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Verità nascoste

Poesia

Elisa Poletto detto Feltrinon
LietoColle

Recensione di Gian Piero Stefanoni
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Pubblicato il 25/06/2013 12:00:00

Seconda prova dopo “Scale di pezza” del 2007, questo piccolo libricino è il resoconto di un percorso tutto pensato, o per meglio dire che si osserva pensare di un autrice che, per formazione e orizzonte, muove e iscrive di base nella filosofia le proprie interrogazioni. Eppure, come ricorda Markus Ophalders nell’introduzione, altrettanto forte è nella Paletto la consapevolezza di una verità filosofica insufficiente all’interno della logica dei suoi schemi fissi a cogliere- e di conseguenza a sciogliere- quel carico direzionale di significati che si cela nella realtà emozionale e passionale di tutti i giorni. Fedele all’ impronta di una poesia filosofica che in lei (come da dichiarazione nella nota introduttiva personale) ha nel Nietzsche zarathustriano il nume tutelare, si affida e affida allora alla capacità rivelatoria insita per intuizione nella natura e nel pensiero d’ogni vera poesia l’argine di illuminazione di un mondo il cui vuoto di valori è da ricreare a fronte della non-cultura e delle compressioni del virtuale. Questo però la Poletto, nella bontà dei suoi richiami e asserzioni di volontà di potenza, mentre poi c’è la Feltrinon, l’alter ego di una ragazza che si rivela dolcissima, impaurita, persa, in un cammino dolente verso e oltre “la Valle” nella consapevolezza di una sofferenza spesso estraniante, oscura ma sempre in lei in qualche modo partecipe della via da apprendere entro una sensibilità che ha proprio nella sua fragile nudità il modo più compiuto di viverla. Dolenza di un’anima e di una giovinezza che se nel racconto, come evidenziato dallo stesso Ophalders, limita il più delle volte il lettore ad una pesantezza di lettura ingolfata da un eccesso di buio ha nella confessione della propria immaturità il suo rivolo acceso, la sua freccia di luce, teneramente e incisivamente espressa nei versi conclusivi di “Estate in città”: “mentre aspetto/ la soluzione (o,/ forse,/ l’assoluzione)/lascio impronte/ nell’asfalto/- come una Pollicina-/ per ritrovare la via”. L’itinerario, che si snoda poesia per poesia nelle tappe e nelle ferite delle tre sezioni (“In viaggio verso la Valle”, “Piccola deviazione” e “Gallerie e spiragli”), ha nell’alternanza di sfondo cittadino e silvestre (anche ma soprattutto nella sua rimemorazione) il quid di un equilibrio difficile da trovare tra alienazioni e abissi fuori rotta che solo il soffio lirico di una caduta di stelle per un attimo pare di nuovo mappare (come in “Settembre 2007” le cui immagini nel medesimo respiro ci riportano ad un altro fervido nicciano, il marradiano Campana) e che in “Esodi e appartenenze” (testo con cui si chiude la prima sezione) nella prospettiva che va oltre la Valle sembra trovare nella prefigurazione dell'apparizione decisa della cometa (in un immagine comunque molto cristiana) il sigillo indistruttibile di chi nell’unione ha superato e forse vinto la notte. Ma nel suo stato di viandante la nostra Elisa sa che il cammino, sulla “strada dei ritorni”, pur tra deviazioni continua. E le verità nascoste, anche se parziali e anche loro fragili come abbagli, possono esser il segno di una scia luminosa abile a rendere meno spinoso il percorso e al tempo stesso provenire da chi, con amore e per amore, più serenamente lo condivide con noi. Consapevolezza questa, e forza, in un gioco d’occhi con l’amato sempre presente nel libro e che in “Ho sciolto lo scrigno” le consente di liberarsi dalle paure riconoscendo la bellezza nell’accettazione fiera di ciò che si è, insieme miseri e divini nei difetti che pure il giorno possiede. Ed è questa, anche, la maestria da apprendere che tra “sogni mistici/ e dialoghi di fede” nei due testi conclusivi (“Armonia” e “Rivelazione”) si leva nel lascito. Maestria che si dispiega però solo dall’amalgama di ”pasta e carne,/ sacrificio e preghiera” che, come nella luna che sfiata dai palazzi negli ultimi versi, ci richiama- vincendo il reciproco abbandono- a quell’accordo di natura qui ben carezzato dell’immagine “del mare da lavorare”. Ci resta dunque al termine un lavoro per alcuni tratti acerbo, soprattutto per personalità nella lingua e nella versificazione, ma presente nelle sue direzioni e nel pensiero e certamente autentico per urgenza e ricerca, e tenerezza che ribadiamo ancora affidandola a questi ultimi versi:” Chissà se/ mi veglierai ancora/ quando sarò/ una vecchia signora,/ saggia e incontinente/- il foulard a chiazze/ i capelli grigi/ di permanente e passioni/ trascorse-/ il doppiopetto infeltrito/ di solitudini e poesia…/ Quando il ricordo/ sarà il presente/ e il tramonto scenderà lieve/ sui giorni della monotonia...”.


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