Pubblicato il 10/08/2013 08:03:57
‘Giorgio Gaber : Il teatro del pensiero’ di Mauro Germani – Editrice Zona 2013
All’origine era il Teatro. “Ogni giorno sperimentiamo una crisi che sembrerebbe imporre alla cultura un ruolo marginale rispetto ai disagi economici e sociali dei nostri giorni. Questa situazione rischiava – e rischia – di paralizzarci dentro un grande sogno irrealizzabile, la globalizzazione un ostacolo e Internet la morte dell’intelligenza?” – si chiede Monique Veaute Presidente della Fondazione Europa per l’Arte e la Cultura. Alla quale, sono certo, sarebbe piaciuto presenziare a un evento ‘gaberiano’ che già nel 1967 comprendeva – o meglio restituiva – al Teatro ciò ch’era del Teatro stesso, cioè all’Arte di fare Teatro l’originaria ‘utilità’ della comunicazione. Quell’essere presenza/assenza di un Tempo ‘dentro e fuori’ del Tempo, partecipe quindi del presente ‘attuale e futuro’ esposto, ma che possiamo anche definire in astratto ‘sospeso’ in una ambientazione costruita sul quotidiano, e per questo all’occorrenza intercambiabile a seconda dei casi e delle necessità. È così che arriviamo a parlare di ‘spazi’ o meglio di ‘campi’ di attività teatrale non già ‘sperimentale’ come si è voluto chiamare in certi anni (’70 - ’80), bensì ‘di evocazione’ nel modo in cui la intercetta Mauro Germani autore di questo libro sull’indiscusso protagonista teatrale ch’è stato Giorgio Gaber. Anzi, uso qui una terminologia fin troppo abusata ma che ben si attaglia al personaggio, riferito a quell’ ‘animale da palcoscenico’ che Gaber ha rappresentato nell’ambito della scena teatrale italiana. ‘Campi’ dunque, che sono tipici della comunicazione fin dalle origini del Teatro: il canto, la musica, la gestualità, la danza, come lo erano - e lo sono – la recitazione e l’arte del dicitore a cui l’auditorium e il teatro si offrivano come ‘spazi/campi’ di intercettazione e valorizzazione del quotidiano ‘sentire’, corrispettivo del più moderno ‘comunicare’. Perché è insito del comunicare la dicotomia ‘farsi ascoltare’ ed ‘essere ascoltati’, cioè seguiti ed ‘avere/dare’ seguito a un pensiero, a un’idea o un progetto, ed anche a un credo religioso o un’ipotesi rivoluzionaria, attraverso l’uso esclusivo della parola, ancor meglio se assecondata dalla musica o dal canto. Fanno testo i tanti jingles’ e sigle che accompagnano gli spot pubblicitari, i leitmotiv cantati che ripropongono i prodotti più accreditati, gli inni nazionali, i canti devozionali, quelli di protesta ecc.. Tutti, o quasi, che legano il ‘fare’ con il ‘pensiero’ del fare, del ‘dire’ con il divenire. Questa, in breve, la grande intuizione del ‘fare teatro’ di Gaber/Luporini: restituire all’ambito teatrale ciò che era insito nel Teatro già ai tempi di Aristofane, cioè l’autenticità della ‘comunicazione’ diretta, l’impatto fisico del dicitore con il pubblico, l’emotività, la sensualità, la violenza risolutamente astratta della parola, in cui il piacere dell’urto sonoro scansa le solitudini del nostro tempo, rigenerandosi e aprendosi al futuro. E quale è questo ‘futuro’ che ci sembra astratto? – si chiede l’autore del libro, se non questo squarcio di Tempo in cui viviamo. Qual è il ‘campo’ in cui troviamo l’esattezza assoluta delle parole, se non dentro le parole che comunichiamo. Per questo dovremmo ascoltare di più e, al contrario di quanto si dice, non parlare di meno ma, forse, parlare più correttamente, affinché gli altri – tutti gli altri – possano capire. Solo allora potranno essere cancellate le differenze di genere, di razza, di colore della pelle e le parole, sia quelle dette che quelle cantate, troveranno un senso comune, più alto e universale. Tutto questo – e molto di più – è racchiuso nel Teatro ‘evocativo’ o se preferite ‘evocazionale’ di Gaber/Luporini, nei testi che l’autore cronologicamente affronta e che differisce al presente come fossero di oggi “tra sradicamento e mistero” ponendoli “al centro della vita” quotidiana s’intende, in questa sorta di “società capovolta” in cui l’indignazione del presente presagisce un più cupo futuro di crisi, di interdizione per un “volo mancato”, per l’ “assuefazione” che incombe; quella “mancanza d’essere” che ci consuma, come una malattia che ci toglie la mente e il corpo, l’esistenza, la “libertà”. Questi i grandi temi racchiusi e affrontati nelle pagine di questo libro che rendono il ‘pensiero’ di Gaber al Teatro, alla Musica, all’Arte del ‘fine dicitore’ seppure qua e là un po’ impacciato, intimidito – più che timido – dalla grandezza dello spirito. Chi altro avrebbe potuto scrivere versi delicati come quelli contenuti in una sua canzone qui presa ad esempio: “Non arrossire, quando ti guardo..”, e sì, c’è anche un Gaber ‘evocativo’ che va osservato all’interno di un altro percorso artistico – uno dei molti frequentati dall’autore – che non dobbiamo dimenticare, ed è quello della musica.
