Il titolo della silloge “DI MIA A TIA” è anche il titolo della prima poesia. Ma il sintagma, estrapolato dal contesto in cui è inserito nel sonetto iniziale , assume un significato nuovo: nella lirica iniziale un giovane emigrante si rivolge con straziante dolore alla sua terra, dicendole che “di mia a tia”, cioè che di lui alla sua Sicilia, non resterà nulla perché vivrà altrove e lì realizzerà i sogni coltivati durante le insonni notti trascorse studiando, invece lo stesso titolo dato alla silloge vuole evidenziare il dono poetico che il poeta fa al divino-lettore, al quale il poeta, come un fedele, offre una satura lanx, un piatto ricolmo di poesie che affrontano con toni diversi, temi diversi. Potremmo anche dire, che tale titolo allude all’apophoreta, cioè al dono, per esprimersi con il lessico di Marziale, che l’ospite-poeta offre ai commensali-lettori, ultimato il banchetto culturale che egli ha imbandito, assaporando tra una portata e l’altra, vari gusti, vari sapori, insomma assoporando la pluralità dei contenuti che ora con tono serio o malinconico, ora con tono ironico, satirico o umoristico progressivamente si porgono all’attenzione di chi legge.
La donazione al lettore è ulteriormente rimarcata dall’ultimo sonetto che non solo in tal modo dà circolarità alla struttura della silloge, ma consente anche al poeta,servendosi della figura della prosopopea, di animare i suoi sonetti e di parlare con loro, rivelando le motivazioni profonde che lo hanno indotto alla loro composizione, quali la monotonia e la noia del quotidiano e il desiderio di uscirne, esplicitando in versi i suoi pensieri per poter dir loro di via, fra la gente che magari riderà e, se ciò dovesse accadere, allora l’utile per il poeta, che in tal modo esce dall’aridità e dalla monotonia del quotidiano e l’utile per il lettore, che dalle poesie ricaverà motivo di riflessione ed insegnamento, si collegherebbe, come proponeva Parini nella sua poetica, al dilettevole.” Quannu u travagghyu si fa camurria”, scrive il nostro poeta ,”è propria tannu lu mumentu du scriviri\ pi diri ali pinseri: annati via!\Vi scrissi e, si faciti puru arridiri,\ vo diri ca sirviu sta fantasia” (Pag. 65), ma il dilettevole non è cercato come dal poeta del Giorno, attraverso la forma classicamente atteggiata, bensì attraverso “u babbiu”, come recita il titolo della seconda sezione della silloge, titolata appunto “I sonetti du babbiu”, e soprattutto attraverso l’uso della nostra lingua madre, “il Siciliano”, che ci assicura un piacere estetico originato dalla pregnanza semantica che lo caratterizza e perciò dalla sua capacità di focalizzare appieno sentimenti, pensieri e di esprimere meglio la varietà di atteggiamenti e di modalità con cui il poeta guarda la realtà e la vita.
Pappalardo è un profondo conoscitore del siciliano e della tradizione letteraria che in tale lingua trova il suo mezzo espressivo e inoltre in lui c’è la consapevolezza che era presente anche in Ignazio Buttitta che “u populu diventa poviru e servu\ quannu ci arrobanu la lingua\ aduttata di patri...”
Forte di questa consapevolezza Pippo, di fronte all’omologazione e al livellamento linguistico nazionale, affida allo spessore di intatta e superiore qualità espressiva del dialetto, la sua poesia. Per Pippo come per Meli il Siciliano è lingua letteraria illustre, anzi la più illustre perché la prima ad affermarsi come tale grazie alla Scuola poetica siciliana. La letteratura del tredicesimo secolo, proprio perché in questo periodo nascono le prime manifestazioni letterarie in volgare, è particolarmente amata dal nostro Pippo, tanto che molti dei temi presenti nella sua silloge, pur nella loro specificità, sono quelli che caratterizzano la letteratura di quel periodo: l’amore e la natura spesso correlati tra di loro, tipico della già citata, Scuola poetica siciliana; la religione, propria della letteratura umbra; il comico-realistico-parodico presente in Toscana,anche se in Sicilia non ne mancarono esempi illustri, quale il contrasto di Cielo o Ciullo D’Alcamo, “Rosa fresca aulentissima”, palese parodia della lirica amorosa siciliana. Tale costatazione,come già si è rilevato accennando alla specificità della poesia dell’autore, non annulla l’originalità della produzione poetica di Pappalardo perché tali temi vengono vissuti e rielaborati secondo canoni e valori, mentalità e problematiche tipiche dei nostri tempi. La silloge è divisa in due sezioni: nella prima prevale l’io, che con tono lirico rievoca e propone stati d’animo, momenti, personaggi della sua vita e del suo mondo, nella seconda, il tono diventa comico-ironico, satirico, talvolta umoristico, mentre il contenuto ha prevalentemente un carattere sociale e moralistico,ricordandoci per molti aspetti il romano Trilussa e, se usciamo dal panorama nazionale, il francese La Fontaine o se andiamo indietro nel tempo i medioevali Roman de renard e i fabiaux, oppure il latino Fedro e il greco Esopo, infatti in alcuni sonetti ,come negli autori ed opere citati, protagonisti sono gli animali, vedi La vurpi e la addina, U palummeddu, etc... Insomma da quanto suddetto è chiaro che il mittente Pippo Pappalardo comunica poeticamente al destinatario lettore con modi e tonalità diversi, pensieri, sentimenti, riflessioni che coinvolgono l’io, l’osservazione della realtà e del contesto sociale attuale.
