Pubblicato il 28/05/2008
Fabio D’Aprile è pugliese, nato nel 1983 è oggi studente presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Urbino. E’ un giovane autore, all’esordio con questo libro dal titolo che ha il suo significato nelle parole di un figlio non nato che dialoga con la madre: “Mi hai gettato via. Ma, devo darti ragione, in fondo hai fatto bene. Non mi trovo così male. Non ho corpo, deforme o sano. Non ho forma, regolare o imprecisa. Non ho colore, odore sapore… ma almeno ho la mia voce che riesce a tuonare profonda e ammaliatrice in ogni cuore che io voglia conquistare. Hai reciso le mie labbra…”. Un testo costruito, nella sua essenza, in modo dialogico e intimista, ma che sotto sotto si rivela essere un monologo appassionato delle molteplici anime dell’autore, alla ricerca di risposte che, ahinoi, solo la vita a lungo termine può dare. Egli scava nell’anima e nel pensiero per ben 61 pagine di intensa scrittura. Nelle prime pagine, a causa della tragicità del costrutto linguistico, viene la tentazione di abbandonare la lettura; pare che i soggetti dialoganti (che risultano essere uno stesso soggetto monologante) sia sull’orlo di una personale tragedia vissuta e ancora non ben rielaborata, ben lungi quindi da una soluzione esistenziale. E in realtà nel testo si arriva a una conclusione che giustifica la non esistenza e la bontà dell’essere mai nati. Nel dolore, che è sicura dote della nascita, vien da pensare che sarebbe stato meglio non essere mai nati. Il filo logico, seguito nel corso del libro, ha un che di amaro, ma è un punto di vista sulla vita che vale la pena considerare: “Chiunque sia convinto che la sua storia sia importante o è un narcisista o ha sofferto molto”. D’Aprile scrive ma nega la veridicità della scrittura: “[…] ritengo che tutti gli scrittori non siano altro che imbroglioni. […] Si concedono all’istituzione letteraria per incassare qualche buona provvigione”. In questo senso si ravvisa, nel testo, una certa schizofrenia latente, che emerge nelle “curve” seguite dalla scrittura, rischiando di buttare fuori strada il lettore, ma forse è un effetto voluto. Tra i pensieri oscuri che s’innescano in maniera naturale è lodevole il tentativo di soluzione che l’autore assiduamente cerca e talvolta trova all’interno dei suoi ragionamenti introspettivi, i quali scorrono come un fiume in piena ma circolando sempre su se stessi come un serpente affamato e impazzito perché non trova la preda: “Il cuore non ha bisogno di prove, batte un ritmo suo, autonomo, che impone la poesia e nessuno lo può fermare. Così come non si può fermare sbuffo animale per il troppo impeto che è dato al suo capire”. In uno dei rari momenti di lucidità del discorso, come uscendo da una nube oscura e forse tossica, D’Aprile dà la sua indicazione per arrivare alla conoscenza di sé stessi: “Se davvero vuoi conoscerti meglio, getta la penna, posala in mano ad un bambino e fatti fare un ritratto”; la via per comprendersi c’è, ed è uscire da sé, per guardare la propria immagine negli occhi puri e semplici che la vita offre fin dall’inzio, quella stessa che sembra essere negata al figlio che emerge dall’anima verso la fine del libro. Il testo è ben scritto e fila liscio, anche se il pensiero alle volte si arrovella su se stesso. Si ritrova nel testo un qualcosa che vagamente ricorda Dostojevski nel suo “Ricordi dal sottosuolo”. Come esordio non è male, l’autore mette in mostra la sua ampia cultura classica e cerca di rendere colto il testo; forse un suggerimento si può dare e cioè di mettere maggiormente in luce la propria personalità, semplificando la scrittura e il pensiero, smorzando la costruzione un po’ ricercata della frase, a favore di concetti più immediati e spontanei che lascino emergere la vera anima dello scrittore, quella che abbandona mode e vezzi per navigare nel mare calmo della scrittura, ma che non per questo non può parlare di tempeste.
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