L’AMORE PATOLOGICO: CHARLES SWANN E ANTONIO DORIGO
[ Saggio pubblicato in Salon Proust ]
“Questo romanzo è la dissezione, quasi anatomica, di un sentimento che molti diranno patologico”[1].
Antonio Dorigo, 49 anni, incontra una giovane prostituta, sedicente ballerina, e inizia a provare per lei questo “sentimento patologico” che, solo nel titolo, viene chiamato “amore”. Il sentimento, in realtà, non viene mai ben definito proprio per sua natura; infatti, questi “amori”, “somigliano a quei tumori che il medico finisce per far regredire senza averne individuato l’origine”[2], dice Proust tentando di spiegare il perché dell’amore non corrisposto, dell’amato che non riama anche quando le condizioni sociali, emotive e economiche sono ideali. Il fatto è che non ha importanza: non esistono situazioni esterne abbastanza favorevoli da conciliare l’amore che, se non c’è, se non è ricambiato (e, per Proust, è quasi la regola che l’amore non venga ricambiato) può comunque benissimo essere inventato.
Questo fa Swann nella Recherche, questo fa Dorigo in Un amore: di quale “amore” si parla in realtà? Di che cosa è fatto quest’amore? Delle notti a pagamento con Laide? Delle mattinate o nottate d’attesa sotto casa? È questo che si può definire “amore” o non è piuttosto una patologia?
L’allusione a Swann non è per nulla casuale: è possibile, infatti, trovare diverse assonanze tra il sentimento di Dorigo per Laide e quello di Swann per Odette.
Importa poco, in realtà, che entrambe siano prostitute e che entrambe mentano (anche se forse Laide lo fa in maniera molto meno ricercata e più ingenua di Odette); quello che è importante rilevare è l’effetto che questo sentimento ha sui due amanti, e l’effetto è molto simile sia a livello emotivo che a livello d’azioni concrete.
Scrive Proust:
E questa malattia che era l’amore di Swann s’era così moltiplicata, era avvinta così strettamente ad ogni consuetudine di Swann, ad ogni suo atto, alla sua mente, alla sua salute, al suo sonno, alla sua esistenza, perfino a ciò ch’egli desiderava dopo la morte, era venuta ormai a formare una cosa sola con lui atal punto, che non sarebbe stato possibile strappargliela senza distruggere lui stesso quasi per intero: come si dice in chirurgia, il suo amore era inoperabile[3].
Distruggere l’ “amore” è distruggere chi ama, allora, perché significa annientare tutta la vita che sta intorno all’oggetto amato, estesa a tal punto da essere l’unica vita.
L’idea del tumore è particolarmente calzante, secondo me, perché riproduce perfettamente da un lato l’idea della malattia, dell’ossessione, del sentimento che va “oltre”, che diventa più che sentimento e da cui non si riesce a liberarsi perché, in fondo, non dipende del tutto dalla volontà dell’amante e, dall’altro, l’estensione del sentimento, secondo la metafora del tumore, fa pensare alla metastasi: Swann e Dorigo sono, alla fine, null’altro che un corpo pieno di metastasi di quel sentimento che si è esteso, che è dilagato e ha inglobato tutto. Per questo, non è possibile strappare quel sentimento senza distruggere chi lo prova: la vita intera, infatti, è lì concentrata, inizia alla testa e finisce ai piedi dell’essere amato e, se tutta la vita è lì, se la vita è quella, in fondo, se la vita è fatta di lunghe attese mattutine o di brevi tragitti in carrozza, se è intorno al mondo dell’amato che ruota l’esistenza intera di chi ama, non è possibile strappare l’amante da quel mondo e pretendere che non muoia, che resti illeso.
“Raramente”, scrive Virginia Woolf, “il cuore arriva alla tomba illeso”[4]; qui, secondo me, il discorso va ben oltre: non è più un fatto di sentimento ma dall’espansione aggressiva e totale di quel sentimento a tutte le parti dell’essere amante, il condizionamento del sentimento originale su tutte le facoltà dell’amante, l’annientamento, la “morte”, alla fine, di chi ama.
Scrive Buzzati:
E tutto quello che non era lei, che non riguardava lei, tutto il resto del mondo, il lavoro, l’arte, la famiglia, gli amici, le montagne, le altre donne, le migliaia e migliaia di altre donne bellissime, anche molto più belle e sensuali di lei, non gliene fregava più niente, andassero pure alla totale malora, a quella sofferenza insopportabile soltanto lei, Laide, poteva portare rimedio e non occorreva neppure che si lasciasse possedere o fosse specialmente gentile, bastava che fosse con lui, al suo fianco, e gli parlasse e magari controvoglia fosse costretta a tener conto che lui almeno per alcuni minuti esisteva, solo in queste pause brevissime che capitavano di quando in quando e duravano un soffio, soltanto allora lui trovava pace[5].
L’acquietamento del dolore, la sospensione – non la fine – del tormento, allora, quando l’essere amato è costretto a tener conto che l’amante esiste, quando sbadatamente incrocia il suo sguardo o risponde a una sua domanda.
Poco importa se è o non è amore questo; probabilmente, però, aveva ragione Stendhal quando scriveva che
l’anima, a sua insaputa annoiata di vivere senza amare […], s’è fatta, senza accorgersene, un modello ideale. Essa incontra un giorno un essere ch’assomiglia a questo modello, la cristallizzazione riconosce il suo oggetto dal turbamento che ispira e consacra per sempre al padrone del suo destino ciò che essa sognava da tanto tempo[6].
Non è possibile stabilire non solo se l’essere fatto oggetto d’amore corrisponda quest’amore, ma nemmeno capire se ci si innamora di quell’essere, o di qualcosa che si sognava da tanto tempo, di cui si aveva la più o meno forte necessità.
Probabilmente, questo genere di sentimenti, mescolano sempre una certa dose di ossessione, di paura della perdita, non tanto dell’essere amato che, in realtà, non si possiede, quanto dell’intera vita dell’amante che è scandita sui giorni e sulle ore, sugli impegni e sul tempo libero dell’oggetto dell’amore, con una certa dose di egoismo: Swann e Dorigo continuano nella loro ossessione, forse totalmente incapaci di uscirne, di lasciar perdere, sicuramente spaventati della vita che resterebbe senza o al di là di questo sentimento; forse, però, ogni ossessione si basa anche su un certo egoismo, su un narcisismo a causa del quale, in realtà, l’essere amato non è un essere ma solo e meramente l’oggetto del sentimento provato, quella “cosa” che possiede certe caratteristiche piuttosto che altre, disposte in una certa maniera invece che un’altra. Una scelta obbligata, insomma.
V. C.
[1] Eugenio Montale, Introduzione, in D. Buzzati, Un amore, Mondadori, Milano 1998, p.1
[2] Marcel Proust, Á la recherche du temps perdu, cit., p.869
[4] Virginia Woolf, Orlando, cit., p.67
[5] Dino Buzzati, Un amore, cit., p. 52
[6] Stendhal, De l’amour, 1822; trad. it. Dell’amore, Garzanti, Milano 2007, p. 77
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