Ma procediamo con ordine,occupandoci, un po’ più analiticamente, prima delle liriche della prima sezione e poi di quelle della seconda.
Nel sonetto Rἳalu d’amuri, che fa parte della prima sezione, il poeta canta l’amore per la sua ragazza ed invita le stelle a fare luce perché grazie all’incanto che tale luce emana, l’innamorata che “avi la vucca comu la cirasa” e “li capinni d’oru e sita”, lo bacerà, (pag. 18). Come Jacopo da Lentini ed altri poeti delle scuola federiciana, Pappalardo invita dunque la natura a rendersi complice dell’epifania dell’amore, a collaborare con ruffiano compiacimento. Oltre l’amore per la fidanzata, c’è l’amore per la moglie, che in conformità ai moduli stilnovistici è considerata donna-angelo, venuta dal cielo in terra a miracolo mostrare, come recita Dante nella Vita nova a proposito di Beatrice, ma l’evento miracolistico del sorgere dell’amore per Pappalardo non è solo platonica contemplazione della angelicata bellezza, ma diventa realtà di vita,così la donna angelo, diventa moglie e madre e in quanto tale è gioia per lui ed onore per i propri figli. “Ddoppu stu fattu capitò daveru”, scrive il poeta, “un àncilu mi vosi pi maritu\...\occhi lucenti di bontà e priìzza\...A tutti leva tutti li pinseri\ E’duci la so vuci,e na carizza.\gioia pi mia e di li fìgghi onuri” (Pag.30). Non possiamo concludere questa breve carrellata di poesie d’amore, senza accennare alla lirica dedicata alla madre, titolata “Pani ccu ll’gghiu”, dove la figura materna viene connessa al nutricamentu e perciò alla vita. La madre viene ricordata già vecchia, nella sua operosa terrestrità, quando sul far dell’alba era già intenta a fare il pane e il poeta ne alitava l’odore per poi mangiarlo condito con l’olio.
Dopo la su morte, scrive Pippo, “lu pani càudu a mia mi fa priari:\ m’a sentu ancora cca, la me mammuzza” dunque Pippo ha istaurato una connessione simbolico-metaforica tra la madre e il pane con l’olio, emblema del nutricamento, dell’accudimento amoroso che la madre gli ha dato, anzi anche dopo che lei è morta, il pane con l’olio,simbolo di vita e d’amore, ne garantisce la terrestrità ( pag. 19).
Il tema religioso è anch’esso molto sentito e parecchie liriche si connettono a tale argomento che però non si limita ad essere esaltazione di Gesù o di Maria , commemorazione di eventi e momenti della cristianità o manifestazione di fede, ma diviene talvolta occasione per rilevare la negatività dei nostri tempi, per mettere in evidenza come la società attuale si sia allontanata dai dettami evangelici, oppure diviene motivo di riflessione esistenziale sul trascorrere del tempo e sulla vanità delle cose di questa terra. Ad esempio, nel sonetto “U pastureddu” si legge: “Natali fussi a festa di l’amuri\ ma ddivintò la festa di lu frazzu\ E’ festa di rriali e lampadini!\ Cu mancia, bbivi ...\ma cu penza addi mischini\ ca mòrinu ddafora ‘ammenzo ièlu” (pag. 26 ). Il poeta, come si può constatare, con versi pregnanti non solo rivela come il Natale si sia ormai trasformato nella festa dello spreco, del consumismo, ma mette anche in evidenza la divergenza tra lo spreco di alcuni e la miseria di altri per cui l’amore sembra che sia qualcosa scritta solo nei Vangeli, qualcosa di cui ci si limita a parlare, ma che in verità nessuno sa mettere realmente in pratica. Nel sonetto “Lu jornu di lu ggiudizziu” ( pag. 21), la tematica religiosa è connessa nello stesso tempo alla tematica esistenziale e sociale , infatti Pappalardo immaginando di essere morto e di essere andato al cospetto di Dio, attraverso le parole di quest’ultimo,rivela ancora la vanità dei beni terreni e l’importanza di una vita trascorsa all’insegna della pace e dell’amore .
