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La voce e il cinema: Arnoldo Foà attore cinematografico

Saggio

Alessandro Ticozzi
Edizioni Sesnsoinverso

Recensione di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 13/01/2015 12:00:00

 

Arnoldo Foà: La personalità della sua voce nel cinema italiano

 

«Un attore così, chi ha avuto la fortuna d’incontrarlo lo sa, bastava creare la situazione per ottenere immediatamente reazioni misurate e in perfetta sintonia con il personaggio … Un uomo dotato di un’ironia tagliente, un finto burbero, molto dolce in realtà e con un senso critico assolutamente disarmante ed esilarante: saltava agli occhi la modernità della sua testa, sempre viva e stimolante grazie a una vivacità intellettuale e a una curiosità per il genere umano incredibile. Un uomo positivo, molto colto, raffinato - a dispetto delle sue provocazioni - e con un grandissimo senso del rispetto per il lavoro degli altri, specie se appassionati e professionali …Un vero professionista, da prendere a esempio.»

 

La nota in calce è di Luciano Melchionna, regista, che ha avuto la fortuna di lavorare con Arnoldo Foà in più di un’occasione e che ci ha fatto dono di una tra le più ‘emozionanti’ pagine del cinema italiano: nella figura del nonno muto in ‘Ce n’è per tutti’ (2009). Lui ‘la voce’ per eccellenza del cinema italiano, ma anche la maschera irraggiungibile di molte pellicole da ‘non protagonista’ diretto da grandi registi dello schermo; colui che ha dato ‘la voce’ in qualità di doppiatore ad artisti di levatura internazionale come Peter Ustinov, Anthony Quinn, Toshiro Mifune, John Wayne, Broderick Crawford e numerosi altri; si è ritrovato privato della sua stessa ‘voce’. Ma sarebbe un errore non da poco valutare quella sua ultima apparizione sullo schermo come una dismissione di ruolo che ne sminuisce le capacità intellettive di attore consumato o che, superati i novanta, non abbia più nulla da dire.

 

Al contrario Foà nel cammeo del ‘nonno muto’ raccoglie cent’anni di cinema italiano, che lui stesso ha contribuito a costruire passo dopo passo, ma è forse meglio dire, interpretazione dopo interpretazione, sui palcoscenici dei molti teatri che ha calcato, a diretto contatto con quel pubblico che fin da subito ne ha stimato le qualità di attore, le sue straordinarie capacità d’interprete, la ‘personalissima’ voce che lo distingueva da tutti, tale da essere ‘unica’ riconoscibile anche in una sola vaga battuta. Ed è anche sbagliato dire, come ho appena fatto, una ‘vaga battuta’, perché non accadeva a Foà di pronunciare una sola ‘nota’ fuori del pentagramma, una sola parola o fosse anche una semplice esclamazione, che non aderisse alla battuta di uno ‘pseudo copione’ preordinato del personaggio che interpretava.

 

Le sue interpretazioni sono memorabili, incisive, esito di un attento studio, passione e misura drammatica elette..” rammenta Alessandro Ticozzi, autore del libro “La voce e il cinema: Arnoldo Foà attore cinematografico” (SensoInverso 2014), rieditato in occasione del primo anniversario della scomparsa del grande attore; sia che scaturissero dalla penna di Plauto, di Aristofane, di Shakespeare, di Calderon de la Barca, di Gogol, di Shaw o di Pirandello; come da quella di Leopardi, di Garcia Lorca. Jean Cocteau o Rod Mackuen; sia di Menotti, di Costanzo o di Alessandro Baricco. La sua ‘voce’ riusciva ad esprimere una certa visione del mondo che sarebbe risultata autentica nel rivelare un ‘proprio stile’ di conversazione con il pubblico teatrale, radio-televisivo e cinematografico, ed anche registico e scrittorio.

