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Quanta stella c’è nel cielo

Romanzo

Edith Bruck
Garzanti

Recensione di Antonio Piscitelli
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Pubblicato il 13/06/2014 12:00:00

 

UN MONDO DECLINATO AL FEMMINILE PLURALE

 

Si può leggere in molteplici modi questo splendido libro. È certamente testimonianza del dramma dei sopravvissuti ai campi di sterminio, ma anche travaglio collettivo di un’Europa ancora tramortita dagli eventi bellici, il cui emblema è una delle regioni più tormentate d’Europa, la vasta area geografica dagli incerti e contesi confini a cavallo tra Austria, Ungheria, Boemia, Slovacchia, Polonia, Germania, Ucraina. La babele di lingue nel treno sul quale viaggia Anita, la protagonista del romanzo, non ci riferisce solo gli stati d’animo degli Ebrei superstiti, contrastanti e contraddittori, ma rivela lo sguardo pietoso che Edith Bruck rivolge ai profughi di ogni nazione, perfino ai carnefici di un tempo, ora ridotti a larve umane, anch’essi senza un posto in cui andare, clandestini tra clandestini: «Chissà come stavano i tedeschi? Me lo chiedevo spesso. Doveva essere duro vivere con tutti quei morti sulla coscienza, compresi un milione di bambini uguali ai loro figli».

Non puoi non correre con la mente al mondo di oggi, a quel coacervo di culture e storie nel quale viviamo esattamente come i viaggiatori del treno per Zvìkovec. Ne percepiamo umori o malumori, ne udiamo le lagnanze, ne osserviamo i medesimi comportamenti. Viaggiamo tutti come sardine in scatola, ignari dei luoghi in cui siamo, incapaci di recuperare la memoria, incerti del nostro futuro. Dove saremo tra un’ora, domani, tra un anno? Ci sarà un posto in cui far crescere i nostri figli senza l’assillo del bisogno, senza la minaccia dell’odio che nega il loro diritto a esistere? «Il mio prossimo figlio nascerà in Terra Promessa», afferma una viaggiatrice e ne riceve, come risposta, il feroce commento di un uomo, «E lo ammazzeranno gli arabi!», a mo’ di presa d’atto d’un ineludibile destino. Ma la sortita è anche la latente ideologia nazista che nega la vita ancora prima che essa si manifesti, quasi uno sterminio preventivo. Una volta ho chiesto a Udi, un mio amico ebreo, a che servisse mettere al mondo dei figli destinati al dolore e alla morte violenta. Mi riferivo alle giovani vittime della guerra arabo-israeliana. Mi rispose con le stesse parole che adopera la Bruck: risparmieremmo il lavoro sporco ai nostri persecutori, ci annienteremmo da soli. Aveva ragione Udi, ha ragione la scrittrice. Tuttavia, alla luce della storia e della cronaca, non posso non riflettere sulla circostanza che la mattanza non finisce, che continuiamo a produrre carne da macello a vantaggio di un nazismo di fatto che, apparentemente sconfitto, resta la caratteristica di fondo della cultura inumana che ancora ci ostiniamo a chiamare civiltà. È un veleno che intossica la coscienza collettiva da tempo immemorabile, prodotto di un’ideologia che ci pretende tutti bestie in lotta per la sopravvivenza: mors tua vita mea! Guerra a oltranza! Vogliamo contare insieme le vittime innocenti dello stato permanente di belligeranza sul quale si regge il mondo del quale tutti siamo ostaggio? I vincitori, sempre gli stessi, non ci badano. È normale, sono i padroni di casa, cosa volete che gliene importi che la loro casa sia stata costruita col sudore, il sangue e la vita stessa dei loro schiavi, anche in questo caso sempre gli stessi? Le ascoltate o le leggete le cose che si dicono sui loro organi di pretesa informazione? Economia, parlano solo di economia, cioè della scienza dell’utile, laddove l’utilità è misurata in numero di vittime alle quali è possibile succhiare il sangue. E quando queste sono diventate esangui, le si elimina. Non ci manca ovviamente la fantasia per trucidare intere comunità. Siamo diventati bravi, espertissimi, efficientissimi. La cosa singolare è che gli esecutori dello sterminio sono gli stessi schiavi, ai quali è fatto credere che è normale uccidere il proprio simile, benché non si tratti che di un bambino, di una donna incinta, di un infelice disabile, o di un innocuo vecchietto. La “religione universale” pretende che la nostra sopravvivenza dipenda unicamente dal numero di esseri umani che riusciamo a soggiogare e, al momento opportuno, eliminare, anche preventivamente, magari costringendo all’aborto una giovane donna che nel figlio concepito vede la rigenerazione e la “possibilità”, forse l’unica che le rimane. In tal caso, per questa donna, nata in schiavitù perché non c’è femmina al mondo che non sia nata schiava, portare avanti la gravidanza è un coraggioso atto di ribellione. Mi piace per questo Anita, l’adoro, ne sono innamorato: solleva finalmente la testa e regala a me la speranza. Perché per ogni femmina d’uomo che sollevi il capo, si accende un lumicino di speranza nel mio cuore.

