GUGLIELMO APRILE
La suggestione del paesaggio ne La Perla di John Steninbeck[1]
L’opera che Steinbeck consegna al suo pubblico nel 1947, La perla, è una favola allegorica, amara e disillusa, carica del valore di esemplarità di un antico mito. Molte e diverse le chiavi di lettura; quella che più immediatamente balza all’occhio è la mordace critica sociale, costante anche nei precedenti romanzi dell’autore, ma inquadrata in una più ampia visione, sfiduciata e pessimistica, del destino umano: l’individuo non sfugge alle circostanze che determinano la sua sorte, assegnategli dalla nascita da Dio, dalla natura o dalla società; e se prova a modificarle, violando l’ordine in cui è inserito, incorre nel castigo e precipita ancora più in basso di dov’era prima del suo infruttuoso tentativo. Tale certezza di immutabilità della storia e, più universalmente, delle carte che a ciascuno la vita distribuisce dal proprio mazzo, si riflette anche nel rapporto tra la comunità autoctona, povera e in perenne lotta per la sussistenza, e i dominatori bianchi, discendenti dei conquistadores spagnoli, che a distanza di quattro secoli perpetuano la loro egemonia legittimata dal potere politico e da quello religioso. Una spaccatura tangibile anche dalla geografia del territorio che fa da cornice alla vicenda: mentre i nativi abitano umili capanne di stoppie soggette al capriccio delle intemperie, e sono proprietari solo delle barche da pesca con cui escono all’alba a guadagnarsi la vita, esposti alle minacce del mare e della fortuna, le classi privilegiate, parassitarie e speculatrici, prosciolte dall’obbligo di combattere quotidianamente con la fame, occupano le eleganti e pulite “case di pietra e gesso” della città vicina, e lucrano sulla miseria e sull’ignoranza dei meno abbienti. Avvezze alla sottomissione come dato ineludibile al ruolo imposto loro dalla storia, vittime di una ingiustizia sedimentata nelle giunture della colonizzazione europea, le popolazioni di origine india hanno sviluppato una chiusura nei confronti di tutto quanto derivi dal modo di vivere degli invasori, erigendo mura e barriere culturali allo scopo di preservare la loro identità dalla contaminazione, non avendo altra difesa da opporre alla civiltà dei coloni al di fuori del loro ostinato, orgoglioso silenzio. Sotto la scorza di un superficiale cattolicesimo, Juana, moglie del protagonista, ricorre ancora a scongiuri apotropaici e formule magiche per allontanare il male della puntura di uno scorpione dal corpo del figlioletto. Una atavica diffidenza circonda gli stessi strumenti del progresso, con cui l’ideologia dominante vuole estendere i presunti benefici della civilizzazione anche ai nativi, ma solo con l’obiettivo di consolidare il proprio regime oppressivo e di avallare le ragioni dei propri privilegi. Un misto di rancore e paura riempie l’animo di Kino quando bussa alla porta del dottore, giunto in città bisognoso di assistenza medica per il figlio: ambedue i personaggi sono interpreti di un conflitto etnico che divide la società in due sfere rigidamente irrelate; ma su tali sentimenti prevale poi nel giovane un’umile e innata deferenza, che lo induce quasi d’istinto a levarsi il cappello al cospetto di un membro rispettabile della città. Circospezione e insieme sordo desiderio di ribellione e di vendetta, sebbene frustrato, si intrecciano nel suo modo di guardare “di sbieco” gli interlocutori della razza privilegiata, rivelatore di una rabbia bruciante e di un odio da animale braccato, che il suo animo è condannato a covare in sé o a sfogarlo in gesti sterili, come nell’occasione in cui scaglia un pugno, ferendosi le nocche, contro i battenti della casa del dottore, informato dal servo di questi che le visite sono a pagamento e dedotto che egli non può permettersi la somma dovuta.
