Quando nel 1927 Fritz Lang produsse la pellicola “Metropolis”, uno dei capolavori del cinema espressionista, forse non pensava di poter dire così tante cose attraverso le sole immagini. Infatti il film ‘muto’, per quanto potesse dire o voler dire, riusciva a entusiasmare in quanto tale. All’epoca non tutti avrebbero saputo leggere le didascalie, vigeva ancora molto analfabetismo. Tuttavia i sintomi del malessere generale che colpiva le classi meno abbienti dei lavoratori c’erano già tutti e, in un certo senso, il film si rivelò profetico per le generazioni che seguirono. Da un certo punto di vista tecnico, il film è universalmente riconosciuto come modello di gran parte del cinema di fantascienza che ne seguirà, fino ai giorni nostri. Un film all’avanguardia del suo tempo, che mostrava come l’avanzamento tecnologico poteva essere utilizzato dai potenti per dominare l’intera umanità (nel caso specifico la città), ma che al tempo stesso poteva diventare un’arma al servizio dei lavoratori sfruttati come schiavi nei sotterranei della megalopoli. Metropolis è difatti una prova di gigantismo visivo senza pari che vive di un sincretismo debordante che, nonostante lo scoperto approccio interdisciplinare, riesce a garantire un'intrinseca ed irripetibile unitarietà narrativa. Ma non siamo qui per parlare di cinema quanto invece dell’aspetto più ‘sensazionale’ che il film a sua volta metteva in evidenza, cioè alla “essenzialità di un underground spoglio e oppressivo in cui è relegata un'umanità resa schiava dalle macchine” e dalla radicalizzazione della società, nello scontro tra ‘capitale’ e ‘proletariato’ (tutt’ora in atto): del potere esercitato tra la costante organica del controllo come cinico calcolo, e l’inorganica perversità del lavoro, come utilità asservita all’economia e all’accrescimento del potere da parte di chi detiene il controllo della società. Intrinseco era nel film il discorso a volte inquietante che ci riguarda tutti sulla difesa della ‘libertà’, di cui non si parla o almeno non in maniera approfondita. Soprattutto lì dove la ‘libertà’ contrasta con le nuove tecnologie. A questo proposito Stefano Rodotà in ‘Intervista su Privacy e Libertà’, scrive: “So bene che vi è una propensione crescente, ma le derive tecnologiche sono sempre pericolose. Dobbiamo sempre partire dalla premessa che non tutto ciò che è tecnologicamente possibile è, per questo solo fatto, pure eticamente ammissibile, socialmente accettabile, giuridicamente legittimo”. Il libro, cui si fa qui riferimento a cura di Paolo Conti nella veste di intervistatore del professor Stefano Rodotà, indaga i vari significati che la parola ‘libertà’ ha assunto nel corso dell’avanzamento tecnologico e della globalizzazione tutt’ora in atto, non si esime dal fare una corretta speculazione tra libertà individuale e socio – economico - politica, giusta nell’evidenziare e riformulare, sulla base delle impostazioni della Comunità Europea, quella che è l’opera del Garante in difese della ‘privacy’ dell’individuo e “la facoltà di scegliere l’ampiezza del contesto” in tutte le sue forme e le sue applicazioni. È inequivocabile che molti di noi non sanno attribuire alla figura del Garante e all’istituzione di un Ufficio apposito, il significato e il riconoscimento che meritano, attivi “nell’assicurare la tutela dei diritti e delle libertà fondamentali e il rispetto della dignità della persona nel trattamento dei dati personali”, codificata dalla Carta dei diritti fondamentali dell’individuo dalla Costituzione dell’Unione Europea. Sin dal suo insediamento l’attività del Garante, del quale il professor Stefano Rodotà è stato presidente dal 1997 al 2005, ha riguardato ogni settore della vita pubblica e privata dei cittadini in ogni settore sociale, economico e culturale del paese, con particolare rilievo nei settori delle telecomunicazioni, del credito e delle assicurazioni, della sanità e del lavoro, del giornalismo e della comunicazione, della videosorveglianza, del marketing, della genetica. Il ricorso al Garante è previsto dal Codice sulla Privacy per far fronte all’esercizio immediato dei diritti riconosciuti dalla legge a tutela della persona giuridica connessi al trattamento dei dati personali in materie di grande rilievo deontologico, come il giornalismo, la ricerca storica e statistica, i sistemi di informazione creditizia. Non solo, bensì per il trattamento dei dati sensibili relativi allo stato di salute, agli orientamenti sessuali, all’appartenenza a partiti