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Bukavu, Zaire Orientale luglio 1999

di Sakora Sandon
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Pubblicato il 05/12/2007

“On est presque arrives”, mi disse l’autista zairiano, impiegato anch’egli nella stessa organizzazione per cui lavoro.

L’autista, sebbene zairiano di nascita, aveva vissuto gran parte della sua vita a Bujumbura, in Burundi, ma aveva la fortuna di ottenere dei contratti a termine a Bukavu, sempre come autista; ciò gli permetteva di portare a casa uno stipendio cinque o sei volte superiore a quello che avrebbe guadagnato nel suo paese.

Eravamo partiti da Bujumbara da quattro ore, ovvero, solo tre ore dopo l’arrivo del mio volo della Sabena da Bruxelles. Era la prima volta che mettevo piede in Africa, ed ero molto presa da questo mio primo incarico “sul campo”.

Il mio capo, Mr Thomas Pagan, mi spettava ansiosamente a Bukavu, nello Zaire Orientale. Qui, la nostra organizzazione stava sul punto di aprire un centro per far fronte al recente e continuo influsso di profughi dal Rwanda, ed io sarei stata coinvolta nell’organizzazione di questo centro.

Dopo quasi quattro ore di viaggio su una strada accidentata e polverosa, la tipica strada di montagna piena di pericolosi tornanti, giungemmo a destinazione. Sebbene il viaggio fosse stato tutt’altro che comodo, mi sarebbe piaciuto proseguire su quella strada praticamente deserta e circondata da valli e montagne che davano l’impressione del selvaggio e dalla libertà. Mi sentivo molto lontana dalla cosidetta ‘civiltà’. Fui pervasa da un grande senso di pace, nonostante non sapessi esattamente cosa mi attendesse a Bukavu.

Tutte le mie preoccupazioni erano incredibilmente sparite. Mi ricordai di aver sentito un simile senso di libertà solo in aereo, circondata dalle nuvole. Al di là delle nuvole, la libertà non conosce confini.

La vista, da questa stretta e pericolosa strada di montagna mi diede l’impressione di vivere in una dimensione diversa da quella che avevo lasciato a Roma. Le grandi valli, le montagne ed i fiumi che abbiamo incontrato mi diedero un senso di natura selvaggia che non avevo mai provato prima.

Il Landcruiser su cui viaggiavamo era piuttosto mal ridotto. Pierre, il mio autista e guardia del corpo, fu sorpreso dal fatto che non mostrai alcun segno di paura durante il viaggio, anche se egli stesso mi aveva avvertito dei rischi del viaggio prima di partire dall’ufficio di Bujumbura. Io gli risposi che, in fondo, tutti moriremo prima o poi, e non vi è alcuna differenza se ciò accade su una strada sterrata nel cuore dell’Africa o attraversando la strada in Europa.

Arrivati a Bukavu a bordo della Landcruiser ricoperta di polvere, camminavamo per le strade del centro di Bukavu, diretti verso l’ufficio. Non erano neanche le sei del pomeriggio. Guardavo i palazzi attorno che stavano lungo i lati dell’unica strada principale.

La mia prima impressione fu di una città in completa decadenza. L’intonaco cadeva a pezzi dalla maggior parte dei palazzi di due piani. Bukavu, che contava circa 200000 abitanti, era considerata ai tempi della colonizzazione belga uno dei luoghi più belli dell’Africa centrale. La sua posizione geografica, sulle sponde del lago Kivu, considerato parte della regione dei grandi laghi, con i suoi immediati dintorni verdi e collinari. Circa 1400 metri sul livello del mare, il clima rimaneva pressoché uguale per tutto l’anno. La temperatura non superava mai i 28 gradi centigradi, e molti turisti europei affollavano questa regione nel passato, prevalentemente attratti dalle spedizioni organizzate per visitare le poche famiglie di gorilla che erano rimaste sul pianeta.

Nessuno degli edifici che sembravano essere Hotel mi dava l’impressione di essere sicuro per una donna che deve passare la notte. Ne ero un po’ preoccupata, mi chiedevo come avessero arrangiato la sistemazione.

