Dalla lettura di “Poesie del terrore”, alla scrittura di queste mie impressioni sul lavoro di Saverio Bafaro, sono passati alcuni mesi. È un’opera che mi ha messo in una condizione di profonda riflessione riguardo al lavoro di ricerca poetica dell’autore.
Abbiamo letto Bafaro nella sua raccolta “Eros corale”, LaRecherche.it, 2011, caratterizzata da una sorta di spregiudicatezza, fine e talvolta ironica, che troviamo anche in “Poesie del terrore” ma leggermente domesticata, in forza di una maturazione personale e poetica che inizia a bilanciare il fervore dell’età giovanile con la saggezza che naturalmente si afferma nella vita di un artista.
Bafaro realizza, con questo nuovo lavoro poetico, un progetto ambizioso. Più facile osservare il reale dall’angolatura suadente dell’Eros e legare a sé il lettore in rielaborazioni del reale, più difficile farlo dall’angolatura molto particolare del terrore, non avendone mai fatta l’esperienza diretta. Ho chiesto a Saverio il perché di una tale scelta: “Hai mai fatto l’esperienza del terrore?” Si tratta di qualcosa che va molto oltre la paura, di cui la maggior parte di noi, per fortuna, non ha fatto esperienza diretta. E nemmeno Bafaro ne ha fatta, almeno a sua risposta, e ciò si nota nei suoi versi, ma la raccolta non vuole certo essere la narrazione di una esperienza, per quanto certa poesia persegua con successo tale linea, ma semmai la rielaborazione personale e originale della sensazione latente di forte paura incontrollata che dalla superficie della nostra vita reale permette di scendere in profondità vertiginose e archetipiche.
In “Eros corale” il punto di vista del poeta, sulla realtà particolare che si prefigge di elaborare interiormente, rimane legato a una piacevole modalità descrittiva-esperienziale, nel senso che si tratta di situazioni più facilmente esperibili, se non altro immaginabili. In “Eros corale” la poesia di incipit è la seguente:
Avvenne la potenza
superlativa paura d’estasi
che spinse oltremodo
il prepuzio dell’Essere
insorto, dilatato nelle pareti
a varcare la soglia
conoscendo ogni voglia
disegno, volontà, foga
In questi versi, il poeta, accenna il manifestarsi di un’ombra sottile di paura, ma subito sublima in piacere, allontanandosi decisamente da quella strada bieca verso il terrore, per porsi nel gioco della gioia amorosa ed erotica dei corpi.
Conosciamo Saverio per la brevità dei suoi testi, per la fermezza e l’audacia che li caratterizzano, la sua è una scrittura esatta, nell’assenza quasi totale di punteggiatura, per tali motivi, ad un lettore sprovveduto, potrebbe passare per la testa che si tratti di una scrittura immediata, ma è invece cesellata e sotto ogni parola ribolle un significato, o forse più. Saverio elabora il mondo attirandolo nel suo vortice interiore (psicologico), i suoi testi hanno una funzione di trasferimento, rispondono a un codice precisamente elaborato dal poeta, un vero e proprio algoritmo attraverso il quale Bafaro prende l’inconscio del lettore e lo lega al proprio, poi si cala nel sottosuolo attraverso il pozzo in cui siamo abituati solo a calare, di tanto in tanto, un secchio per abbeverarci nella siccità del quotidiano, Saverio in quel pozzo ci si cala di persona per mezzo del corpo esteso della propria poesia, ed è disposto a portarci con lui; si tratta di una esperienza poetica non sempre agevole. Nel sottosuolo il perbenismo si deteriora, sgretolandosi insieme alle più asfissianti sovrastrutture; le intime pulsioni, i serpenti che vivono nel nostro sottosuolo, vengono a raccolta, c’intimoriscono, ma poi ci rendiamo conto che ci appartengono, noi siamo anche quello, il poeta ci sta donando una opportunità di conoscenza.
La poesia d’avvio di “Poesie del terrore” è:
Al mondo
la mia peggiore delle doléance
subito seguita, nella pagina successiva, da quest’altra:
Figure in negativo appaiono
nel retro oscuro delle mie palpebre
Il poeta avvia cioè il suo nuovo lavoro poetico con una accusa al mondo (la mia peggiore delle accuse) e chiudendo le palpebre stabilisce una divisione da esso; ribalta la visione andando a cogliere, del mondo, il pieno negativo, entra in quella che è la prospettiva del terrore: un mondo terribile è proprio quello in cui viene invertita ogni positività e privato del simbolismo della sua luce. È infatti proprio la luce ad allontanare la paura dall’uomo, generatrice del primo angosciante panico necessario al primo passo verso il terrore. Si sa che i luoghi, nel buio della notte, diventano instabili, poiché dentro di noi scompaiono i riferimenti luminosi dei simboli che li rappresentano, privati della loro luce assumono un velo di ignoto, davanti al quale il nostro inconscio diventa instabile e facilmente scivola nel dirupo dell’incubo.
