni di orfani è fortemente simbolica per chi si trova a fare cultura in un paese che ben poco dedica ad essa, soprattutto a chi emerge senza amicizie ed apparizioni televisive.
“Lisa e Leo”, è un dolcissimo racconto che ammorbidisce la lettura simbolista caricandola di realismo, un inno alla speranza, alla rinascita dalla morte, sotto altra forma, e tanto amore anche in “Libero”, amore non carnale, non procreativo, amore e dedizione verso il prossimo, in una cornice di periferia urbana che trasuda quel calore asfaltato delle domeniche estive in città a cui si contrappone la delicatezza delle descrizioni e la inusitata dolcezza di un tradimento singolare.
“Un treno perduto”, è un treno à la Durrematt, nella sua corsa qualcosa nella struttura spazio temporale si altera, il protagonista ne è prigioniero, non sa dove lo porterà questo misterioso viaggio, ma è ben deciso a difendersi e proseguire. Il racconto più metallico, unico, chiuso in uno spazio circoscritto, la natura scorre muta e separata, gli altri uomini sono forse ostili, forse ignari o disinteressati. La solitudine della ricerca.
“La terza cantoniera”, è più lungo degli altri, quasi un romanzo breve, quello più incastonato nella natura, una natura amica protettiva, di pietra e di montagna. La montagna, topos caro a Leonardo, qua ritorna e vi si accosta il tema del viandante perduto, accolto ma minaccioso. Vi è una pistola. Arrivano dei loschi figuri, che forse sono da sempre attesi, ma attesi sotto altre forme, con altri occhi, come dicevo all’inizio. Un racconto bellissimo, questo, che ho letto e riletto, che parla di una vita ai margini, di cosa sarà quando i nostri figli se ne saranno andati, chi aspetteremo. Quando i nostri libri saranno pubblicati cosa ci tornerà, chi verrà a trovare l’autore nel suo rifugio e portandone quale impressione? E l’autore sarà disposto, dopo anni, a riguardare in faccia i propri libri, o preferirà guardarne uno nuovo, giunto inatteso?
Chiude la raccolta “L’ombra del bambino”, ombra atta a mettere in risalto sia la luce che permea l’atmosfera, sia una oscurità che si cela nel cuore del bimbo. Fatti più grandi di lui ne hanno precocemente segnato l’esistenza, la sua vita è frugale, fatta di campagna e speranza. La speranza arriverà insieme a tre bambine che gli insegneranno a leggere per poter liberare la pistola che giace fra i libri. Gran finale bonettiano, aperto al domani, al futuro, nelle mani dei bimbi e verso l’alto, a bordo di una mongolfiera che già aveva forato l’orizzonte di “Racconto d’estate”.
Per concludere queste note, una riflessione su di un elemento che fa spesso capolino nei racconti della raccolta: la pistola. Presenza arcana, col suo metallo ed il suo peso sembra perforare le coscienze cadendo senza fine ma poi rieccola di nuovo salda, al suo posto, fra i libri, la ragione e il sapere fanno calare una palpebra immaginaria su quell’occhio nero spalancato verso gli uomini. La pistola è anche elemento catalizzatore del romanzesco europeo che si proietta a noi dall’ideale arcadia dell’Ottocento russo, ramificandosi in molteplici virgulti che fanno capolino qua e là ancor oggi fra le pagine dei libri. E quindi, per chiudere, anche in Bonetti la famosa pistola di Chechov: sparerà, deve sparare. Ma forse sparerà quando le luci del racconto si saranno spente, quando sulla casupola vicino alla montagna tutto tacerà, perché io credo la pistola rappresenti la grande paura di Leonardo, portavoce di tutti noi, la morte è in agguato. Non basta nascondere l’arma, essa esiste, è presente, quasi vigila, il suo occhio nero ci segue silenzioso e, prima o poi, porterà Jorge, il protagonista del racconto, verso il precipizio. Ma non finirà, si ritorna all’inizio della raccolta, due piedi danzeranno di nuovo sotto la pioggia, e dall’acqua l’annegata ritornerà, la madre chiederà ancora delle proprie figlie, il bimbo accanto al misterioso cavaliere ci donerà un ultimo sguardo e la letteratura consegnerà Bonetti e il suo bellissimo libro all’eternità, perché nella scrittura di Leonardo spira il refolo dell’essere indimenticabile.
Grazie a Leonardo Bonetti per l’ottimo libro e grazie a tutti per avermi seguito in questa passeggiata fra le mura di una fortezza verso le radici di una quercia.