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I suoi occhi

di Michele Rotunno
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Pubblicato il 01/12/2010 18:35:21

La vita nei paesi è scandita da avvenimenti ben precisi. In autunno la vendemmia, in pieno inverno il maiale e in estate si concentrano tutti i matrimoni. In due mesi, dalla metà di giugno a quasi fine agosto, vi sono almeno due matrimoni al giorno per cui, volenti o nolenti, ci si sta sempre imbracati a festa. Il mio non è più un paese molto popoloso come lo era mezzo secolo fa, oggi i suoi abitanti non arrivano a seimila anime, compreso le badanti e tutti gli altri extracomunitari. La scelta di concentrare i matrimoni in quel periodo non è certamente dovuta a un improvviso riscaldamento ormonale ma semplicemente ad una politica di pura economia. È in estate, infatti, che tutti i parenti residenti fuori rientrano in paese, pronti per farsi spennare con le bustarelle agli sposi, e non vi è nessun miracolato poiché tutti sono parenti di tutti, me compreso che vivo al nord da ormai più di venti anni. A farla da padroni in queste circostanze sono i ristoratori, capaci di moltiplicare i posti affinché tutti gli invitati, siano essi anche un mezzo migliaio, possano trovare un angolino dove pigiarsi. Un’altra caratteristica è l’occasione di incontrare o almeno di rivedere persone di cui abbiamo perfino perso il ricordo come lontani parenti, compagni di scuola, amici e conoscenti di strada e, qualche volta, anche vecchie passioni.
Ed è quanto mi è capitato l’estate scorsa al matrimonio di una lontana cugina.
Ad occupare almeno quattro tavoli, quelli rotondi da nove posti ciascuno, vi è tutto il mio clan famigliare capeggiato da uno zio, il fratello più grande di mio padre, e viavia tutti gli altri, cugini primi e acquisiti con relativa prole. Allo stesso tavolo, unico celibe ultra quarantenne, io con i miei tre fratelli.
Nel caos generale ci apprestiamo a trascorrere il pomeriggio che ci attende quando qualcosa, ad un tratto, attira la mia attenzione. Non so cosa sia di preciso, forse la sensazione di essere osservato con intensità, cos’ i miei occhi si dirigono senza tentennamenti nella direzione da cui inconsciamente avverto la provenienza di quell’interessamento.
Gli occhi, solo ed unicamente gli occhi, gli stessi, profondamente azzurri, originano uno sguardo ancora civettuolo, falsamente pudico. Non sono mai stati veramente innocenti, bensì consapevoli dell’attenzione che producevano, ma ora, dopo tanto tempo, restano solo loro con un fondo, forse, di marcata nostalgia, non per quello che avrebbe potuto essere ma per quello che fatalmente si è lasciato alle spalle.
Dal giorno che sono ritornato ho desiderato vederla, così come si può desiderare di rivedere un oggetto caro e familiare, rappresentante di un’età spensierata, raccoglitore di quei sentimenti ingenui e genuini che solo l’adolescenza può produrre.
Ora Giulia è davanti ai miei occhi, a poco più di due tavoli di distanza. Non so quando è arrivata, forse era già lì quando siamo arrivati noi, né ho sentito fino ad ora la sua voce, eppure ricordo bene il suo tono acuto. In pratica non ho avvertito la sua presenza se non ora, forse anche lei si è solo ora accorta della mia. Per lunghi attimi restiamo a guardarci, curiosi di scoprire i rispettivi cambiamenti. Ho adesso la consapevolezza che abbia sempre saputo, o per lo meno intuito la mia infatuazione per lei, ciò che riconosco è che non ho mai avuto il minimo incoraggiamento da parte sua per tentare delle avances. Il mio è sempre stato, nei suoi confronti, l’atteggiamento rassegnato e rinunciatario di chi si ritiene sconfitto in partenza. Ma in fondo il suo atteggiamento era forse quello giusto, quello che rispettava gli usi e le consuetudini del paese di circa trent’anni fa, e la mia era semplicemente insicurezza e immaturità.
Nel guardarci scopro nei suoi occhi una punta di compiacimento, probabilmente alimentato dalla sua femminile vanità, ed allora sposto l’attenzione sulle persone che le stanno sedute vicino. Alla sua destra un adolescente, sarà forse suo figlio? Comunque non le somiglia affatto, è basso e magro, ha i capelli neri, colorito scuro e porta occhiali da miope. Ho la conferma che lo sia quando la interpella chiamandola mamma. Alla sua sinistra siede un uomo, basso, magro, quasi del tutto calvo, dal viso rugoso e i lineamenti delicati. Mostra una sessantina d’anni, probabilmente ne avrà di meno solo se li porta male.
Anche in questo caso ho la conferma che sia il marito dai gesti di affettuosa confidenza che si scambiano. Ogni tanto lui posa la sua mano sulla sua attirandone l’attenzione. Lei allora avvicina il capo al suo e ascolta ciò che le mormora sottovoce, quindi lei sorride e ritorna eretta, sempre però senza distaccarmi gli occhi di dosso.
Spazio il mio sguardo su di lei. Fisicamente è cambiata, è parecchio appesantita, probabilmente fa una vita sedentaria. Il viso è tondeggiante, pienotto, con due piccole rughe sotto gli occhi. I capelli, poi, completano la trasformazione, non più portati sciolti sulle spalle bensì corti con acconciatura a casco, quasi a risaltare l’incipiente pinguedine.
Improvvisamente avverto la pressione di un piede sul mio, mi giro e vedo mio fratello maggiore, al mio fianco, che mi guarda ironicamente poi, avvicinandosi al mio orecchio mormora:
“Ancora infatuato?”
“No deluso”
“Pensi che ora lei poteva essere tua moglie?”
“La mia infatuazione per lei non arrivava a tanto”
“Ti confido che anch’io, una volta, ci avevo fatto un pensierino”
“Avevi senz’altro più possibilità di me di riuscirci, potevi provarci”
“Non l’ho mai fatto”
“Perché?”
“Mi sono accorto che lei si compiaceva soltanto di attirare l’attenzione su di se”
“Probabilmente hai visto giusto”
“Comunque sia non ci siamo persi niente, non trovi?”
“Ti sbagli, abbiamo perso la nostra giovinezza”
“Che vuoi dire?”
“Allora tutto ci era permesso!”

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