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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

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Il grande circo delle idee

Romanzo

Miki Bencnaan
Giuntina

Recensione di Antonio Piscitelli
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Pubblicato il 24/04/2015 12:00:00

 

Foschia. L’anzianità di una persona riduce il valore della sua morte, esordisce Miki Bencnaan, l’autrice dell’eccellente libro pubblicato da Giuntina nella traduzione di Anna Linda Callow. E se non è l’autrice in prima persona a darci la notizia della scomparsa di due anziane donne tra le mura della casa di riposo “Yadlitza Norbert” di Gerusalemme, lo fa per lei una voce esterna ai fatti, neutra, distaccata, forse indifferente. Foschia. Una fuga di gas, e rilevo gas, ha causato la morte delle due signore. Un incidente, questa volta si è trattato di un incidente, ma il gas non è fortuito. Apprendiamo che è il 19 novembre del 2009. Ancora da una terza persona, ancora dalla meticolosa neutralità del cronista: sulla scena dell’incidente irrompono i congiunti di una delle donne, Binyamin Hopsa, suo figlio, e Pinki, suo nipote. Dell’altro cadavere non si sa nulla, almeno finché il lettore non riesce ad afferrare il bandolo della matassa, il che avviene molto tardi nello sviluppo della vicenda.

Un flashback ci riporta a quindici anni prima, più o meno all’epoca in cui quattro arzilli nonnetti si incontrano casualmente nel comune gerontocomio. Si chiamano Leon Vaydenfeld, Futerko Hopsa, Emanuel Elbalak e Pesca Principali. Ho scritto “casualmente”. Sbagliato. Il caso ha un sofisticato regista e un cantore bizzarro, entrambi già messi in scena senza che il lettore badi a loro più di tanto. Foschia.

Questo l’inizio. Ora dovrei proseguire e cercare di riferire per sommi capi i temi del romanzo. Non lo so fare. Foschia. Per poterlo fare dovrei conoscere la lingua degli elefanti, ma ho appena cominciato a studiarla, proprio partendo da questo libro e vi confesso che, tardo come sono, mi ci vorrà un po’ di tempo per padroneggiarla. Provo a riportare ciò che ho capito. Il libro è un’anti-enciclopedia o un’enciclopedia alla rovescia. Non diffonde informazioni utili, anzi! Le direi piuttosto perniciose per gli automatismi più o meno consci che governano il nostro agire. Foschia: se la vita che conducete vi piace, il libro non è adatto a voi; ma, se voleste prefigurarvene un’altra, magari solo un pochino più bella, che so un modello che preveda la felicità, pregiudizio per pregiudizio, tanto vale che lo leggiate. Il libro. Troverete istruzioni giovevoli al vostro progetto. Imparerete come accumulare denaro in gran quantità in un tempo relativamente breve e quanta fatica comporti sperperarlo. Ancora, vediamo: imparerete a “coltivare” i mobili di casa, praticamente a costi limitatissimi e senza distruggere l’ambiente, grazie all’invenzione del professor Emanuel Elbalak, un autentico genio. Costui è anche il creatore di un pasticcio di fagioli dal gusto impareggiabile. Potrebbe piacere soprattutto ai giovani, giacché è in versi ed è servito al ritmo di un vero e proprio rap. I fan della cultura hip hop hanno di che gongolare.

Imparerete anche come essere vivi anche quando la morte è un fatto incontrovertibile. Immortalità? Una specie. Forse qualcosa di meglio.

Non ci sono controindicazioni alla lettura del romanzo, ma qualche attitudine è necessaria, oltre, ovviamente, a una buona conoscenza della lingua degli elefanti. Per esempio, dovreste essere affetti da sinestesia, una malattia ormai rara che l’antidoto dell’anestesia ha quasi cancellato dalla faccia della terra. Ne resta qualche traccia in isolati portatori sani, credo innocua a giudicare dallo scarso rilievo che le dà la World Health Organization. L’estensore di questa nota ritiene di essere parte di questa minoranza, anche se non dovete credergli perché sa mentire come pochi altri. Può capitare che di sinestesia siano affetti gli artisti e qualche sparuto fruitore delle loro opere, ma il numero di entrambe le categorie è così esiguo che non c’è un vero rischio di epidemia. Foschia. Come? Che dite? Ce ne sono molti? Di sinestetici? Raccontatela a un altro, non la darete certo a bere a me! La globalizzazione è narcotizzante per definizione e i mutanti in circolazione sono maggioritari. C’è forse qualcuno che piange la morte dei nonni, le ultime creature dotate di memoria? Chi prova dolore per la morte della Storia? D’altronde il fatto che pronunciamo una parola, non implica che esista il corrispondente referente. Prendete la parola “ebrei”. Voi sapreste indicarne l’oggetto designato? Non esiste. Come disse Jean-Paul Sartre, è un’invenzione dei loro avversari. Cioè è un parto della nostra mente, il mostro sul quale sfogare le nostre frustrazioni. La nostra facoltà di pensiero è così abile a rappresentarsi l’inesistente che non c’è cosa al mondo che non sia pregiudizio, inclusi noi stessi. L’attività cognitiva è mera ricognizione.  