 

Già, perché altri aspetti meno conosciuti se non dagli addetti ai lavori e non solo, ai quali il libro su Arnoldo Foà è dedicato, ci rammenta inoltre essere stato scrittore ironico, regista e produttore di autori classici e contemporanei, oltre che di se stesso. Nonché che è stato diretto da registi di teatro del calibro di Luchino Visconti, Luigi Squarzina, Giorgio Strehler, Guido Salvini, Luca Ronconi e Roberto Guicciardini. Ma si vuole qui parlare di cinema e allora non si possono non citare i registi che lo hanno diretto fin dalle sue prime pellicole che pensate risalgono agli anni ’30 del secolo scorso. Più esattamente Alessandro Blasetti che lo diresse in ‘Ettore Fieramosca’ (1938); Pietro Germi in ‘Il testimone’ (1945); Ignazio Ferronetti in ‘Fuga nella tempesta’ (1947); Mario Camerini in ‘La figlia del capitano’ (1947); e poi i numerosi film di Mario Mattoli del quale mi piace ricordare il film di cappa e spada ‘I cadetti di Guascogna’ (1950); e Joseph Losey in ‘Imbarco a mezzanotte’ (1952); Christian-Jacque in ‘Lucrezia Borgia’ (1953); Mario Soldati ‘La mano dello straniero’ (1953); Mario Monicelli ‘Totò e Carolina’ (1955); Carmine Gallone ‘Cartagine in fiamme’ (1959).

 

Ma è anche il caso di citare Orson Welles che lo diresse in ‘Il processo’ (1972); Damino Damiani in ‘Il sorriso del grande tentatore’ (1973); Giuliano Montalto in ‘Il giocattolo’ (1978); Paolo Costella del demenziale ma altrettanto piacevole ‘Tutti gli uomini del deficiente’ (1999) con la Gialappa’s Band; Ettore Scola del quale mi piace qui ricordare ‘Gente di Roma’ (2003); fino ad arrivare ai giorni nostri con Citto Maselli di ‘Le ombre rosse’ (2009) e, ovviamente Luciano Melchionna di ‘Ce n’è per tutti’ (2009). Non in ultimo Maurizio Sciarra, regista cinematografico che lo diresse in ‘Quale amore’ (2006) un dramma psicologico ispirato a Lev Tolstoj ha detto di lui: “Grande uomo e grande attore non sempre sono doti che si trovano nello stesso corpo. Ma in Arnoldo coesistono, perché c’è una grande anima. E la passione per il suo lavoro, la sua abnegazione, la sua gioia di recitare, ti fanno sentire a tuo agio. Sono anche io uomo di poche parole, ma con Arnoldo ho avuto subito la sensazione di essere a mio agio, amato e apprezzato. E questo per un regista è un dono impareggiabile.”

 

L’elenco qui riportato della sua filmografia è necessariamente incompleto in ragione di una scelta programmatica rilevante solo i nomi più conosciuti tra italiani e stranieri che meglio rendono la grande diversità dei ruoli e il suo impegno artistico. Diversità di ruoli che in Arnoldo Foà non significava diversità di ‘impostazione di voce’ bensì di ‘colore’ o meglio di ‘tessitura’, in cui il ‘tono’ egli raramente spingeva oltre il proprio limite naturale, se non quando per esigenze di copione era costretto a gridare (shout) e, pur tuttavia, mantenendo un suono nitido, benché ‘tenuto’, rappresentativo di una voce ‘ideale’, decisamente maschile, capace di grande espressività. Una voce inconfondibile, soprattutto una voce impostata come la sua, ha sempre il dono di essere estremamente ‘leggibile’ ora modulandola a suo modo secondo il ruolo che interpretava, ora a seconda della forza interiore che egli intelligentemente esprimeva nel personaggio interpretato. Risulta che pochi siano stati i suggerimenti dati a Foà dai registi sull’interpretazione di questo o quel personaggio; senz’altro inferiori a quelli che egli stesso ha trasmesso loro nell’interpretarli magistralmente, cosa che gli veniva spontanea.

