Ho letto il romanzo, l'opera del genio di Dostoevskij, con una sorta di curiosità mista a ripugnanza. Cosa ci può essere di interessante in un 'abitante del sottosuolo' degradato, nevrotico, meschino, pieno di sè? Non è una domanda a cui si possa rispondere con immediatezza. Occorre farsi prendere dal 'gorgo' della narrazione o meglio, del monologo di questo ex impiegato pietroburghese con cui, di certo, sarebbe poco piacevole anche prendere un caffè o un tè.
Me lo sono immaginato questo individuo, una sorta di cane tignoso, che va vomitando sul mondo il suo disprezzo. "E' un fallito" direbbe la retorica del senso comune, un tempo definita morale borghese. Ma cosa va blaterando questo essere reietto? Egli non crede nel progresso. Non crede nella retorica della 'felicità'. Non crede nella retorica dello 'star bene' che diventa religione. Anzi, egli soffre e prova piacere nel soffrire, perchè soffrire gli permette di affermare se stesso, la sua sostanziale autarchia rispetto al conformismo del 'palazzo di cristallo'. Qui si riflette, infatti, l'occhio onnipresente, onniveggente e onnisciente del mainstream. Soffrire e dissentire gli permette di essere qualcosa in più 'di un semplice tasto di pianoforte'.
Il solitario personaggio di Dostoevskij soffre le pene dell'outsider: emarginazione, incomprensione, rifiuto sociale, umiliazione, ma è egli stesso a suonare la sua, per quanto scordata, sinfonia. E' egli stesso ad avventurarsi, sempre più, nella vertigine dell'abiezione, come se fosse convinto che dal sottobosco putrido potesse attingervi quei gioielli della verità e della consapevolezza che non sbocciano alla luce del sole, ma proprio lì, nel fango. Lì dove la fogna del vizio (egli stesso fu un accanito giocatore) mostra le sue carte al rovescio, ma non per questo si è fuori partita. Reietto e infame fino alla fine, al punto di umiliare Liza, una serva ancor più povera ed emarginata di lui, il nostro antieroe non cessa di scandagliare quell'abisso dove rabbia e commozione estrema, dipendenza e volontà di riscatto, degradazione e illuminazione, si giocano sugli scalini melmosi del sottosuolo: regno di topi o di chi, irriverente e fedele a se stesso fino al midollo, decide di non svendere la sua complessità a un mondo fondato sulla propaganda della salute, della 'sanità' e del 'progresso' e sul totalitarismo della morale utilitaristica.
La strada è in discesa, i paradigmi della 'fede da sagrestia' sono ribaltati perchè, come disse un grande della musica italiana, 'dai diamanti non nasce niente, ma dal letame nascono i fior'.
Memorie del sottosuolo non è certo un romanzo per deboli di stomaco o per poetucoli stucchevoli, ma l'opera di un genio che ha cercato, per tutta la vita, la verità, esperendola nella sua stessa carne di uomo imprigionato, sofferente, spinto da quella fiamma che è la forza eretica della vita.
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