Edgar Allan Poe “I viaggi immaginari”: Esplorazioni stravaganti e impossibili in giro per questo e altri mondi – Gargoyle 2013. “Per avere paura non occorre un motivo preciso, (..) ma quando si ha paura è bene sapere perché” recita un aforisma di Èmile Ajar (Romain Gary) che bene si adatta all’atmosfera ricreata in questo libro postumo, ‘assemblato’ a distanza di centocinquanta anni circa dalla morte di E. A. Poe, e che raccoglie numerosi racconti, tra i meno conosciuti dell’autore, e sottotitolato da una ipotizzabile chiave di lettura che recita così: 'Esplorazioni stravaganti e impossibili in giro per questo e altri mondi’ che ne permette la godibilità. Con questa raccolta, infatti, si delinea l’importanza di un’operazione editoriale che restituisce al lettore un altrettanto valido ‘materiale letterario’, altrimenti destinato all’obsoleto, in una nuova veste critica e rispettiva traduzione. Lo ‘sgomento’ su cui E. A. Poe fa leva in questi racconti, e che ben possiamo definire ‘paura’ in nuce, a uso e consumo per i successivi racconti dell’ ‘horror’ più complessi che segneranno la sua produzione di maggior respiro, è qui fruita come ‘esercizio di stile’ più propriamente detto, cui l’autore si rifarà costantemente nei suoi scritti successivi. In realtà non c’è una ragione specifica che lega questi racconti all’ ‘orrifico’, pur tuttavia in essi si discopre quella che è la ‘madre di tutte le paure’, la ragione fondamentale della ‘paura’, e cioè ‘il timore del male’ che porta in sé la morte: “Ah, la Morte, lo spettro che si sazia a tutti i banchetti! Quante volte ci siamo persi in considerazioni sulla sua natura! Che mistero quel suo frenare la felicità umana dicendole «fin qui, ma non oltre!»”. È detto nel racconto “Colloquio di Monos e Una” presente in questa raccolta e che, ancora oggi, suona di grande attualità – chi mai l’avrebbe detto? – soprattutto quando Poe affronta il suo avvicinamento a Dio. “Come è facile ipotizzare dall’origine del disordine, chi era stato contagiato dal sistema e dall’astrazione si era avvolto nelle generalità. Fra le altre idee strane, aveva guadagnato terreno quella dell’uguaglianza universale e di fronte all’analogia e a Dio, a dispetto dell’alta voce ammonitrice delle leggi (..) che pervadono così vivamente ogni cosa del Cielo e della Terra, nei tentativi selvaggi fatti per far prevalere la ‘democrazia’ su tutto. Purtroppo questo male era scaturito fatalmente dal male principale, la ‘Conoscenza’”. Per poi riscontrare che: “L’uomo non poteva che conoscere e soccombere. (..) Il mondo sotto l’assillo del desiderio smodato della conoscenza, era invecchiato prematuramente. (..) E mi sembra che persino il nostro senso per ciò che è forzato e innaturale, anche se assopito, avrebbe potuto fermare a questo punto la nostra corsa” – verso quella felicità, che l’autore sembra rincorrere e mai raggiungere, anche quando egli s’arresta al cospetto di Dio nel racconto “L’isola della fata”: “Mi riferisco alla felicità che si prova nella contemplazione dei paesaggi naturali (che gli vengono messi di fronte). In verità, l’uomo che vuole ammirare nel modo giusto la gloria di Dio sulla terra deve ammirare quella gloria in solitudine”. Per poi assicurarci che “..lo spazio, e perciò la massa, è un’importante considerazione agli occhi dell’Onnipotente. (..) Né il fatto che lo spazio sia infinito può negare che la massa sia un oggetto per Dio, poiché può darsi che ci sia un’omogeneità fra lo spazio e la materia che lo riempie. E dal momento che noi vediamo chiaramente che la vitalità di cui è dotata la materia è un principio, anzi a voler estendere il nostro giudizio, è il principio fondamentale dell’opera di Dio, mi sembra quasi illogico immaginare che sia limitato alle regioni dell’infinitamente piccolo, dove quotidianamente lo rintracciamo, e non si estenda a quelle dell’infinitamente grande.” Ma forse all’epoca di questo racconto la ‘purificazione’ doveva ancora avvenire e Poe non sembra qui andare alla ricerca di un riscatto che non arriverà: “Le parole sono cose vaghe (..) e