Pubblicato il 01/11/2010 14:06:43
Canto di Hastings 14 ottobre 1066
Qui si fa la mia leggenda e la fine: io, William, venuto di Normandia per farmi qui, in questo giorno incerto, da bastardo regio a Conquistatore, e con un unico tiro di dadi. Ma il grosso dell’impresa ormai è fatto, la scena ormai è tutta preparata, lo spettacolo pronto, non rimane che abbassare la visiera e avanzare nel grido spaventoso dei guerrieri, l’immenso cielo vuoto a capofitto. E se al mio colpo arriderà fortuna o finirò rovesciato sul campo, e se un nome sarà, allora voglio per me e per tutti il nome di Immortale, ma non per quella eternità volgare, quella empia e sciagurata dei vivi, né quella che ti dà un ventre di donna e rende l’uomo eterno come il topo, ma l’immortalità, quieta, dei morti, quella dei libri e delle biblioteche, ché niente nasce che non sia parola, e niente muore, se si fa parola. E da qui a mille volte mille anni, che cosa importerà l’aver vissuto, se essere scampato alla battaglia o esserci morto troncato dal ferro? Varrà l’essere qui, l’esserci stato, di tutti i giorni delle nostre vite questo soltanto non andrà perduto, soltanto questo durerà per sempre. E allora amici e voi, fratelli ostili, che oltre il muro degli scudi e le lance mi soccorrete a questo lungo giorno, non vi manchi il coraggio, non sia amaro partirvene lasciando i campi intatti, le messi da raccogliere e le mogli coi ventri ingombri a rastrellare i fieni, queste sono ormai cose a noi straniere, un’altra ombra ci raduna e chiama sotto bandiere che non conosciamo. Andiamo, adesso, è tempo di ammazzare e di farsi ammazzare. Da stasera, data la pace agli ultimi sventrati, su questi campi tra colline e mare la nostra vita ha fine e inizia il canto. Vivi o morti, ringraziatemi tutti.
Autunno 2010
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