Rolando Alberti, nativo di Forno, un paesino della Valle del Frigido sulle Alpi Apuane, è pastore e poeta delle sue montagne. Il padre Anselmo gli ha trasmesso la dura pratica, ormai quasi del tutto scomparsa, dell’alpeggio in quota, che impone un notevole sforzo fisico, con l’ascesa su ripidi crinali, e la capacità di affrontare lunghi periodi di solitudine, nell’isolamento degli stazzi. Ma l’anziano genitore, che sulle aspre selle di questi monti ha speso la propria vita, depositario della cultura arcaica che le intride e delle tante narrazioni che in questo paesaggio si sono avvicendate, ha donato al figlio anche un variegato patrimonio di storie, su cui la sensibilità del ragazzo si è esercitata fin dall’infanzia. Per chi non lo sapesse le Apuane, con le loro cime irte e affilate, formano una catena montuosa che si estende nella zona centro-settentrionale della Toscana, tra Versilia, Garfagnana e Lunigiana. Ben osservabili dalla costa, staccando lo sguardo sopra la linea del litorale, in direzione nord, danno vita a un contrasto particolarmente suggestivo tra macchia mediterranea e ambiente alpino. La loro singolare morfologia, che si differenzia nettamente dalle vicine conformazioni appenniniche, ha fatto sì che venissero catalogate come alpi. Guglie e torri d’imponente grazia scultorea, pareti strapiombanti, canaloni dove il bianco della pietra s’incontra col morbido lucore delle nevi, in lontananza il loro mutevole frastagliato profilo sembra cantare. Su queste cime, generazioni si sono alternate intrecciando una storia millenaria, fatta di gesta leggendarie e quotidiane fatiche. Popolo fiero, quello dei liguri apuani, gente ruvida e indocile, arroccata nei temibili castellieri, i villaggi fortificati che in alcun modo potevano esser presi dal nemico, pagani, adoratori di menhir innalzati alla madre terra. Di queste presenze, e di quelle più sfuggenti, legate a antiche dicerie, a visioni fantastiche e talora spaventose vive la parola di Rolando Alberti. Omaggio alla natura che ha presieduto la sua iniziazione, appello della memoria a serbare traccia di tutto quanto è destinato a svanire, inghiottito dal passaggio del tempo, commosso ritratto del padre «che come un antico, illuminato dall’alta luna,/ porta il gregge sul sentiero», così nella poesia dell’Alpe Rotaia, il poeta stabilisce una simbiosi totale tra uomo e monte, cadenza che scorre come falda sotterranea in tutte le liriche. C’è un confronto continuo fra lo spazio immutato dell’alpe, il suo inattingibile esserci e la limitatezza in cui si dibatte l’uomo, che tuttavia nella consuetudine con la montagna impara quasi a trascendere se stesso, crede a momenti di cogliere una dimensione ulteriore, più ampia e problematica di quella cui è destinata la sua corporeità. La scoperta del proprio limite fisico genera una profonda inquietudine che provoca scontentezza; la scrittura, nell’esprimere questa confusione dei sensi, prova a sanarla, almeno salvando dall’oblio quella zona franca e meravigliosa che è il pensiero, fonte inesausta di percezioni e sola risorsa capace di garantire all’essere umano una rappresentazione dei fenomeni ai quali assiste. L’estremamente magico, titolo della raccolta, è la «bisbigliata intesa» che s’insinua tra le cose, l’estrema consonanza tra reale e irreale, la sottile striscia di luce che resiste pochi attimi ancora sul monte, prima che sopraggiunga la sera. In tutto ciò, l’uomo catapultato nell’ordine del mondo è un brandello di carne che volge le spalle all’eterno, immoto e distante, e si aggira incerto, talora perfino timoroso, sul sentiero abbrancato dalle ombre o nel silenzio che incombe sul suo rifugio, rischiarato appena da una candela la cui fiamma «illumina il dentro più che il fuori». Questa traslazione tra interno ed esterno, questo scivolamento in una zona liminale verso cui spinge il buio che avanza dal mare dove resistono gli ultimi «nidi di luce», visione nostalgica e pungente per chi guarda dal fianco della montagna, sembrano suggerire le fasi di un