Pubblicato il 23/01/2020 12:12:34
Riproponiamo il testo di Emanuele Severino (1929 - 2020) pubblicato sul numero di VITA di luglio-agosto 2019. Il suo contributo al bookazine è stato raccolto da Marco Dotti
Ho studiato a Brescia e mi sono laureato a Pavia con Gustavo Bontadini, il mio maestro. Fu a Bontadini che, al mio terzo anno, chiesi la tesi. Gli chiesi di occuparmi di Martin Heidegger. Era il 1948 e di Heidegger si parlava ancora poco in Italia. Scrissi la tesi e, nel 1950, venne pubblicata. Avevo 21 anni, ero molto giovane per i criteri odierni, ma ero anche stato uno studente particolarmente brillante.
Dopo essermi laureato, Esterina, che di lì a un anno sarebbe diventata mia moglie, ed è scomparsa nel 2009, aveva letto un annuncio sul Corriere della Sera. Diceva che cercavano professori per la “libera docenza”. Significava che non si dovevano attendere quattro anni dalla laurea per poter insegnare. Partecipai al concorso in filosofia teoretica e lo vinsi. Fu così che cominciò la mia carriera all’università, insegnando per due anni a Pavia.
Può stupire la mia giovane età. Ma allora non ci stupiva affatto. Come non mi stupisce, oggi che di anni ne ho compiuti 90, sapere che Martin Heidegger lesse e commentò, con crescente stupore, il mio lavoro su di lui.
Oggi molti pensano alle relazioni come a un veicolo di autopromozione. Allora conta chi cita chi o chi è citato da chi e in che modo viene citato. Ma le cose stanno diversamente. Torno all’esempio di Heidegger perché ci fa capire come un filosofo affermato e formato come lui, che era nato nel 1889 e aveva pubblicato “Essere e tempo” nel 1927, si interessasse della tesi di laurea di un ventenne, anche se questo ventenne aveva già pubblicato dei libri.
Dopo la guerra c’era voglia di fare, c’era un fermento tra le generazioni. E c’era una rete di interessi per cui le idee si dibattevano e si discutevano.
Giovani, vecchi: importa?
Il problema, oggi, è che si invecchia male. Ho 90 anni, di libri ne ho pubblicati molti, e al mio pensiero è stato dedicato un ultimo, recentissimo convegno dal titolo “Heidegger nel pensiero di Emanuele Severino”. Non smetto di studiare, di pensare, di lavorare. Bisogna adattarsi alla vecchiaia, senza cadere nel futile e nella logica del “passatempo”.
Certo, questo è anche il tempo in cui ci si confronta con la morte e col dolore, tema di tanti miei libri e del recente “Dispute sulla verità e la morte” (Rizzoli).
Si teme la morte perché la si confonde con l’agonia, con la sofferenza che sono fenomeni della vita. Ma dopo l’agonia che cosa c’è? Ecco dunque il problema della morte. La nostra cultura concepisce la morte come annientamento. Ma è davvero così? O la morte, piuttosto, è un proseguire infinito oltre il dolore che caratterizza la nostra vita? Quando mi chiedono se ho paura della morte o perché la guardo con serenità rispondo che l’Occidente crede che morire sia andare verso il nulla. Dobbiamo capire che questo che crediamo un andare nel nulla è, in verità, lo scomparire degli Eterni. Quando la legna diventa cenere, crediamo si annienti la legna e nasca la cenere. Ma se sappiamo guardare a fondo, vediamo lo scomparire progressivo di singoli eventi (la legna che brucia, poi che brucia un po’ meno, la cenere che compare…): la morte ci appare nella forma dell’agonia, morire è il progressivo scomparire degli Eterni che escono dal cerchio dell’apparire. Ma l’uomo è destinato alla Gioia.
Ecco il tema della Gioia. Gioia, il superamento di tutte le contraddizioni che attraversano la nostra vita. Viviamo nella contraddizione, ma esiste un luogo in cui ogni contraddizione è oltrepassata? E noi, che cosa siamo, rispetto alla totalità di quel luogo? Quel luogo non è, forse, ciò che realmente siamo? La risposta è “sì, siamo quel luogo”. Un luogo che chiamo Gioia. Gioia non è la felicità, che è sempre una volontà soddisfatta. La Gioia, invece, è infinitamente più alta. Non è volontà, ma eliminazione di ogni contraddizione.
Ecco perché avvicinarsi alla morte è avvicinarsi alla Gioia.
Marco Dotti per 'Vita
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