Come scrive Mauro Gaffuri nella Premessa: “Fare oggi il punto su una figura così importante (..) ci aiuta parecchio in questo intento. La disamina distingue col dovuto scrupolo tra ‘Teatro Canzone’ e ‘Teatro d’Evocazione’: due facce di una stessa medaglia. Due generi scaturiti da una medesima tensione esistenziale, votati a interpretare il mondo secondo stilemi drammaturgici innovativi. Medesime le istanze, identiche le intenzioni, coincidenti poetica programmatica e poetica in atto: cambiare il mondo in cui viviamo, mutare l’uomo che lo abita, descrivendolo, e a volte attaccandolo, nella sua sfaccettata identità comportamentale”. Penso qui di poter sottolineare la parola ‘tensione’ sapientemente utilizzata da Gaffuri per affrontare un altro argomento che mi sta a cuore e riferito a Giorgio Gaber autore di canzoni di successo e uomo di spettacolo ‘distinguibile’ dalla massa dei cantautori nostrani per la sua originalità e pur tuttavia accomunabile, per certi versi a una corrente o, se vogliamo, a un genere – altro campo di intermediazione linguistica – molto frequentato dai suoi contemporanei: il Teatro-Cabaret con i suoi sconfinamenti nella canzone popolare, la satira socio-politica, il nonsense della comicità surreale e, non in ultimo, l’umorismo anticonvenzionale. A questo si aggiunga che l’ambiente milanese del tempo, all’incirca degli anni ’70 e ’80, era vivo e stimolante, si pensi che si muovono sulla scena personaggi del calibro dei: I Gufi, Dario Fo e Franca Rame, Enzo Jannacci, Cochi e Renato, tanto per citare i più famosi, che affondano la loro ragion d'essere nella cultura popolare - e contestataria. Artisti che hanno dato al teatro leggero italiano e, in qualche caso internazionale, una svolta decisiva di una certa TV divenuta poi volano ‘intelligente’ per sketch e short-story di grande successo che perdurano ai nostri giorni. A questo proposito Germani riporta le parole di Giorgio Casellato, amico da sempre di Gaber, direttore musicale e arrangiatore di tutti i suoi spettacoli: “La canzone non è e non deve essere solo parole, così come non è e non deve essere solo musica. Parole e musica sono tutt’uno e arrivano alle nostre orecchie ed alla nostra sensibilità insieme, unite da una magia particolare. Certo, a volte possono colpirci di più le parole, altre la melodia, ma non si possono separare le une dall’altra. L’effetto che producono deriva proprio dalla loro unione e Gaber ne era consapevole”. Questa considerazione si attaglia a tutto il vissuto artistico di Giorgio Gaber assolutamente “non prigioniero di un dualismo ingiustificato” che lo voleva autore di canzoni popolari e teatrante impegnato pseudo-rivoluzionario, proletario ingiustificato che insegue ideali non suoi e tuttavia universali: la realtà, la libertà, la necessaria indignazione. Tutto questo ha un nome, oltre a seguire un certo aspetto dettato dalla moda del tempo? La domanda trova una sua certa legittimità se ci si pone davanti a una potenziale forma di ‘anarchia’ che contrasta con la società in cui si è costretti a vivere e nella quale l’ ‘umanità’, il ‘grigio topo’ gaberiano, si sente prigioniero, come animale nella tana che affronta i suoi dubbi e i suoi perché, in assenza della sua stessa presenza, in cerca dell’esattezza assoluta che possa riscattarlo. Grazie Giorgio per essere ancora con noi, anche se racchiuso nelle pagine di questo piccolo/grande libro. Un amico.
Mauro Germani è autore di opere di poesia e narrativa, fondatore nel 1988 della rivista di scrittura, pensiero e poesia 'Margo' che ha diretto fino al 1992. Notevoli sono i suoi interventi critici su aotori classici e contemporanei. Altre sue opere sono: "Terra estrema" (in versi) per i titoli del L'Arcolaio 2011 e "L'attesa e l'ignoto" (curatore)per Dino Buzzati, L'Arcolaio 2012.
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