Io sono un’allucinazione nel mio cervello.

Un pregiudizio e niente più.

Così recita l’esergo del libro. Non posso contestare quest’assunto di lapalissiana evidenza, anche se so che la storia intera dell’umanità si regge sul pregiudizio. È la rappresentazione parziale e partigiana del Fatto, non è il Fatto. Vedete, ogni rappresentazione è rappresentante di un rappresentato. È solo la sua immagine o, se volete, la sua immaginazione. Il disegno di una casa, non è la casa, ma solo la sua immagine parziale. Noi non sappiamo nulla della casa, a parte il fatto che il disegno ci evoca la sua immagine. Il Fatto ciascuno se lo cala addosso a seconda dei bisogni del momento, della particolare sensibilità e intelligenza, del livello di conoscenza, del tornaconto. Quest’ultimo, direi, è quasi il principale generatore della nostra rappresentazione del Fatto. Si capisce allora come un semplice costume da elefante possa modificare radicalmente la nostra identità, almeno nell’immagine mentale che ne abbiamo. Siamo “ariani” o “ebrei”? Beninteso, le parole virgolettate non hanno alcun referente, benché abbiano generato la più grande tragedia della storia. Evocata nel romanzo, certamente e necessariamente evocata, anche se, a me sembra, non ne costituisca il motivo conduttore. Il quale è annunciato proprio dall’esergo.

Nelle vicende che s’intrecciano come l’ordito e la trama di un tessuto dal complesso disegno v’è il desiderio di infrangere le regole della tessitura. Il gioco vale la candela se la prospettiva è il disvelamento di una possibile alternativa alla pania nella quale siamo invischiati. Basta non affidarsi alla forma che gli accadimenti assumono nella nostra mente.

«Per questo, secondo me, dovreste mettere in dubbio tutto ciò che vi raccontano. Incluso perfino ciò che vi sto raccontando io adesso». Sono le parole di Pinki Hopsa, il trentenne bizzarro che soffre di sinestesia, che ama disegnare specie volatili estinte e che da personaggio si fa narratore, anzi poeta di un’opera che assume sempre più l’aspetto di un cantico.

Questo Pinki mi piace, somiglia tanto ad altre figure letterarie di grande suggestione. Candido, Myskin, il Pazzariello della Morante? Sì certo, ma anche il Puck pasticcione del “Sogno di una notte di mezza estate”, commedia della quale si dice nel libro e che forse è l’archetipo letterario del “grande circo” che chiude come una sarabanda luminescente l’opera. Assennatamente pazza, come “Il maestro e Margherita” di Bulgakov. L’antitesi non è casuale perché non c’è nulla di più assennato della follia per diradare la foschia che ci avvolge.

Il complesso intreccio, i cambi di prospettiva, una “rettorica discreta” nella quale domina sovrana la figura provocatoria dell’ironia, il riferimento a prototipi letterari di una classicità trasgressiva e irriverente (penso all’Ovidio delle Metamorfosi o all’Apuleio de L’asino d’oro) ascrivono il romanzo della Bencnaan al grande circo della letteratura di tutti i tempi.

Brava anche la traduttrice che ha saputo trasferire nel nostro idioma atmosfere sfuggenti e i ritmi di una prosa che suona come le celebri musiche di scena che Felix Mendelssohn compose per il “Sogno di una notte di mezza estate” di Shakespeare. Non a caso, vi assicuro non a caso.

Il libro è un raggio di sole nella densa tenebra che offusca la nostra coscienza, fende come una lama affilata la fitta foschia che avvolge la terra. E noi siamo i vapori del gran mare dell’Essere, tra le cui braccia ricadremo come pioggia che torni alle scaturigini.  

 


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