ORFEO È FEMMINA
Fin dalle prime pagine mi sono reso conto di avere tra le mani un ordigno esplosivo. Era quasi mezzanotte. Il buonsenso mi avrebbe suggerito di chiudere il libro e di riprenderne la lettura il giorno seguente. Invece no, non riuscivo a smettere e sono andato avanti fino all’alba. La deflagrazione c’è stata, e potente, nel cuore della notte. Ha mandato in frantumi il libro e me. Mille pezzi schizzati ovunque nella mia povera casa. Dio mio, che disastro!
Come faccio a rimettere al loro posto migliaia di parole, se non altro per chiuderlo, il libro? Mi armo di pazienza. Comincio dai nomi propri. Stacco dagli occhiali sui quali si è impressa la parola Ribera e, dalla stanghetta laterale sinistra, Caravaggio. A terra trovo l’errabondo Cervantes (de Zerbantes), nell’incavo dell’ascella il povero poeta albionico messer Guglielmo e mi domando come abbia fatto a finirci. E questo chi è? Jacques Colmar. Guarda un po’ dov’è andato a ficcarsi: giusto nella fenditura tra i due cuscini del divano. E quell’altra parola, Pitigliano? Perbacco, tra le costole di due saggi storici di Anna Foa che trattano di diaspora. Quando si dice le coincidenze! Mi domando dove sia andato a ficcarsi Michael de Sweerts.
Basta, ci rinuncio, è troppo complicato. Per quanto mi ci provi, non riuscirò a venirne a capo. Ormai le pareti di casa sono tutte imbrattate e anche il mobilio, accidenti! Non sarò mai in grado di ricomporre il volume. Se ci tenete a leggerlo, dovrete comprarne un’altra copia, la mia non ve la posso prestare. Per quanto consti di sole 283 pagine, eserghi, dediche e ringraziamenti compresi, in realtà esso s’innerva in una tale quantità di altri testi da far pensare a una vasta enciclopedia. Nello specifico, del XVII secolo, con non poche fughe in altri riposti della Storia europea, della cultura in ispecie. Ce n’è per tutti i tipi di interesse.
Scusate, devo aprire le finestre, c’è un fetore qui dentro da far voltar lo stomaco. Capirete, a distanza di quasi quattro secoli, con l’abitudine della doccia mattutina e delle abluzioni serali, non si riesce facilmente a convivere con gli effluvi di allora. Sapete bene che il Seicento è stato uno dei secoli più puzzolenti della storia. La Cilento è incredibile: non solo vi fa scorrere davanti agli occhi il quadro vivente dell’età barocca, tanto che voi la vedete, quest’epoca, sia pure attraverso la speciale prospettiva della pittura del tempo che, negli spagnoli e nei fiamminghi, ha trovato la sua più potente espressione, inclusiva dell’ammiccante lezione caravaggesca; non solo questo, ma anche la suggestione di odori e percezioni tattili e uditive tali da poter parlare, e a ragione, di una scrittura che ha fatto della sinestesia il suo elemento caratterizzante.
