[ Recensione di Domenico Cipriano ]
Con In-chiostro (Delta 3 edizioni, 2012; premio L’inedito - sulle tracce del De Sanctis), Giovanna Iorio offre la sua anima a un lettore ideale (un indizio è la dedica “ad Alan”), un’anima intrisa dell’inchiostro della sua scrittura. Il libro (anche segnalato, nel 2013, al premio biennale per l’edito Civetta di Minerva - Antonio Guerriero) col suo titolo rivela volontariamente un duplice significato: “in (nel) chiostro” e “inchiostro”. Quel duplice significato che attiene al senso stesso della creazione artistica, un momento folgorante, ma continuo, con cui l’artista (nel caso il poeta) si esclude dagli eventi che lo circondano, per ritrovare il nervo della sua arte. È un momento di assenza, quindi, per rivelarsi con l’arte; un atto che, nello stesso tempo, distanzia tutto ciò che incessantemente bussa alla propria porta con la vita di tutti i giorni e gli affetti. Una esclusione che darà un dono grande, immenso, che apparirà quando dalla “clausura” prenderanno forma «queste ruvide carezze/ che io concedo». Ma è un “inchiostro” che, consapevolmente, l’autore sente quasi come una colpa, essendo le sue carezze destinate «a questa colpa/ che sporca la mia vita// a questa macchia di parole/ che si allarga».
Ancora, è inchiostro che, seppure isola in un chiostro di clausura, contemporaneamente libera ricordi, pensieri, essenza di vita. Così dalle parole appaiono forme, immagini e presenze interiori. Minuscole “farfalle” o “formiche” che nascondono, nella loro impercettibile presenza, i ricordi indelebili della sua “montagna”: l’Irpinia dell’adolescenza e della prima formazione culturale e umana.
Giovanna Iorio è abile nel cercare forme giocose con le parole, soluzioni fonetiche e leggerezza del dettato, creando empatia e, al tempo stesso, mostrando abilità e padronanza del linguaggio poetico. Il suo modo di scrivere rappresenta la sua grande conoscenza letteraria, quale studiosa e traduttrice e, nel contempo, la sua allegra presenza che, come tutti i veri artisti, nasconde un’intima fragilità (quasi fosse il pettirosso in copertina, realizzato di Simone Massi) e una sofferenza che prova a celare tra le costruzioni relegate alle parole. Troviamo, tra i versi, riferimenti sparsi alle sue letture e “forse” maestri volontari o involontari. Così, giusto per fare qualche esempio, la poesia “Il guanto” (pag. 16) riporta alla mente alcuni testi di Valerio Magrelli, oppure la poesia “All’anima” (pag. 40-41)” ricorda, pur col tono ironico proprio del dettato della Iorio, il senso de “I giusti” di Borges che “salveranno il mondo”.
È un libro complesso perché apparentemente lieve e giocoso, come dicevo, ma ricco di metafore e significati reconditi che svelano l’anima stessa della scrittrice, la ricerca “ancora” incessante delle parole che ancorino, diventino punti fermi nella scrittura (Àncora – pag.34) e, nello stesso tempo, fuori da essa (La mappa – pag.35).
Punti fermi che l’autrice sembra ritrovare nelle “radici” e, soprattutto, nella sua forza di donna, rivendicando la sua evoluzione da ragazza vissuta in un piccolo borgo d’entroterra, dove è nata nel 1970. Emancipazione che mostra grazie alla cultura acquisita, quella conquista di “donna che legge” e ricrea: «La Iorio come tutte le donne che si cimentano con la poesia, conserva lo strazio e il canto che è il meglio della poesia femminile, il lacerante patrimonio di parole venuto in eredità dalla tradizione, lo “sciame” di pensieri che si libra in volo (dalla prefazione di Mario Morelli)». Così, è essa stessa il significato del proprio vissuto: donna concreta, ma sempre alla ricerca di qualcosa finora sconosciuto (e forse già dentro di sé), consapevole di poter sempre giungere a un traguardo sperato; un miraggio che diventa visibile grazie alla scrittura: «Vorrei una pagina bianca/ larga una vita/ […]/ dove essere inchiostro».