l’uomo, come razza, per non estinguersi del tutto doveva ‘rinascere’ (..) e si trasformerebbe, alla fine, nell’uomo purificato dalla morte, dell’uomo il cui intelletto sublimato non sarebbe più avvelenato dalla conoscenza, dell’uomo redento, rigenerato, beato e immortale, ma pur sempre dell’uomo materiale” – afferma. Per poi andare incontro alla propria ‘morte spirituale’ dicendo: “Il dolore era poco, molto era il piacere. Ma nessun dolore o piacere era di natura morale” e il termine ‘purificazione’ qui usato fa riferimento alla radice greca ‘fuoco’, divoratore, la fine di tutto”. “Esiste uno e un solo evento che renda metaforico ogni altro impiego delle parole, l’evento che conferisce a quei termini il loro significato primario, originario, incontaminato e non diluito – avverte Zigmunt Bauman (*). Quell’evento è la ‘morte’. (..) La morte incute paura per via di quella sua qualità diversa da ogni altra: la qualità di rendere ogni altra qualità non più superabile. Ogni evento che conosciamo o di cui siamo a conoscenza – ogni evento, eccetto la morte – ha un passato e un futuro. Ogni evento – eccetto la morte – reca una promessa, scritta con inchiostro indelebile anche se a caratteri piccolissimi, secondo cui la vicenda «continua». (..) Soltanto la morte significa che d’ora in poi niente accadrà più, niente potrà accadere, niente che possa piacere o dispiacere. È per questa ragione che la ‘morte’ è destinata a restare incomprensibile a chi vive, e anzi non ha rivali quando si tratta di tracciare un limite realmente invalicabile per l’immaginazione umana. L’unica e la sola cosa che non possiamo e non potremo mai raffigurarci è un mondo che non contenga noi che ce lo raffiguriamo”. È dunque questa la vera leva su cui fa pressione l’autore dei presenti racconti e dei suoi romanzi più apprezzati: la ‘paura della morte’. Ecco che allora, per dirla ancora con Bauman, quella ‘materialità’ instabile che Poe prende qui a riferimento, si trasforma in ‘immaterialità liquida’ del suo e del nostro tempo. A voler dire che in fine nulla è cambiato, che la ‘rinascita’ dell’uomo è ancora sospesa nelle alte sfere di un ‘di là a divenire’ di cui non siamo che spettatori estatici e sgomenti. E così resteremo fino ai nostri giorni, irrimediabilmente, fatalmente, inevitabilmente. Ma a che cosa Poe fa riferimento in questi suoi “Viaggi Immaginari”, improbabili per quanto incredibili? – ci si chiede. E la risposta giunge immediata: ‘al sogno’, che non rinnega i suoi risvolti visionari, allucinati, deliranti, che lo tengono legato al vagheggiamento, alla brama utopica, alla chimerica bellezza, sinonimi specifici della visione onirica; e che lo proiettano nell’incubo ‘orrifico’ d’una bellezza illusoria, irraggiungibile, il cui splendore abbaglia la ‘realtà’, trasformandola in desiderio, speranza, aspirazione, fino allo stordimento, all’accettazione dell’irreale, del soprannaturale ch’è nel ‘profondo’ di ognuno di noi. Per cui le esplorazioni potrebbero non finire mai e, infatti, non finiscono mai e ‘l’immaginario’ di riferimento insito in questi racconti diventa la realtà di una scoperta affascinante che l’autore svolge all’interno di se stesso. “Allora questo non è un sogno..” – fa dire l’autore ad Eiros personaggio metafisico di un altro felice racconto intitolato “Conversazione di Eiros e Charmion” dal risvolto ‘mitologico’ che, come nei “Dialoghi con Leucò” di Cesare Pavese e successivi di almeno un secolo, si narra di un ‘mistero racchiuso nel mistero della morte’. Per lo più derivati dalla fascinazione, tipica dell’epoca, del ‘mesmerismo’ di Franz Anton Mesmer, vissuto nel Settecento, che ne aveva elaborato la teoria basata sul ‘fluido’ magnetico (fisico) che, secondo le sue teorie era all’origine del corretto funzionamento del’organismo umano, in armonia con quello universale. Fascino che ritroviamo nel racconto “Rivelazione mesmerica”, presente in questa raccolta, in cui un soggetto ‘mesmerizzato’ in punto di morte descrive la vita nell’aldilà, parlando del regno delle ombre, e che Poe riprenderà in “La verità sul caso