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Un seme di luce

Poesia

Duska Kovacevic
LietoColle

Recensione di Gian Piero Stefanoni
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Pubblicato il 28/01/2014 12:00:00

 

Prova d’esordio poetico, dopo il romanzo “L’orecchino di Zora”, per la croata Kovacevic della nobile città di Rjeka (Fiume), ormai da quasi vent’anni in Italia dove opera attivamente in ambito sociale e culturale. Un esordio questo già cabotato da pubblicazioni sparse e che, volendo restare al titolo, nel chiaroscuro della sua forma diaristica tenta un’apertura nel corpo di un anima che preme tra trattenimenti ed aspirazioni d’insieme, lucidamente sgomenta - e appassionata - tra rifrazioni e inquietudini di senso. Potremmo dire, a partire dall’esergo della Pinkòla Estes e dal testo d’apertura a seguire , terra che si desidera feconda nella profondità di un seme finalmente radicato ed in luce negli spazi vuoti dei propri effettivi e più naturali bisogni, non più nella rete dei tanti io slegati di una realtà guasta che procede senza amore o dentro un amore morto. Così ci appaiono questi versi come una poesia del coraggio che combatte se stesso tra ossessioni e tiepidezze di crescita e consapevolezza di un mondo la cui direzione può esser ricomposta solo nell’intensità di un legame nel cui cerchio - a fronte di un’immensa e separata accelerazione- onorare il domani (e la cui indovinata visione è nella dialogante giostra degli animali tra gli alambicchi nella foresta). Ed è allora nel timore “di essere felice,/ come fosse qualcosa che non si merita”, il nodo di una confessione che sembra affondare nel destino di un tempo che nella compressione degli spiriti accarezza e celebra le proprie negazioni. La Kovacevic, evidentemente, non può che rispondere come può tra sospensioni e reclami, come sa, in un corpo a corpo d’amore dapprima con se stessa e poi con l’altro da sé che ha nella figura dell’uomo amato il centro esatto del proprio “ventre cosmico”, delle proprie “labbra nude”. Duello che nell’offerta del femminile si snoda nel terreno comune di una nudità in cui per rivelazione e riconoscimento le identità possono dischiudersi e trovarsi soprattutto nel bene reciproco di una fragilità accolta a dire la cura e la direzione dei mondi - “Non siamo soli, le pelli lo sanno/ sotto le ossa scorre la vita di tutti” - nella sparizione di “ogni illusione sul possesso”. L’attrito nel controcanto - ma anche la tenerezza- fortemente impresso in una versificazione recalcitrante alle classificazioni (e che sovente deborda come fiume) è come accennato con una figura maschile che si rivela distratta, in un rapporto tra generi segnata da gelosie e disattenzioni, da avarizie anche ed in cui la Kovacevic si racconta fino in fondo tra recriminazioni, lettere d’addio ed invettive di dolore. Tutto ciò a dire la natura di una figura per cui val bene la definizione di donna d’amore, seppure ancora divisa tra perenni compressioni e slanci di fecondità e liberazione, di stella che aspira a scoprirsi già a sé nella brezza vitale che l’attraversa (come nella immagine in “Desideria). Perché, a dispetto del buio, il seme in cerca di luce si lega qui al cielo di una poesia intesa come confidenza d’anima nei cui tocchi e nei cui respiri - in cui “tutto sembra innamorato” - si cela pienamente la preghiera ed il pensiero della terra nella misura di un raggio “che andrà ben oltre il giudizio”. Anima poetica allora, la cui scrittura però, a dire il vero, risente ancora a tratti degli strattonamenti di uno spirito comunque esitante i cui inceppamenti finiscono, se non sciolti, con una mortificazione linguistica che non rende onore a un dettato e a una vis originale e coinvolgente nelle sue provocazioni ed istanze. E’ sorprendente infatti come con singolare linearità a versi lucidi e senza sconti, dai quali il lettore stesso si sente in qualche modo richiesto per affinità e responsabilità d’insieme, se ne alternano ogni tanto altri in cui, purtroppo, per eccesso di parlato e inutili e banali ripetizioni - in una masticazione priva di controllo e cura (anche per chi cerca decifrazione) - non possiamo parlare di poesia. Poesia che, piuttosto, è nelle corde vere di un daimon pressante ma che ha bisogno di maggiore ascolto da parte dell’autrice per interrogarsi ed esprimere al meglio, altrimenti alla lunga rischia di interrompersi in un desolato, e desolante.., canto strozzato. E sinceramente ce ne dispiacerebbe.

 


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