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La fabbrica del panico

Romanzo

Stefano valenti
Feltrinelli Narratori

Recensione di Lidia Campagnano
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Pubblicato il 06/09/2013 12:00:00

 

Andando a caccia, come a qualcuno avviene di necessità, di un passato recente e cruciale ma bollato di insignificanza, può capitare un incontro come La fabbrica del panico di Stefano Valenti, un libro, un romanzo che dice tutto l'essenziale della vita operaia, di una fabbrica fordista fino alla morte, la Breda Fucine di Sesto San Giovanni, della poesia che gli umani ficcano dappertutto insieme all'odio (e all'amore) dell'asbestosi o cancro ai polmoni da esposizione all'amianto. Dell'essere figli di quella storia, anzi, eredi. Nel bene e nel male perché ci sono lasciti (o forse così sono tutti i lasciti) che comportano dolore, e panico appunto.

Il figlio scrive del padre, operaio ucciso insieme a decine di altri dalla Breda, e dei compagni di lavoro che si sono battuti perché la colpa padronale fosse riconosciuta in un'aula di giustizia. Non che i figli possano conoscere tanto a fondo i padri (e le figlie le madri, è noto) ma c'è qualcosa - un sentimento di base, le questioni irrisolvibili delle loro vite - che i figli assorbono, magari in forma di malessere psicofisico, o in forma di urgenza: narrativa, descrittiva, analitica...qui è diventata scrittura.

C'è una parte della generazione del Sessantotto che forse ha cercato in qualche modo una sorta di parentela con chi lavorava in fabbrica per affrontare in compagnia la terribile sensazione dell'insignificanza e dell'invisibilità, un prezzo che sembrava proprio necessario per inserirsi con un ruolo qualunque nel futuro sociale dato, immutabile all'apparenza: di classe. Imparentamento che poteva riuscire con gli operai più giovani, non con quelli appena più maturi: i cancelli della fabbrica si chiudevano, tombali, insuperabili, alle loro spalle, il lavoro operaio doveva essere occultato, la vecchia Alfa Romeo del Portello aveva un accesso a fil di strada che andava in discesa così che sembrava davvero la bocca dell'inferno. Che cosa accadeva alle persone, là dentro? Bisogna leggere questo libro, l'immaginazione qui ha la forza di un film, o di una musica, porta a partecipare, va oltre i cancelli, anzi, entra ed esce, si conquista una libertà.

Ma c'è anche della pittura in queste pagine, con un estendersi del paesaggio dalla nordica cupezza nebbiosa al finire della notte (quando si incontrano i turnisti) al respiro della luce valtellinese, tra le montagne (molto forte, perfetta, la foto di copertina di Marcello Mariana). Respiro che certo non guarisce dall'amianto e forse appena sostiene il desiderio di un operaio tornato al suo paese per diventare un pittore, anzi, un grande pittore. Ma quel respiro ma che alla fine aiuterà nel figlio, a sua volta tornato a casa presso la madre, il riconoscersi una volontà di salute, di riscatto, di liberazione che molto hanno a che vedere non solo con la volontà di vivere ma anche con la volontà di giustizia.

 


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