Saverio, chiudendosi dietro le palpebre, annulla i simboli che la luce crea e, con essi, la certezza, quel qualcosa di rasserenante che mette insieme la realtà rendendola vivibile, tutto sommato tranquilla – la parola “simbolo” proviene infatti dal greco e significa “metto insieme” (Syn, insieme, Ballo, metto). Cercando tra le varie definizioni di “simbolo” trovo scritto: “Il simbolo mette insieme linee di pensiero e di esperienza, idee, moti, sentimenti – una sintesi che funziona non in maniera esauriente in sé, ma come funziona una chiave: il simbolo è un’immagine che apre le porte di tutto ciò che lo compone, ad ogni livello. Una luce bianca che significa e comprende tutti i colori.” Ebbene, Bafaro, con le sue poesie, tende a scardinare proprio la stabilità del mondo simbolico, propone al lettore una nuova linea di pensiero e di esperienza.
Noi che abbiamo scelto il Brutto
e letto al contrario il libro dello Stagirita
conosciamo i risvolti
dell’armonico divenuto sghembo
del calmo divenuto irrequieto
del limpido divenuto oscuro
dell’ordine divenuto caos
del simmetrico non più tale
delle proporzioni volutamente saltate
(pagina 15)
I versi di Bafaro non incutono terrore, ovviamente, ma riescono a delineare nuovi paradigmi esistenziali che possono posizionarsi alla base del principio naturale del terrore.
I corpi avanzano
nella loro prima esperienza
dell’acqua
E muoiono annegando
venuti meno
a conoscenze umane
(Annegamento, pagina 76)
E ancora:
Nell’ora crepuscolare
più lento
scorre
il mio sangue
e gli occhi terreni
intravedono
altri mondi
(pagina 77)
Nelle architetture esistenziali, che il poeta mostra lungo il suo percorso, non abbandona però il lettore, è vero che lo allontana dal mondo della luce e dei suoi simboli, ma lo riporta, al termine, proprio lì da dove è partito, dietro le palpebre, sulla soglia del suo mondo di certezze, in cui gli oggetti e le azioni hanno chiarezza nella simbologia della luce. Sta al lettore la scelta: “Quale mondo scegli?” Sembra chiederci Bafaro. “La Fine del mondo o il Paese delle meraviglie?” (Mi capirà chi ha letto il romanzo di Murakami, “La Fine del mondo e il paese delle meraviglie”).
Il libro è integrato (non dico arricchito perché non c’è bisogno di arricchire la poesia) dalle suggestive opere grafiche di Piero Crida, 17 tavole tra le quali segnalo: “Bagno di sangue”, acquerello e matita, 61 x 40 cm; “Gigantesco demone”, acquerello e matita, 61 x 46 cm; “Figure in negativo”, acquerello e matita, 59 x 44 cm, si tratta di due differenti opere che portano lo stesso titolo, una apre il libro, l’altra lo chiude – silhouette umane ben definite, presenti nella prima, scompaiono nell’opera in chiusura, rimanendo però gli stessi colori rimescolati, così come accade quando, appena chiuse le palpebre, rimangono impresse le silhouette del mondo circostante appena scomparso, ma dopo del tempo, continuando a tenerle chiuse, esse scompaiono, lasciando spazio ad un più uniforme miscuglio di indistinte forme e colori; infine segnalo “Le case attendono”, acquerello e matita, 61 x 46 cm, si tratta dell’opera in copertina, in cui la finestra accesa nella notte di una qualche periferia, con gli scuri sfasciati e cadenti e la luce che sale dal basso della stanza, danno l’idea di un luogo poco raccomandabile in cui trovarsi di notte, l’insieme rende sospetta quell’unica finestra accesa.
La prefazione di Roberto Deidier, che per certi versi propone una lettura dell’opera in altra direzione rispetto alla mia, introduce con scorrevole sapienza alla lettura di “Poesie del terrore”. Ne riporto qui poche righe: “[…] Il tema diviene invece una cornice, una prospettiva, un suggestivo brainframe. La realtà nel terrore, il terrore nella realtà: per questa via, le poesie di questo libro disegnano una geografia ulteriore, intima e relazionale, avvertendoci che siamo già, con un certo margine di sicurezza, su quel sentiero inatteso che conduce ‘dall’altra parte’ e che all’improvviso traspare nel buco di una foglia autunnale. Non è la morte, o solo la morte, prima fonte di ogni possibile terrore: è piuttosto quella ‘lingua oscura’, necessariamente oscura, che ci invita sulla ‘spiaggia inviolata’ del nostro io originario.”
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