Pierre, l’autista, girò a sinistra e, con mia grande sorpresa, ci siamo ritrovati a scendere per una strada alberata, apparentemente in una zona residenziale, dove le case erano disposte in modo curato ed ordinato ed avevano intorno dei grandi giardini. Pierre mi disse che il nostro ufficio era collocato in una di quelle case. A circa metà della discesa, la macchina si fermò difronte ad una casa di media grandezza circondata da un giardino non grandissimo ma molto ben tenuto.

Un folto gruppo di persone aspettava fuori dal cancello – soprattutto uomini ma anche donne con i loro bambini. La maggior parte era vestita bene, ma alcuni avevano vestiti che avevano visto giorni migliori ed altri ancora indossavano quelli che normalmente vengono definiti stracci.

“Stiamo dividendo l’ufficio con un’altra agenzia, e queste persone sono profughi del Rwanda e del Burundi, ma soprattutto del Rwanda” mi disse Pierre.

Uscimmo dalla macchina e ci facemmo strada fino ad un alto cancello di ferro bianco. Pierre busso ed una guardia apri cautamente il cancello di qualche centimetro, e alla fine ci fece entrare.

“Finalmente sei arrivata”, fu la frase con cui fui accolta da mio nuovo capo, di mezza età, brizzolato, sopra peso e dall’aspetto austero. Era seduto dietro una semplice scrivania di legno cosparsa di fogli di carta.

Non era il solo in quella piccola stanza che sarebbe dovuta essere il nostro ufficio. Dall’altra parte della stanza un uomo di una certa età, magro, distinto e dall’apparenza gentile era immerso nello studio di alcuni documenti sulla sua scrivania e non alzò nemmeno lo sguardo quando entrai.

“C’è molto lavoro da fare qui. In ogni caso, alloggeremo tutti all’Hotel Orchid. E’ il migliore qui. Sono riuscito a fare riservare una stanza anche per te. Sei stancha o ti puoi mettere a lavoro immediatamente?” disse dopo una breve introduzione.

Non mi sentivo affatto stanca, anche se forse dovevo esserlo dopo un viaggio in aereo notturno e quattro ore di macchina su una strada accidentata. L’eccitazione era tale che dimenticai le mie ossa doloranti. In cosa mi ero cacciata? In una sorta di avventura all’“Indiana Jones”?

“Prima di tutto, che ruolo vuoi prendere qui? Quello di Capo Ufficio, o Ufficiale Amministrativo e Finanziario?” mi chiese guardandomi dritto negli occhi.

La domanda mi prese un po’ alla sprovvista, e mi confermò la paura, o meglio l’aspettativa, che bisognava essere in grado di fare tutto qui, perché nulla era stato organizzato. Dopotutto, eravamo li per organizzare un ufficio da zero.

Al quartier generale non ero stata istruita su quali mansioni dovessi svolgere come membro del così detto Rapid-Response-Team, una squadra di intervento rapido; probabilmente perché neanche l’ufficiale responsabile ne era al corrente.

Senza pensarci troppo, gli dissi che mi andava bene il titolo di Ufficiale Amministrativo e Finanziario. Sembrò essere soddisfatto della mia risposta ed assunse un aspetto in qualche modo più rilassato. Poi aprì il cassetto della sua scrivania e tirò fuori una grande busta di manila e me la porse.