 

Foà stesso si trovò a dire: “Se non vengo utilizzato in cinema come mi spetterebbe, data la mia capacità (modestia a parte), è perché i registi, specie quelli nostrani, si trovano imbarazzati di fronte a me per i suggerimenti che accettano dato che sono costretti a riconoscerne il valore, ma che si seccano di dover subire”. Un esempio, qui riferito da Giovanni Soldati che lo diresse in ‘L’attenzione’ (1985): “Spesso Arnoldo proponeva sfumature differenti, e io ho sempre accettato consigli da lui. Persino al doppiaggio Arnoldo proponeva versioni differenti, e io accondiscendevo. Io ho sempre fatto come voleva lui e poi, anche, come volevo io.” Ciò la dice lunga sul perché Arnoldo Foà tutto sommato non sia stato utilizzato al meglio dal nostro cinema che lo ha relegato, per così dire, a secondi ruoli relativamente ‘importanti’ che ne hanno in parte offuscato la grandezza.

 

Ma se la voce di Arnoldo Foà rappresentava esattamente la persona che la possedeva, i suoi occhi non erano da meno. Spesso considerati lo ‘specchio dell’anima’, egli “...recita con lo sguardo, con la mimica, con il corpo, limitandosi a fissare quello che accade intorno”, a dimostrazione che il suo ‘guardare’ era pregno di quel carattere arguto e ironico che egli esprimeva come persona, di per sé attraverso gli occhi. Talvolta inquietanti, indubbiamente espressivi di un’intelligenza viva. Come ebbe a dire Ettore Scola che lo ha diretto in ‘Gente di Roma’ (2003) quand’era già avanti con gli anni: “Anche il carattere è importante in una persona, e quello di Arnoldo è vivo e intelligente: è un intellettuale, come dimostra anche nei suoi libri, e anche questo ne fa una persona completa e affascinante nell’interagire col pubblico.

 

Quello stesso pubblico sempre più numeroso che lo ha applaudito in ‘Novecento’ di Alessandro Baricco per la regia di Gabriele Vacis, al cui personaggio la natura d’attore e l’uomo Arnoldo Foà ha restituito quella credibilità che forse il romanzo in origine neppure aveva, benché reduce da un grande successo di critica e di pubblico a livello internazionale: “La mia idea sarebbe quella di farlo da fermo ...  non dovrebbe muoversi questo personaggio, perché è un personaggio che parla, che ricorda ...  Novecento è un ricordo continuo di un qualche cosa che ha fatto vivere questo personaggio. Lo ha fatto vivere in corrispondenza, naturalmente, di quello che ricorda … E stranamente è come se lui non esistesse. Come se questo personaggio - Novecento - che lui ricorda con tanta intensità fosse … fosse lui stesso. E questo è quello che dovrò fare. Dovrò far capire chi è questo personaggio che mi ha colpito talmente da farmi addirittura invecchiare col ricordo di sé … Non sono più neanche ricordi suoi, è come se lui vivesse quello che ha vissuto il personaggio che sta ricordando. L'interessante di questa storia, è che il protagonista non esiste, non c'è. Il protagonista è ricordato, rivissuto … da me. Dovrò studiarmelo bene. Per entrarci dentro. Io spero che dopo quello che riuscirò a fare, si dica che sono un artista. Lo spero. Peggio per voi se non l'avrò saputo fare: non saprete chi era il personaggio di cui vi parlo e meno che meno chi sono io.”

 

Alessandro D’Alatri che lo ha diretto in ‘La febbre’ (2005) ha detto di lui: “L'esperienza umana e professionale di Arnoldo è davvero straordinaria. È uno dei più importanti testimoni artistici della nostra storia contemporanea. La cosa che mi ha sempre colpito è la sua attitudine alla "leggerezza". Il suo approccio, sia al set che alla vita, avviene sempre con la delicatezza dello sguardo di un bambino. È un insegnamento che noi tutti non dovremmo mai trascurare. Arnoldo Foà ha una sua età anagrafica, ma in realtà ha conservato un atteggiamento adolescenziale. Nulla lo sorprende più di tanto e tutto lo interessa. Quello che però lo rappresenta più di tutto è il suo sguardo ironico, e allo stesso tempo implacabile, sulla società, la vita, la storia.

 

Ed a noi piace ricordarlo così. Grazie Arnoldo!

 


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