Sii saggia, o mia pena, e sii più tranquilla, così invocava Baudelaire in Recueillement, dalle pagine dei suoi celeberrimi I fiori del male. Oggi, Bonadè, fa sua questa invocazione e sembrerebbe ribaltarla, dicendo alla sua pena, ai suoi dolori, di sfociare e scorrere liberi, non più tranquilli né mansueti, non saggi ed avveduti, ma in grado di pervadere ogni cosa. Non più la dolcezza di una tenera invocazione, a quella pena che attende la sera per gettare il suo sguardo compassionevole sul mondo sferzato dal piacere, ma un dolore che non attende, urgente, che non getta nessuna commiserazione, ma odia e ribolle d’ira per le ingiustizie, per lo sfascio di quanto vi è di più bello nella vita. Non una atmosfera oscura che scende portando pace od affanno, ma una nube, oserei dire pestilenziale, che soffoca ogni cosa, espirata dal petto dell’autore, e che porta a tutti affanno e disprezzo. Quella Paix per alcuni è solo un pallido ricordo, per tutti vi è la sferza, non del piacere, ma di altro boia senza pietà, quella debolezza di pensiero che sebbene fosse stata in voga negli anni Ottanta, ha portato miseria e pensieri minori sino ai giorni nostri, ed è questa miseria che l’autore sembra voler combattere con la sua ira, cavalcata dai deliri più profondi. Profondi e radicati in capricci, vizi, licenziosità, quasi nel modo evocato da De Quincey e reso reale dalla morsa del dolore che fa sanguinare la penna di Bonadè. Una cattedrale, quella edificata in pochi profondissimi passi dall’autore, di cui possiamo ammirare affreschi e udire il coro riecheggiare fra le navate, incapace di elevare a sublimi altezze l’animo del lettore ma inchiodandolo alla bassezza umana, dito accusatore e braccio del castigo al contempo. Pochi, umili e reietti, si salvano. I fiumi di lava, incandescente e gelido disprezzo, tutto travolgono, creando volute di nero fumo nelle quali occhieggiano castighi, dolori, visioni oppiacee e ansanti desideri a stento repressi. Il linguaggio è scabro, viaggia più per accenni e situazioni che per mere descrizioni, sono sensazioni e flutti fatti inchiostro, la scrittura sembra imbrigliare a fatica l’animo inquieto e ribollente dell’autore, il confine fra prosa e poesia è quasi sospeso, così come la cesura fra sogno e miraggio, realtà e sensazione, è flebile e si muove, a capriccio del Bonadè, facendolo rimbalzare fra gli autori maledetti, Burroughs e una avanguardia, attuale, ma sommersa.
La scansione dei capitoli rimanda il libro ad una suggestione sinfonica, con un tema principale costellato di ballate, canti e cori, che ben si addicono all’impianto minerale del libro. Se aggiungiamo il finale si direbbe aperto e che rende la costruzione circolare, siamo di fronte ad un vero e proprio luogo del sogno e dello spirito da visitare ed in cui perdersi, un libro che non si esaurisce nella lettura ma che rimane dentro, un grumo oscuro cui fare ritorno spesso e da cui si resta sempre incantati per la materia proteiforme ed avvolgente di cui è sostanziato.
Riporto un passo, che fa anche da esergo al libro:
È il cantone dei peggiori ladri, farabutti e covo d’ogni vizio: prostituzione, ricettazione, spaccio di droga, mercato nero. Come rigare dritto? Rimanere fuori da tutto ciò? Fare orecchie da mercante all’abisso tornato prepotentemente nel quotidiano, invocatemi in continuazione? Quante possibilità ha un uomo si sbagliare e redimersi? Sono esse infinite? No.
E, verso il finale riappare una immagine in cui traluce un barlume di speranza
Odierò l’essere umano in ogni sua più stupida manifestazione: ma forse, i poveri, un poco meno. O mendicante sorridente, ragazzina orientale, violinista in erba…ancor mi sovvieni…!
La foliazione termina, l’autore si accende migliaia di Gitanes ma il libro non finisce, non ha contorni, come una nube aleggia nella misteriosa cattedrale che è l’umanità e ciascuno di noi, e vibra al suono di possenti note d’organo e sottili ballate cantate da un coro di anime invisibili.
Il Gioco termina.
Mi accendo centinaia di Gitanes nella fumosa Città Vecchia e mi appisolerò ancora in ‘altre Cattedrali’.
Non mi rimane null’altro.