“Gli altri due membri della squadra – in tutti i modi, io qui sono considerato il leader della missione – sono un responsabile logistico ed un responsabile di programma. In questa busta troverà ventimila dollari in contanti che il nostro responsabile logistico è riuscito a portarsi dietro da Addis, il posto che gli era stato assegnato in precedenza prima che arrivasse qui stamattina. Tu sarai responsabile di questo denaro, con cui dovremmo pagare i collaboratori locali, ancora da scegliere, e, ovviamente, i trasportatori ecc. Le banche non funzionano, ma cosa si vuole, non funzionano neanche i telefoni in questo posto! Sono stati messi fuori uso vent’anni fa circa. Per quanto riguarda le comunicazioni, facciamo affidamento sul nostro telefono satellitare e sulle radio mobili. In ogni modo, le banche non funzionano, quindi uno di noi deve far entrare i contanti attraverso Cyangougou in Rwanda, un posto situato poco oltre il confine con lo Zaire, dove vengono effettuati voli regolari da e per Nairobi. Il nostro ufficio di Nairobi manderà un messaggero su quel volo e tutto quello che dobbiamo fare noi è prendere la busta ed assicurarsi di attraversare i controlli alla frontiera senza che la polizia militare zairiana o rwandese la trovi. Se la troveranno, la cosa migliore che faranno sarà confiscarla, la cosa peggiore…chi lo sa’? Te la senti di prendere certi rischi? La prossima consegna dovrebbe avvenire domani. Inoltre, qui non abbiamo un posto sicuro dove tenerli, quindi ti consiglio di chiedere al direttore dell’albergo di tenere i soldi al sicuro nel suo albergo.” Il nostro leader disse tutto ciò praticamente senza mai prendere fiato.

Visto che in realtà non mi aveva dato scelta, accettai, con mia stessa sorpresa, di incaricarmi della prossima missione di questo tipo. Dove presi il coraggio?

“Va bene”, dissi semplicemente; presi la busta di manila che mi porgeva e la riposi con cura nella borsa samsonite grigia, che avevo scelto per questa missione. Mi domandavo in cosa mi stavo cacciando, ma non avevo paura, almeno non ancora.

Il mio coraggio deve averlo impressionato molto, e non mancò di dirmelo quando tornai il giorno stabilito da Cyangougou dopo aver completato la mia prima missione di questo genere. In un certo senso, mi sembrava di essere stata mandata solo a consegnare o a ritirare una lettera. L’elemento di rischio mi sfuggiva, curiosamente.

Inoltre, la polizia di frontiera rwandese e zairiana di guardia alla frontiera tra Ruzizi, che confinava con Bukavu, e Cyangougou in Rwanda, avevano una pessima reputazione in quanto a molestie. Mi ero ben preparata infatti, portando con me alcune potenziali bustarelle, che variavano da pacchetti di sigarette e pane fresco. “Fatemi semplicemente passare subito, senza fare domande” – questo era il mio motto.

Ripensandoci ora, non rifarei mai questa esperienza, trasportando denaro in questo modo, attraverso nazioni africane ostili, dove la gente non si farebbe scrupolo ad uccidere per un solo dollaro.

Al tempo, non pensavo molto ai rischi. Avevamo bisogno del denaro, altrimenti l’operazione non sarebbe potuta andare avanti. Ed eravamo così impegnati che non c’era tempo per preoccuparsi dei rischi potenziali.

Il lavoro iniziò alle 6:30 del mattino al tavolo della colazione in albergo. Una mattina, dopo circa due settimane che ero li, ebbi la necessità di fare colazione a letto e quindi non andai su all’incontro col leader ed il resto della squadra.

Pochi minuti dopo aver iniziato a fare ciò che mi ero prefissa di fare quella mattina, recevetti una chiamata sulla mia radio mobile.

“Pensavo fossi morta. Come mai ancora non sei di sopra?”. La voce era quella del leader. Neanche un “buongiorno” o un “come stai”, pensai tra me e me.

“Sto facendo colazione a letto” fu l’unica risposta che ebbe da me. Stavo iniziando ad imparare a trattare la gente esattamente come trattano me.

Dopo tre settimane lascai l’albergo e presi una cassetta in affitto. Ero molto felice nella mia casetta in riva al lago di Bukavu. Era stata costruita nel periodo coloniale, aveva la forma di un bungalow ed era di colore bianco. Il salotto, grande ed in stile rustico, aveva una vista sul lago e, alla fine di una dura giornata lavorativa aveva un effetto rilassante. Il giardino attorno alla casa era ampio e giungeva fino al lago. Ogni mattino alle sei, il mio vicino libico, che aveva la casa a circa venti metri dalla mia, si faceva il bagno…nudo. Non era esattamente un uomo che consideravo bello, di conseguenza evitavo di guardare fuori dalla finestra del salotto alle sei della mattina.

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