Vi sto dicendo che è un libro molto denso? Certo. Altrimenti non sarebbe scoppiato. Ma questo non deve affatto spaventarvi. Il romanzo è fruibile da chiunque e in qualsiasi modo lo si voglia leggere. Potete anche prenderlo per un bel racconto, un po’ romanzo storico-picaresco, un po’ novella licenziosa (Boccaccio, Aretino, Straparola), un po’ favola alla Basile, un po’ commedia dell’arte; io vi riscontro persino, per il ritmo della prosa e la vividezza dei dialoghi, l’opera buffa. Voglio dire che si ride, si piange e si ascoltano vivaci concertati senza soluzione di continuità. Scrittura visiva e, in parte, visionaria quella della Cilento: tanto i primi piani dei personaggi quanto le scene di massa rinviano a celebri tele secentesche, tra le quali emergono, oltre a quelle dei noti pittori già citati, le produzioni di Micco Spadaro. Vedo anche, nei volti dell’epoca, il naturalismo grottesco dell’arte presepiale, con la massiccia presenza, su una scenografia tutta partenopea, del variegato popolo dei vicoli e dei mercati: la nana, la vecchia scrofolosa, l’oste, l’avvinazzato rubizzo, il bazzariota, il soldato spaccone, il gradasso, il lenone, il ruffiano, il truffatore, la prostituta discinta e tutta la variegata plebe che, da epoca immemorabile e fino ai nostri giorni, rende la città refrattaria a qualsiasi istanza di modernità. Non manca il mondo dei bottegai e dei professionisti, cioè di quel ceto presunto medio, mediocre in realtà, sempre prono al potente che gli rimpingui la borsa, ancorché il potere implichi solo rapina e saccheggio. Si leggano le drammatiche pagine dedicate alla rivolta di Masaniello e si capirà cosa intendo. I voltagabbana e i profittatori di allora sono i medesimi che segneranno la storia di Napoli nei secoli venturi, tanto che si è voluto vedere nel romanzo la rappresentazione d’una contemporaneità camuffata più che una ricostruzione storica in chiave letteraria. Legittima, per carità, un’interpretazione del genere, ma solo se si ammette che il presente è l’esatta riproposizione di ciò che la città fu ieri e l’altro ieri e secoli or sono. A Napoli non si fa storia, non si è mai fatto storia, solo cronaca, la stessa di cui è infarcita la povera e provinciale stampa cittadina. Chi vi arriva da fuori (e di stranieri ne sono arrivati tanti nel corso dei secoli, dominatori e mercanti, artisti e rifugiati, soldati e viaggiatori, migranti d’ogni nazione), dopo alcun tempo, è perfettamente assimilato, non ne distingui più la provenienza. Napoletanizzato! Osservate il personaggio centrale di Avicente Iguelmano, un mediconzolo fallito di origini catalane che, puta caso, nella capitale del vicereame va incontro a fama onori e ricchezza, protetto dai potenti di allora, inclusa la corte, nonostante sia solo un ciarlatano, un somministratore di panacee. Come si spiega tanto successo? Gode fama di aver compiuto un miracolo, per aver risvegliato da un sonno inspiegabile quanto misterioso un’adolescente, Belisaria Morales (Lisario: si noti il diminutivo che fa pensare a un maschio, a parer mio per nulla casuale), la quale, ben femmina, è il vero motore della vicenda. Parte da qui la fama di Avicente, paragonabile alla stessa di cui godono i numerosi santi venerati dai napoletani, inclusi quelli famosissimi che popolano i suoi sogni. La guarigione è un miracolo. La speranza non è alimentata dal senno, ma dalla fede, beninteso una credenza superstiziosa, scaramantica, blasfema, ingiuriosa d’ogni seria spiritualità. La subcultura del cornetto, dell’ex voto, dell’amuleto, della reliquia o del cero votivo è tutt’altro che scenografia per turisti, è stile di vita nella forma e nella sostanza. L’intellettuale, l’uomo e la donna di studio e di ricerca in questa città non hanno ricetto, oggi emarginati, un tempo scannati o decapitati, in ogni caso posti alla gogna e al pubblico ludibrio.
È questo che Antonella Cilento intende dirci? Penso di sì, per quanto il suo libro si presti a ogni azzardo dell’immaginazione, tale è la ricchezza di stimoli che offre al lettore.