incantesimo. Così pure il rossore delle cime, il giallo delle faggete, la «macchia verde oscura di vita irreale», i segni della natura che accompagnano i giochi d’infanzia del poeta, e tuttora ne seguono immutati il suo «ricorrente vivere», i cieli, il vento, i lampi, i torrenti, note di una mantica del sé che non a caso inaugura la raccolta, svelano una dimensione trasfigurante e fantastica, che leviga il tempo, annulla le distanze, livella forme e immaginazioni. Nella ciclica corrispondenza del tutto che l’alpe insegna all’uomo, si impara a considerare il passaggio degli esseri sulla terra come necessario; perché il seme si cambi in germoglio, nulla può rivendicare un’esistenza più durevole di quella che gli viene assegnata. Perciò in ottobre il castagno raccomanda il frutto alla terra «bagnata come una donna che l’uomo ama»: lì saprà conservarsi e generare nuova vita. Il ragionamento sul tempo occupa una serie di liriche centrali alla raccolta, dal sonno di un bambino, nel quale si coglie una prova d’immortalità, pur se breve, contrastante con la veglia dell’adulto, alla riflessione sulla caduta dell’essere umano in una temporalità dolorosa e struggente, come conseguenza della ribellione all’eterno. Il senso del passato affiora da una casa vuota, nient’altro che un rudere dimora del vento, il proprietario vi incise una data per non essere dimenticato e quei numeri corrono ancora incontro al viandante, portando l’eco di un’intimità andata ormai dispersa. Infine la catabasi, perché l’incontro coi morti rammenti il cammino a chi ancora vive, sebbene la discesa serva anche a comprendere che il tempo fissato nei ricordi è irrimediabilmente effimero. Nel caratterizzare questa vicinanza del pensiero a un regno metamorfico e rovesciato, di fronte al quale ogni ordine logico è destinato a entrare in crisi, Rolando Alberti predilige l’uso del participio presente, che si divincola tra verbo e aggettivo e ha un suono cantilenante, di straordinaria evocazione. Si veda ad esempio la chiusa di Il Terrestre, dove i participi si rincorrono quasi in una rapidissima mimesi della creazione: «aspri venti asciugano la già vogliosa terra/ la ballante dea/ ispiratrice delle striscianti pietre/ dei galoppanti venti/ e degli uccelli emigranti/ trascinatori dei miei roteanti pensieri/ che dal ventre del caos/ a me li hanno donati». Compagni di strada dell’autore sono nel presente lavoro Enrico Medda e Guglielmo Fiamma, entrambi impegnati sul versante della didattica e della scrittura, amici di lunga data di Rolando e da sempre interpreti affezionati della sua parola. Questa assidua frequentazione, che risale alla gioventù dei due curatori e alla loro passione per la montagna, è indubbiamente un valore aggiunto dell’opera. La ricerca letteraria si unisce a uno scavo profondo nell’identità e nelle consuetudini apuane, ambiente schivo e difficile, eppure amatissimo dall’autore e da chi commenta, dove il sodalizio umano asseconda il rivelarsi del poeta. Una ritmica arcaica, una levità pacata nell’osservazione, un invito a procedere con lentezza pervade il lettore. In un’epoca che ci ha abituato al frastuono, a essere rumorosi e ingombranti in ogni manifestazione del nostro esistere, le poesie di questo libro possono apparire oltremodo inconsuete e perfino di non facile comprensione, tanto poco siamo abituati al dialogo con la natura. Alberti ci invita, almeno nell’arco di tempo che occupa la lettura dei suoi versi, a far scendere in noi il respiro della montagna, a recuperare «canute voci» di fate e altre «antiche risonanze», a non temere l’incontro con gli esseri che popolano leggende e bivacchi, streghi che stanno sui noci come tanti lumini, e fantasmi a guardia di favolosi tesori. Dietro il poeta, infatti, c’è tutta una cosmogonia di luoghi, tradizioni e oggetti che ai più suoneranno desueti, se non estranei. Eppure, se ci si abbandona alla semplicità e al calore con cui ci parlano, anche nel ruvido sillabare del dialetto di queste Alpi, ne trarremo una lezione di sorprendente consapevolezza.