di Mr. Valdemar” che sarà di riferimento ricorrente nella sua produzione letteraria. Mitologia dell’aldilà, regno delle ombre, enigma e ‘suspense’ della vita, mistero dell’esistenza, non sono che mondi estremi di cui Poe scrive riciclando un modello poi divenuto ‘archetipo’ del romanzo ‘poliziesco’, del ‘giallo enigmatico’, dell’ ‘incompiuto gotico’ caratterizzato dal carattere ‘misterioso’ o ‘macabro’ delle vicende descritte, o meglio, verosimilmente ‘sognate’, in cui logora la propria breve vita. Sviluppatosi dopo la seconda metà del Settecento, il genere narrativo ‘romantico / orrifico’ era caratterizzato dall’unione di elementi romanzeschi della letteratura cosiddetta ‘gotica’, riferita alla tendenza culturale anglosassone di ambientazione tenebrosa del ‘romanzo nero’(noir), i cui temi portanti sono l’amore perduto, i conflitti interiori, il soprannaturale, il cui iniziatore è considerato Horace Walpole con il suo romanzo “Il Castello di Otranto” del 1764. Dopo H. Walpole, la cui influenza è inequivocabile negli scrittori polizieschi, e non solo, fin dalle origini, E. A. Poe si pone come diretto continuatore del genere, cui faranno seguito l’inglese R. L. Stevenson “Lo strano caso del dott. Jekyll e del signor Hyde” (1886), l’irlandese Bram Stoker “Dracula il vampiro” (1897), lo scozzese A. Conan Doyle, “Le avventure di Sherlock Holmes” (1892); gli americani Agatha Christie “Assassinio sull’Orient Express” (1934); e Rex Stout “Orchidee Nere” (1942), solo per citare i più noti, fino agli scrittori statunitensi H. P. Lovecraft “L’ombra venuta dal tempo” (1934) considerato il ‘Poe cosmico’, e Stephen King “Le notti di Salem” (1979), nei quali vi è un’esplicita metafora dell’eterna lotta tra bene e il male. “Che bisogno c’è, Charmion, di descriverti la scatenata frenesia del genere umano? – fa chiedere ancora l’autore ad Eiros – Ancora un altro giorno e il male non era ancora tutto su di noi. Era evidente, adesso, che sarebbe stato il suo nucleo a raggiungerci per primo. Si era verificato uno strano cambiamento tra gli uomini e il primo senso di dolore era stato il segnale terribile del lutto e dell’orrore universali”. Ecco l’altro punto critico dell’opera di Poe: “l’orrore universale”. Nel contesto ‘liquido-moderno’ innescato dal grande sociologo Z. Bauman (op.cit.), il pensiero metodologico rincorre la ‘paura’ e ne sviscera i numerosi aspetti: dalla sua origine (la paura della morte e la paura del male), alla dinamica d’uso (volontà e necessità della paura); dall’orrore dell’ingestibile (precarietà e insicurezza come derivati della paura), al terrore globale (problematicità e catastrofismo insiti nella paura): arrivando, nella sua efficace analisi, a proporci i ‘rimedi’ o, perlomeno, le precauzioni e i suggerimenti per affrontare quelle che sono le ‘paure’ più diffuse, che egli ritiene nate e alimentate dalla nostra costante insicurezza. “Desidero sostenere la mia ferma convinzione secondo cui l’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa” – declama Franklin Delano Roosevelt, da cui si evidenzia che la ‘paura’ altro non è che: “Il pieno compimento, in tutti i suoi minuti e terribili particolari, delle profezie bibliche che minacciavano l’apocalisse del fuoco e della distruzione” – come la identifica Poe. Una paura per così dire ‘ancestrale’ che tutti noi ci portiamo dietro, fin da quando: “D’un tratto, ardeva in una specie di fiamma, per il cui abbagliante splendore e l’infuocato calore nemmeno gli Angeli nell’alto Cielo della pura conoscenza conoscono un nome”. “Molti viaggeranno, e la conoscenza ne sarà accresciuta” – scriveva il Profeta Daniele (circa 610 a.C.). Di fatto, l’importanza del ‘viaggiare’ di questi racconti restituisce al lettore quanto da me espresso in “Lo spirito del viaggio” (Etnomusica 10 su questo stesso sito), è di tipo antropologico, e pone in risalto alcune verità della ragione che valgono per ognuno di noi come per uno sdoppiamento della personalità, quel “dentro di me, fuori di me” che ci permette di confrontarci con ciò che ci sta attorno, e che ci