A scontare il fardello crudele della vita sono, come al solito, sempre i poveri e i vinti, mentre i benestanti restano assistiti dal favore della loro condizione; la vena anticapitalistica, insistito sottofondo che percorre la narrazione, non impedisce però al romanzo di allargare a portata universale la riflessione sul dramma dell’esistenza: l’opera resiste alla facile lusinga di appiattirsi a sermone moralistico a sfondo ideologico, oltrepassando i limiti di un sofferto atto d’accusa contro un sistema basato sulla prevaricazione a danno dei più deboli. Se il denaro, nell’organizzazione sociale vigente, misura anche la dignità e i diritti delle persone, e non solo il livello del loro benessere materiale, e fissa gerarchie tra le classi, la speranza di Kino è che il possesso della perla gli garantirà, insieme a un avvenire più sicuro per la famiglia, anche una patente di rispettabilità pubblica e un’occasione di riscatto sociale; egli si adegua al comandamento del profitto, perché consapevole che dubitare della sua giustizia significa morire di stenti, come succede da generazioni alla sua gente. La perla è simbolo quindi del potere, fittizio, che offre la ricchezza a chi ne è detentore, e della libertà di correre dietro ai propri desideri, che però alla maggioranza degli uomini è riservata solo nel sogno; essa diventa per Kino uno specchio, attraverso il quale balenano, all’inizio, tutte le possibilità irrealizzate della sua vita, le sue velleità insoddisfatte, i vani progetti di sfuggire al destino, e infine i sacrifici e gli orrori che era costato l’inseguimento di quella chimera.
Quando si diffonde la voce che Kino ha trovato la perla, tutti i concittadini cercano di blandirlo, gli si mostrano amici, ma solo per ricavare un tornaconto dal suo subitaneo e apparente colpo di fortuna. La città si trasfigura in un animale vivo, feroce, pronto a ghermire la preda, e il desiderio di guadagno la invade come una febbre, la ubriaca, la acceca, trabocca dalle sue vene come il veleno dal morso di uno scorpione. Non c’è limite agli appetiti degli uomini: siamo indotti, da una implacabile necessità costitutiva della nostra natura, a volere sempre di più di quello che già abbiamo, a non saperci accontentare, fino ad essere travolti dal rigurgito degli stessi desideri che ci infiammano, a strozzarci col boccone troppo grosso per la bocca che vorrebbe contenerlo; ogni possesso conseguito ne fa ambire uno ulteriore, in una ruota che stritola, e il vuoto che portiamo dentro si allarga quanto più tentiamo di colmarlo; i piaceri fomentano, anziché spegnerla, la bramosia di altri piaceri, come l’acqua di mare per gli assetati, o come i sassi che Sisifo trascina continuamente sulla cima, per ricominciare quando sono rotolati a valle, all’infinito; tale è la condanna dell’uomo, e insieme la molla che lo spinge a perfezionarsi e ad elevarsi, se opportunamente disciplinata e indirizzata ai giusti fini.
La fortuna appena conquistata è inseparabile dalla paura, paranoica ma anche reale, che mani sconosciute sottraggano a Kino la perla, e quando egli “sospettoso” fiuta la cupidigia altrui che lo circonda come un branco di cani intorno a un animale ferito, serra il pugno con più forza sul prezioso oggetto, quasi a confermare a se stesso di esserne ancora il possessore esclusivo, e se lo tiene accanto, come una reliquia sacra, anche quando giace a letto. La paura, da quando la città viene a conoscenza della sua felice giornata di pesca, grava su ogni suo pensiero, gli fa presentire ombre di “cupe cose mostruose” che si aggirano, a notte, nei pressi della sua capanna, in agguato, ed egli si consuma in costante apprensione come per l’assedio di un nemico senza volto. Kino è consapevole che un’improvvisa svolta positiva è uno strappo nel disegno dell’esistenza, un affronto verso “il modo come vanno le cose”; egli scavalca, quasi senza averlo voluto, l’orizzonte limitato, semplice, ma anche sicuro, delle vite dei suoi, e ciò lo rende inviso agli Dei. Con la sua ambizione è simile ai naviganti che sfidavano le frontiere del mondo noto, temerari e orgogliosi, a costo del naufragio; egli si è ormai inoltrato in una “regione fredda e solitaria”, da cui non c’è ritorno, e in essa si aggira smarrito, “solo e indifeso”. La stessa