politici, confessioni religiose, organizzazioni sindacali ecc. ed anche in determinati ambiti come, ad esempio, nei rapporti di lavoro, nel settore sanitario, nel campo della ricerca e delle libere professioni, con particolare riferimento alla tutela dei diritti che eviti la creazione di banche dati e al trasferimento dei dati personali. E questo all’unico scopo di alcuni ‘perché’ che l’intervistatore chiede al prof. Rodotà proprio all’inizio del libro: «Come poter fare liberamente le nostre scelte senza pagare il prezzo di ingiustificate stigmatizzazioni sociali? La privacy può capovolgersi in ‘tirannia dell’intimità’, o essere la base sulla quale ciascuno di noi edifica liberamente la propria personalità? “Facendo il giurista – scrive ancora Rodotà – tutto questo si è tradotto nella ricerca delle connessioni tra i grandi diritti e quelle che venivano chiamate le piccole libertà e che, invece sono le libertà vere, quelle che ci consentono nella vita d’ogni giorno di non essere prigionieri di pressioni, condizionamenti, limitazioni qui, nella vicinanza con il modo d’essere concreto d’ogni persona, scopriamo i legami sociali, l’influenza dell’ambiente culturale, politico ed economico, i mutamenti imposti dalle tecnologie d’ogni tempo, che modificano la struttura della città e dell’abitazione, l’intero sistema delle comunicazioni, il nostro stesso corpo. Bisognava indagare i rapporti tra tecnologie e diritti”. Ma il prof non si ferma qua, affronta in pagine su pagine quelle che sono le divergenze tra le diverse parti interessate della giustizia, dell’economia, del sociale con esempi, citazioni impreviste e imprevedibili, dal lontano medioevo all’800 fino ai tempi nostri, come ad esempio quella dello scrittore americano William Faulkner sulla violazione della ‘privacy’ risalente al 1955: «Solo le opere di uno scrittore sono a disposizione del suo pubblico, finché quell’uomo non commette un delitto e diventa materia di cronaca nera la sua vita privata è unicamente sua». Un documento davvero straordinario, non vi pare? Non meno di quello riferito a George Steiner, il grande studioso di letteratura, il quale – ci illumina il prof – sostiene che “il momento in cui una persona deve avere il massimo di intimità è quello della lettura”. Di certo una golosità per i lettori de larecherche.it che non si aspetterebbero di avere il diritto di poter leggere on-line indisturbati e starsene da soli con se stessi, “… in un rapporto molto ‘chiuso’ con la pagina scritta, al riparo dal mondo esterno”. Tuttavia la domanda ficcante di Paolo Conti su un esempio ‘tangibile’ dell’aspetto ‘visivo’ della ‘privacy’ finisce col farci conoscere un aspetto del nostro prof tutto di un pezzo, finanche poetico (ve lo dice chi lo ha conosciuto di persona), e che Rodotà riferisce al quadro di Edward Hopper ‘Hotel Room’, come un autentico manifesto: “Raffigura una ragazza in una stanza d’albergo, svestita, seduta su un letto. Ha appena buttato le scarpe da una parte, accanto a lei c’è un bagaglio non ancora aperto. È assorta nella lettura. È un atto esclusivo, sembra impossibile interferire in quel rapporto della donna con il libro. A contribuire a questa atmosfera ci sono i colori freddi, i piani squadrati tipici di Hopper, certo. Ma soprattutto c’è la scena rappresentata. Però io vedo in questa idea di intimità da tutelare, non una chiusura verso il mondo esterno. Intuisco invece la possibilità di riflettere su ciò che si trova al di là di quella stanza, cioè il resto dell’umanità. Perché un libro è piena solitudine ma anche piena libertà, perché porta conoscenza, curiosità”. Con ciò arriviamo all’indice e alle nuove tecnologie, quelle del web, di internet ecc. che guarda caso sono di primario interesse per la ‘privacy’, “… poiché attraverso il loro dilagare, siamo continuamente pedinati, spiati e non ce ne accorgiamo”. Siamo di fronte a George Orwell “1984”, nel quale è descritta nei minimi particolari la società, la struttura degli edifici e il potere mediatico che l’occhio del “Grande Fratello” esercita sulla popolazione? Oppure, come pure scrive il prof Rodotà, citando le pellicole “Nemico pubblico” il film di Michael Mann che descrive le attività dell'FBI durante la grande depressione per reprimere la forte ondata di criminalità portata dalla povertà; o “La conversazione”, in cui Gene Hackman vede microspie e microfoni dappertutto, siamo allo svelamento di chi cerca di far vedere quello che accade realmente e che riguarda tutti noi ‘indistintamente’ e che magari “qualcuno vorrebbe nascondere o interpretare a senso unico?”