procura quel ‘brivido di bellezza’ che a volte ci fa trasalire e che è all’origine dell’entusiasmo che releghiamo al ‘vivere insieme’. Quell’emozione momentanea e quindi passeggera che da un senso ai molti perché della vita, congiuntamente al nostro sistema neurobiologico, soggettivo, relazionale e culturale, che carica di importanti significati l’idea che abbiamo del ‘viaggio’. Aspetti questi che interagiscono e s’influenzano a vicenda, con la conseguenza che le emozioni costituiscono esperienze multiformi, anche conflittuali e ambigue, che attraversano tutto il nostro potenziale investigativo e che ci spingono alla crescita culturale e all’evoluzione conoscitiva. Ma andiamo, dunque, alla scoperta dei diversi significati del ‘viaggio’, abbandonandoci però a quello che ‘lo spirito’ in libertà d’azione ci riserva, e cioè di quella ‘musica’ che pur sentiamo ‘dentro e attorno a noi’ come un richiamo, senza chiederci il perché del suo fluttuare nell’universo sonoro che ci circonda, e che infine ci permette di comprendere e utilizzare al meglio la nostra esistenza, tra ‘l’essere e il divenire’, di quei viaggiatori instancabili che in fondo noi siamo. Perché, ammettiamolo, il ‘richiamo del viaggio’, sia esso ‘sogno’ o ‘allucinazione’ in cui si confonde “..il piacere che deriva dalla dolcezza dei suoni con la capacità di crearli” è innegabilmente affascinante e rigenerante. Poe lo sa, e si lascia abbindolare dal’richiamo’ della musica nell’insuperato racconto “L’isola della fata”: “La musica, infatti, più di ogni altra attitudine, è in grado di dare completo godimento per i suoi vantaggi spirituali, ma c’è un godimento che si trova sempre alla portata degli sconsolati mortali, ed è forse l’unico che ha bisogno del sentimento accessorio della solitudine.” Ed è a ciò cui io recensore faccio costantemente appello, quello che lega la letteratura alla musica, al sogno, all’illusione del viaggiare ‘in questo e in altri mondi’, il piacere sottile che viene dallo ‘spirito’ che finalmente liberato dagli orpelli del quotidiano, si libra ‘in solitudine’ e inizia a volare. Edgar Allan Poe (Boston, 19 gennaio 1809 – Baltimora, 7 ottobre 1849) fu uno scrittore, poeta, critico letterario, giornalista, editore, storyteller e saggista statunitense, inventore del racconto poliziesco, della letteratura dell'orrore e del giallo psicologico, finisce per diventare anche uno dei rappresentanti maggiori del racconto nero e dell’orrore in genere. La sua stessa morte presenta più di un enigma. Il 3 ottobre 1849 lo scrittore fu ritrovato delirante nelle strade di Baltimora, "in grande difficoltà, e bisognoso di immediata assistenza", secondo l'uomo che lo trovò, Joseph W. Walker, fu portato all'ospedale Washington College, dove morì domenica 7 ottobre 1849, alle cinque del mattino. Poe non rimase mai sufficientemente lucido per spiegare come si fosse trovato in tali gravi condizioni, né come mai indossasse vestiti che non erano i propri. Alcune fonti affermano che le ultime parole di Poe furono «Signore aiuta la mia povera anima.» Tutti i referti medici, compreso il suo certificato di morte, sono andati perduti. I giornali dell'epoca attribuirono la morte dello scrittore a una "congestione del cervello" o "infiammazione cerebrale", eufemismi comuni per le morti dovute a cause disdicevoli come l'alcolismo. L'effettiva causa della morte rimane comunque un mistero; alcune ipotesi comprendono delirium tremens, epilessia, sifilide, meningite e rabbia. Come affermato poi dal cardiologo dell'University of Maryland Medical Center, R. Micheal Benitez nella sua relazione pubblicata nel settembre 1996: "Non si può dire con certezza che la rabbia fu causa della sua morte dal momento in cui non ci fu un'autopsia, tuttavia questa è l'ipotesi da considerare più veritiera in quanto deliri, tremori, allucinazioni e stati confusionali, sintomi tipici della rabbia, non possono essere spiegati con l'abuso di alcool poiché Poe smise di assumere queste sostanze sei mesi prima del ricovero in ospedale. (*)Zigmunt Bauman "Paura liquida" in Laterza 2008.