Anche la tradizione del teatro dei pupi, connessa al diffondersi in Italia, nel dodicesimo-tredicesimo secolo dei poemi del ciclo carolingio, diventa motivo di considerazioni etico-morali e di denunzia della sofferenza, della morte e della distruzione che la guerra causa “La guerra”, scrive infatti il nostro Pippo, “servi a supraniari\...\ Ne odiu ne guerra: u munnu mori, si mori l’amuri” (pag. 37). Insomma molte liriche assumono per il lettore, quasi una valenza didattico-moralistica, sollecitandolo di fronte al fluire del tempo, di fronte all’ineludibile morte, all’amore come forza positiva che unica riesce a dare senso e significato alla vita,infatti “senza l’amuri” dice il poeta, “chi ci campu a fari?”.
La seconda sezione,come si è già rilevato, contiene “ I sonetti du babbiu, ma anche qui pur ironizzando e sorridendo, P. non cessa di impartire insegnamenti, di far riflettere il lettore intorno a problematiche attuali; ad esempio, nel sonetto “La vurpi e la addina” (pag. 60) il poeta sollecita a non fidarsi della gente scaltra, oppure nel sonetto “U itu rossu”, viene evidenziato, come, contrariamente a quanto ognuno di noi potrebbe credere, nessuno è necessario ed indispensabile, sicchè anche il pollice che dice alle altre dita della mano “Sugnu u cchiù grossu e m’at’a rrispittari..., un giorno, essendosi difettato, dovette riconoscere “ca nuddu ènicissariu” e che “lu munnu gira sulu e non è mossu\ di cu si senti d’èssiri u vicàriu” (pag. 61), oppure con amara ironia affronta problemi commessi alla crisi economica attuale, come nel sonetto “L’euro” che fu daveru na sbintura! (pag. 51). Altrettanto succulenta è la poesia “Un casu difficili”, dove P. con saporita ironia evidenzia la generale decadenza culturale e più ancora lo straniamento nel quale spesso oggi si vive e al quale spesso siamo indotti dal contesto per cui, non solo gli allievi che,pur trovandosi a scuola ,non riescono ad entrare in sintonia con il contesto in cui si trovano e, di conseguenza, pensano che Cesare sia una persona qualsiasi e non un personaggio storico di cui avevano pur parlato e discusso, ma persino il professore di fronte all’ignoranza che lo circonda, dimentica la storicità del personaggio e, alla fine “...parra sulu e si cunforta: Talè ca l’assassinu è l’assissuri?” (pag. 50). Insomma “u babbiu” è più apparente che reale, perché anche in questa seconda sezione, l’autore riflette e fa riflettere spesso su problematiche attuali. Ne deriva un riso amaro, un ridere che è anche pianto e, se vogliamo fare riferimento all’umorismo pirandelliano diciamo che spesso non c’è solo l’avvertimento del contrario, tipico del comico, ma anche il sentimento del contrario che caratterizza l’umorismo, infatti come il nostro eminente narratore e drammaturgo, Pappalardo “babbiando” rivela, denunzia, ci induce ad un’amara riflessione sui nostri tempi e sui problemi grandi e piccoli che li affliggono.
L’autore, quasi ad omaggiare J. DA LENTINI, considerato tradizionalmente l’inventore del sonetto, nella silloge adopera prevalentemente, tale struttura metrica, rispettando sia la lunghezza del verso, tipica di tale struttura,ossia l’endecasillabo, sia le rime spesso incrociate o alternate nelle quartine, incatenate e chiuse nelle terzine. Particolare della versificazione di Pappalardo è invece l’intensa musicalità ottenuta non solo attraverso le rime, ma anche attraverso il ritmo,particolarmente marcato, grazie al cospicuo uso dell’ictus che spesso supera la tradizionale terna degli accenti principali, facendo entrare in gioco accenti secondari che accrescono la musicalità dei versi.
Per concludere P. Pappalardo, pur collegandosi a livello linguistico, metrico e tematico alla letteratura delle origini, riesce a dare voce ai nostri tempi e farci riflettere sui problemi che caratterizzano la società di oggi.