. Il prof sembrerebbe voler rispondere ‘entrambe le cose’. Ma allora è allarmismo! esclama qualcuno. Noi sappiamo che le cose stanno davvero così e che: “Viviamo in una società sempre più sorvegliata: le telecamere per strada, il telepass, le chiamate dal telefono cellulare, le tracce che lasciano le carte di credito; soprattutto, la nostra presenza su Internet. Siamo letteralmente pedinati anche se con strumenti più raffinati rispetto al passato”. «La privacy? La avete ormai solo nella vostra testa, e forse nemmeno in quella» che fa il paio con un’altra citata «Ormai tutti avete zero privacy, rassegnatevi». Un vero nemico della tecnica? – chiede ancora l’intervistatore – al quale il prof risponde di “non aver mai assunto un atteggiamento né tecnofobo, né tecnofilo a riguardo. Come dire, né fatalista né entusiasta. (...) Penso semplicemente che la tecnologia ormai si sia insediata nella nostra vita quotidiana, ma che occorra governarla per evitare che diventi padrona delle nostre stesse esistenze”. È un fatto che la Rete e Internet accrescono le preoccupazioni legate alla tutela della personalità e quindi della libertà, sebbene entrambe molto complicate da gestire. Tuttavia sono divenute indispensabili alla vita quotidiana, risponde alle esigenze più elementari e la qualità stessa della vita è cambiata, notevolmente migliore rispetto al passato. Internet ha modificato non solo l’economia e la sociologia, ma persino la linguistica. Il linguaggio che usiamo è quello tecnologico legato alla connessione, ai tasti invio, spam, taglia e incolla, clip, smart, e-mail, store ecc. al punto che oggi, per indicare una ricerca in Rete, si usa anche il verbo «to Google». È sempre una questione di regole – avverte Rodotà – a una intuizione della privacy come strumento di tutela in cui rientrino soprattutto le minoranze (indifese) e i dissenzienti (talvolta indifendibili) e che in ‘democrazia’ vanno comunque tutelati. “Abbiamo sempre bisogno di spazi di libertà e, nella storia dell’uomo, non si è mai avuto uno spazio di queste dimensioni. La libertà in Rete è preziosa, e non può essere subordinata a parametri di normalità, all’accettazione del conformismo in nome dell’efficienza economica, della sicurezza, della tranquillità politica. Dico insomma che l’uso commerciale di Internet è inevitabile e anche giusto, ma non è possibile immaginare una cancellazione assoluta dei luoghi virtuali di libera manifestazione del pensiero. (...) Ormai nessuno che si occupi di privacy, di protezione di dati, può pensare di farlo seriamente in una dimensione puramente nazionale. Internet è globale, la circolazione delle informazioni non conosce frontiere, ovunque si pongono gli stessi problemi”. Problemi che noi tutti vorremmo vedere risolti al più presto, o comunque regolamentati da apposite leggi a tutela della nostra privacy e della nostra libertà che, non dobbiamo dimenticarlo, riguardano non solo il ‘diritto’ ma la nostra stessa inviolabile identità. Serve una diffusa conoscenza di quelli che sono i nostri ‘diritti’ per poterli difendere e la dovuta intransigenza di non permettere che essi vengano elusi o cancellati in nome di un avanzamento tecnologico che guarda – come in ‘Metropolis’ di Fritz Lang – soltanto all’accrescimento di un potere economico che di fatto annulla quella che è la nostra ‘dimensione umana’. Non dobbiamo permetterlo! Il prof Stefano Rodotà è ordinario di Diritto civile all’Università ‘La Sapienza’ di Roma è stato il Garante negli anni in cui ha presieduto il Gruppo dei Garanti Europei, ha partecipato alla Convenzione che ha scritto la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, ha collaborato tra l’altro alla norma sulla protezione dei dati personali come ‘diritto fondamentale’, ed è personalità riconosciuta a livello internazionale. Ha pubblicato numerosi libri sull’argomento: ‘”Il terribile diritto”, “Il diritto di avere diritti” (recensito in questo stesso sito), “Questioni di Bioetica” ed “Elogio del moralismo” (di prossima recensione), tutti editi da Laterza. Paolo Conti è giornalista professionista, inviato speciale del ‘Corriere della Sera’, si occupa di attualità, problemi dell’informazione e beni culturali. Con questa “intervista…” dedicata al prof. Rodotà egli ha voluto sottolineare la grande importanza delle tematiche sottolineate, a volte inquietanti, ma che sono come mai prima, di grande rilevanza psicologica che interessano e coinvolgono ognuno di noi.