È così che ho sofferto la tormentata riflessione di Anita, mirabilmente riferita e investigata dalla Bruck. Eli, il ragazzo che l’aggioga ai suoi desideri di maschio padrone, indifferente ai nobili sentimenti di lei, le impone lo strazio dell’aborto, quando ormai lo stato di gravidanza metterebbe a repentaglio la sua stessa vita. Doppiamente nazista quest’ebreo dal bel volto e dall’arido cuore: nel negare la nuova vita, non si perita di sacrificarne la procreatrice. Una cosa da gettar via, come l’acqua sporca che buttiamo col bambino.

Ora accade che, nella fattispecie, il maschio padrone si sia fatto il conto senza l’oste, il quale non è altro che una ragazzina di neppure sedici anni che mostra di avere il coraggio leonino della sua progenitrice, di quell’Eva che si pretende prima femmina d’uomo. Quanto denigrato è stato il suo gesto di ribellione a una soggezione umiliante! A diffamarla è stato lui, quell’imbelle di Adamo che, egli stesso schiavo, anziché seguirne l’esempio, l’ha denunciata, innescando per millenni l’abitudine alla delazione e all’omertà, al tradimento e alla proditorietà, schermendosi dietro la volontà di un preteso padre tiranno sanguinario che, inventato da lui, ha chiamato Dio, senza neppure vergognarsi d’essersi inventato una divinità umana, troppo umana, troppo simile alle sue ambizioni fallocratiche di dominatore assoluto del gineceo nel quale ha relegato la metà di sé.

«Da padrone di me e di nostro figlio aveva pronunciato la parola “aborto” subito, alla maniera del selezionatore, che con la parola “sinistra” aveva mandato ai forni mia madre. “È un nazista”… », rimugina Anita a proposito di Eli che, ironia della sorte, si chiama “mio Dio”. La ragazzina, un tempo, aveva chiesto a sua madre se nascere donna fosse una disgrazia; «È una disgrazia nascere, figlia mia», le aveva risposto lei. Battute nelle quali sono il fatalismo e la rassegnazione di una sapienza al maschile singolare che predica nei fatti la sottomissione, il giogo, benché la cavezza sia spesso chiamata destino o volontà divina.

Per questo il gesto di Anita cessa di essere mera risposta individuale alla protervia maschile e diventa il segnale della rivolta collettiva contro un’ideologia che ti vuole schiavo ancor prima che tu sia nato, che aggioga i tuoi figli, i tuoi nipoti, i tuoi discendenti per infinite generazioni. Che Anita sia ebrea, di quel particolare universo “concentrazionario” dei ghetti e degli shtetl, rende la sua disobbedienza ancora più eversiva perché proveniente da un mondo doppiamente negato, dall’antisemitismo, ma anche da se medesimo. Vivere non è più una disgrazia, se nasci libero e nella “Terra promessa” della dignità. Eva, calunniata da Adamo e dai suoi discendenti, ha un’erede esemplare e costei si chiama Anita, la sedicenne protagonista del romanzo di Edith Bruck. Ci sono state altre femmine d’uomo come lei? Certamente, parecchie, purtroppo sole con la loro disubbidienza. Finite per lo più male, chi su una pira, chi in manicomio, chi nel ghetto claustrofobico di un harem per pedofili, chi nella sentina del silenzio.

Se la storia avesse prodotto più Anite-Eve, probabilmente non staremmo qui a piangere i nostri morti, compresi i sei milioni di ebrei finiti nei campi di sterminio. Questo libro, oltre ad attanagliare il lettore nell’andamento ascensionale di un dramma assai ben rappresentato, è un monumento alla speranza. È l’unica reale prospettiva di un cambiamento epocale, la concreta possibilità che si possa finalmente cessare di declinare la nostra “civiltà” al maschile singolare. La Bruck ci propone un mondo al femminile plurale, l’unico che può liberare tutti dalla subalternità, predatori e prede, kapò e internati.

Il libro è stato ripubblicato quest’anno, in concomitanza con l’uscita del bel film che Roberto Faenza vi ha tratto. Da vedere anche il film, benché sia altra cosa, come sempre quando i mezzi espressivi mutano.

                 


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