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Mimetiche

Poesia

Eugenio Lucrezi
Oèdipus

Recensione di Alfonso Lentini
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Pubblicato il 08/08/2014 12:00:00

Postfazione di Massimiliano Manganelli

 

Se l’universo è un immenso sistema di specchi, la poesia – che per vie più o meno impervie lo replica – è anch’essa intrisa di trappole o tramature speculari. Tutta la poesia, nelle sue più diverse forme, è fondata su un complesso gioco di rimandi. È parola che riflette sulla parola, linguaggio che riflette sul linguaggio (e altri linguaggi prismaticamente rispecchia), per questo possiamo considerarla una forma complessa di meta-scrittura. Tuttavia questa essenza speculare della poesia assume a volte forma implicita e rimane in ombra.

Non così avviene nella raccolta Mimetiche di Eugenio Lucrezi dove ogni composizione somiglia a una navetta che fa la spola fra la superficie e l’abisso, riportando a galla ciò che in altre opere poetiche può rimanere sommerso: il fondale, appunto, della meta-scrittura. Le poesie di questo libro sono dotate di arti prensili che catturano e voracemente inglobano altre poesie, altri linguaggi, altre letture, altre immagini, altre musiche. L’operazione di meta-scrittura (del resto adombrata già nel titolo) è trasformata in un vero e proprio procedimento e scandisce apertamente il lavoro compositivo, tanto che l’autore in fondo al volumetto fornisce una serie di note esplicative che si rivelano preziose per chi intende approfondire il gioco dei rimandi.

La poesia di Lucrezi diventa così luogo di accoglienza, mezzo connettivo e agglutinante di esperienze che attraversano la ricca sperimentazione espressiva di un autore che opera contemporaneamente su più terreni e soprattutto in quello della musica (Lucrezi è infatti anche un valente bluesman).

I versi formano una catena di collegamenti intertestuali e pullulano di orme lasciate da altri. Così troviamo tracce di letture “forti”, Kafka prima di tutto, e poi Amelia Rosselli, Landolfi, ma anche big della classicità come Ovidio o Properzio sapientemente mixati a big della musica contemporanea come David Bowie, John Cage, PJ Harvey; echi di partiture musicali; di figurazioni; e infine vere e proprie cover, cioè copertine di dischi chiamate in causa e de-scritte in intriganti giochi di specchi. Cover del resto, non è un nome a caso: perché esso indica una modalità di rifacimento musicale, e cover (rifacimenti di scritture o di altro) si possono a pieno titolo considerare anche queste poesie, che però – a differenza di tante cover musicali che sono semplici operazioni imitative – non si limitano a rifare, ma lavorano sul periglioso terreno della metamorfosi e, per quanto “mimetiche”, trasformano, imbrattano, stravolgono gli originali, e danno vita, a volte persino dal nulla, a versi di natura personalissima.

Siamo all’interno di un teatro barocco (e se non barocco, che altro potrebbe essere questo franoso, labirintico, polimorfo, evanescente palcoscenico?). Siamo in una scatola delle meraviglie affollata di doppifondi, doppiaggi, sdoppiamenti, cunicoli segreti, vie di fuga. Siamo in un bucherellato “panopticon” dove si svolge, armonica e scintillante, la grande kermesse degli “esercizi mimetici” e delle citazioni disposte a spaglio in forma di collage sonoro. Siamo in un delizioso groviglio espressivo dominato dai moti serpentini e ingovernabili delle metamorfosi. Perché, appunto, la mimesi qui non è mai un cerchio concluso e, come scrive a proposito di questo libro Giorgio Linguaglossa, «le azioni verbali sono “mimetiche” di altro, stanno per altro e in luogo di altro; sono azioni alienate da una interna condizione di alienazione: nessuna cosa è così come viene detta (e ridetta) e nessuna cosa è così come appare ri-scritta».

L’operazione è perigliosa, ma non tende all’informe; l’orizzonte dei sommovimenti emozionali e della ricerca di senso non è mai perso di vista, mentre la perfetta tenuta ritmica, la raffinata costruzione retorica, l’accortezza delle scelte lessicali – esiti di una lunga sperimentazione espressiva giunta a piena maturazione – salvaguardano i versi di Lucrezi dal rischio di derive caotiche e li pongono sul piano di un’idea di poesia (o di meta-poesia) dove il pensiero, in derive analogiche, preme e risuona sulla membrana elastica dei suoi confini.

Così ad esempio vediamo che negli endecasillabi d’amore intitolati Dora – riguardanti in apparenza l’ultima compagna di Kafka, che così si chiamava – il riflesso delle parole kafkiane evapora quasi del tutto, mentre emerge la componente autobiografica e si scopre che la poesia (sia pure per l’interposta persona di Faunia Farley, personaggio della Macchia umana di Philip Roth) è in realtà dedicata a Paola Nasti, compagna e musa dell’autore: «Dora cammina e intorno ha mille me / giovani e vecchi, agili e in affanno, / miriade megamicro che la cura / e l’accarezza in alito di vento / inapparente e che le dà calore. / Nel pullulare ne manca solo uno, / quello che se la guarda da lontano / qui senza carne e che le dà la mano».



 


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