“Dove siamo? Dove sono più le linee e i confini nei quali ci si riconosceva in questa zona a nord ovest di Roma? Qui e in altri quartieri della città e oltre, oltre ancora, sotto una neve mai così fitta e ostinata, il mondo sembra dissolversi.”
Nessuna direzione è il titolo della raccolta di tre racconti brevi di Domenico Vuoto, pubblicata dalla casa editrice “Il Labirinto”. Storie romane ambientate in una notte di neve del 2012: nella prima, “Bianco su bianco”, un’anziana signora decide di dare sepoltura alla sua gatta, proprio durante la notte della nevicata. La solitudine e la stanchezza di vivere accompagnano la ritualità di questo gesto estremo.
In “La prima volta” sono messe a confronto due generazioni, i loro conflitti e le loro contraddizioni. Adulti e genitori distratti, preoccupati di piacere, stereotipati anche nella cialtroneria intesa come segno di distinzione, tanto (forse) quanto la figlia ma lontanissimi da lei, dal suo mondo, dalla violenza infantile subita ma appena accennata e sulla quale invece sono cresciuti risentimento e rabbia.
Nell’ultimo racconto “Notte di gloria” i dissidi avvengono tra due giovani che si trascinano in una relazione torbida, consunta, di nuovo generatrice di una forte rabbia che esplode su un uomo “diverso”, negro. Quest’ultimo racconto fa simbolicamente calare il buio su tutto: i personaggi che si passano una torcia elettrica come fosse il testimone di una staffetta, che alla fine viene buttata via, in una metaforica rinuncia a “fare luce” sui sentimenti.
La neve di questa raccolta arieggia quella joyciana del racconto “I morti”. Rispetto alla neve di Roma, spesso corredata di allegrie e vacuità, questa è una neve spiazzante perché se da un lato è accompagnata da una toponomastica dettagliata, rivelatrice di un’approfondita conoscenza dei luoghi, dall’altro i personaggi denunciano la loro incapacità di trovarsi o di perdersi definitivamente.
La luce, quando c’è, non illumina veramente ma sottolinea un lucore di per sé spettrale, taglia il buio, da più corpo al silenzio ovattato, desolato che la neve diffonde, interrotto dal suono meccanico di un citofono, brusco richiamo per il lettore alla realtà dei protagonisti e al loro disagio di vivere.
Non è una neve che parla di giardini animati, di presenze infantili, di giochi e altre fatuità, ma di persone che escono di notte come se il dolore, la delusione, l’ipocrisia, la rabbia che le attraversano non si potessero mostrare altro che “a fine turno", come se la fine della giornata portasse con se la fine dei sentimenti. É un’umanità che non sarebbe fuori posto nel mondo di Carver, sola, frustrata, incapace di dare forma compiuta alle proprie emozioni se non attraverso squarci di violenza che si fa verbale oltreché di pensiero e materiale.
I personaggi che abitano questa Roma sono monadi, incapaci di entrare in relazione tra di loro, mondi che restano distanti anche quando siedono sulla stessa panchina. L’autore è però sempre abilissimo nel coglierne stati d’animo e pensieri con accuratezza e precisione; sia che si tratti di vecchi, adulti, o giovani tutto è narrato senza sbavature, analizzato con acutezza e senza alcun pietismo.
La neve rara e passeggera, che travolge i romani con allegria infantile, con la retorica dello spasso, è lontanissima da questa narrazione: qui essa cade copiosa ma non ha alcun effetto purificante o consolatorio, copre ma non appiana, mette a nudo fratture, desideri che nascono ma non decollano, frustrazioni. Al lettore arriva il dolore, ma è un dolore freddo, frutto di fallimenti, di mancate relazioni, un dolore che non lascia scampo, in cui neppure l’ironia, che di solito accompagna i racconti di Domenico Vuoto, riesce a farsi spazio.
Joyciano è in parte il linguaggio che - coerente con l’ordito dei racconti - non guida in alcuna direzione, ma anzi costringe chi legge a tornare indietro e rileggere o a proseguire per disorientarsi ulteriormente. Linguaggio aspro, tagliente e frammentato ma sottoposto a quella piena vigilanza sulle parole che contraddistingue la scrittura di Domenico Vuoto.
Sul lettore rimane la sensazione di forte sperdimento, avvolgente come la neve che cade maestosa, solenne e indifferente sui personaggi dei racconti.