Vedete, io credo che il romanzo sia il grido di dolore di un’erede delle grandi figure femminili che l’altra vicenda cittadina, quella negata e ignorata dai più, vanta: da Artemisia Gentileschi a Eleonora Pimentel, da Luisa Sanfelice ad Anna Maria Ortese. Mi direte che queste famose donne sono solo in parte o occasionalmente napoletane. È vero, ma è anche vero che altre donne meno note hanno provato a fare udire la loro voce, purtroppo e assai spesso sovrastate dalle urla isteriche delle parenti di San Gennaro o dai baccanali di fujénti e vattienti (flagellanti) che, al ritmo assordante di grancasse e “tammorre”, inquinano l’etere e soffocano il lamento affannoso delle partorienti. Non udrete mai la voce di Lisario se non leggete il romanzo di Antonella Cilento. La scrittrice è napoletana, completamente napoletana e dà voce a chi la voce non l’ha mai avuta, perché gliel’hanno estirpata, appena si sono accorti che produceva verità.
La poveretta che fa? Impara a scrivere e s’inventa un’interlocutrice, una Madonna “femmina” feconda, alla quale confida le sue pene. Chi altri potrà udirle se non una femmina come lei, per immaginaria che sia? Quando tu per il mondo non esisti, sei una cosa, un animale o un giocattolo, non ti resta che affidare a un diario le tue confidenze. A rifletterci bene, l’epistola è il genere più praticato dalle donne. La scrittura clandestina e privata la loro unica consolazione.
Ecco il significato di questa sofisticata operazione letteraria: farci udire l’espressione autentica del femmineo, persino di quello che la protervia della convenzione cela nei maschi e che risiede nel sistema limbico di ciascuno.
Iguelmano, sposo padrone della sventurata Lisario, vorrebbe carpirle il segreto del piacere infinito, ma non trova che deliquio e umori, cioè lo schermo e il linguaggio di una creatura alla quale è negata la vita ancor prima che essa si realizzi. Il segreto è solo la cecità dell’osservatore, un maschio ovviamente, perché il punto di vista delle donne è inammissibile per statuto.
Antonella Cilento non ci incita alla guerra tra i sessi, ma alla corretta compenetrazione, tale che ognuno sappia riconoscere la metà negata di sé. In termini di storia delle culture e delle civiltà, il misconoscimento è sempre stato di un solo segno, al silenzio sono state ridotte le donne, alle quali questo libro dà voce, almeno nei voti dell’autrice. Il canto di Teodora, che deve fingersi uomo per esibirsi nel teatro della vita, seduce perfino il vecchio Iguelmano, che pure, in passato, ne ha auspicato la morte, magari presago dei sovvertimenti futuri.
Teodora oggi c’è e seduce parimenti tutti gli uomini che hanno buon udito. Gli altri, miserabili, si sono fatti sordi, non potendo estirparle le corde vocali, come un tempo fecero con la madre.
Sapete che penso? Che una civiltà sorda è giunta al traguardo. Ormai Teodora non ha più bisogno di fingersi maschio per farsi udire, a dispetto di tante donne che ancora lo credono, per opportunismo o vigliaccheria, fate voi. Se è vero che la storia volta pagina a ogni trauma che le occorre, bene, questo è l’evento traumatico del momento: il canto melodioso di Teodora. Potete pure turarvi le orecchie, esso sta già edificando la futura dimora per tutti, sontuosa, accogliente, inclusiva.
Fuor di metafora, la melodia è tutta nello stile della Cilento, che si estrinseca in una prosa ironica e mordace, lirica all’occorrenza, certamente pittorica. Limbica, se non si vuol fortuita la bella immagine di copertina, opera di Dino Valls, artista spagnolo contemporaneo che ha fatto del “Siglo de Oro” lo sfondo ideale per la proiezione d’un’energia psichica le cui scaturigini sono nella sede fisiologica di quella cosa che chiamiamo anima. Femmina l’anima, innegabilmente femmina, non solo in senso grammaticale! I maschi non la possiedono. Se ne sono privati da se medesimi, votandosi da sé alla mera ferinità, al mostruoso alibi della lotta per la sopravvivenza.
Orfeo è femmina, credetemi! Si chiama Lisario-Teodora-Cilento.