azione di togliere la perla dal suo ambiente naturale, sottraendola al mare per trarne un guadagno, è interpretata, già dalle persone che sono più vicine al pescatore, come un sacrilegio, riscattato dalla decisione finale di restituirla al suo elemento, unico viatico per spezzare la catena di disastri messa in moto dalle false aspettative riposte in essa. Il cielo è avverso a Kino, ed egli è tormentato dal metus, l’angoscia sacra di chi ha commesso il proibito, poiché sa di aver infranto ordine, una legge posta dagli Dei, ed ora i fantasmi del dubbio e del rimorso non gli danno tregua; come una spada di Damocle, avverte il presentimento della condanna che lo colpirà, ma ciò non basta a farlo desistere dalla sua hybris. E gli Dei non sono buoni, ma gelosi, osteggiano l’uomo, quando questi cerca di costruire la propria felicità, specie se per vie non coincidenti coi loro piani; e gli si mettono contro, inspiegabilmente nemici, si accaniscono spietati a demolire le sue speranze, invece che favorirlo e parteggiare per lui; l’uomo non può contare sul loro aiuto di fronte ai pericoli della notte, e nel momento in cui si ritrova solo, non ha scampo al fallimento. Ma la titanica, faustiana ambizione di sentirsi padrone del suo destino rende folle l’uomo, ed egli muove ancora guerra agli Dei, accettando la rovina che ne scaturirà: questo il senso che la perla, nel simbolismo del romanzo, concentra nella sua perfetta rotondità, nel suo bagliore incandescente che ferisce gli occhi di chi la guardi, nel suo incantesimo perverso, nella sua malia ingannevole; il suo luccichio metaforizza l’abbaglio che adesca chiunque insegua i miraggi di una vita più ricca e più degna. La vendetta degli Dei si compie, e una spirale di sciagure si abbatte su Kino e sulla sua famiglia, e il cielo si fa beffa della loro illusione: egli arriverà ad odiare e ad uccidere, per difendere la perla, e gli sconosciuti che gli renderanno inservibile la canoa e daranno fuoco alla sua capanna vestono il ruolo di esecutori della punizione degli Dei. Di fronte al male della vita, non ci si può che rassegnare; ogni tentativo di miglioramento è destinato a fallire, e viene punito; solo chi non è padrone di nulla è libero dalla preoccupazione di perdere i suoi averi, dall’obbligo di difenderli, dall’invidia e dalle interessate attenzioni della gente.
La comunità india vive immersa in un universo di suoni, ora affabulanti, come il battito delle onde sulla riva, ora altresì sinistri, come il fruscio dei rami nell’oscurità o gli ululati del vento sul mare agitato; ogni stato d’animo si declina metaforicamente in una “musica”, in base a un accostamento che l’autore sottolinea nei momenti cruciali e più carichi di pathos della storia: la musica suadente della perla, e delle promesse di vita nuova che essa evoca alla fantasia, si alterna a quella consolante di Juana che si stringe al marito nei momenti difficili, oppure contrasta con la salmodia spettrale e angosciosa che accompagna la percezione dei pericoli appostati intorno a loro. Uno dei motivi che più rendono avvincente la narrazione è il sentimento della natura, che offre un puntuale riscontro all’evoluzione psicologica dei personaggi. Il paesaggio muta in rapporto alle emozioni degli uomini, si colora di esse e acquista liricamente significato, assecondando il tumulto dei diversi stati d’animo.
Piegata ai voleri e agli interessi dell’uomo, la natura esibisce, all’interno della città, una fisionomia aggraziata e amena, docilmente solidale con il benessere accessibile a chi si è affrancato dal giogo dei bisogni primari, nelle immagini dei giardini di buganvillee ben curati, dei cori festosi degli uccelli e delle fontane chioccolanti, mentre per i poveri pescatori essa si rivela solo nel lato selvatico, indomabile e foriera di potenziali pericoli, con ventate che incanutiscono il mare e sollevano foschie di sabbia rossa fino a soffocare il villaggio. Il battito regolare delle onde, che Kino ascolta nel dormiveglia, scandisce il ritmo tranquillo delle sue giornate, l’una eguale ad ogni altra fino all’evento che sconvolge il corso della sua vita; ma l’ostilità della natura, quasi un retaggio politeista della stirpe da cui Kino discende, si mostra fin dall’incidente mattutino dello scorpione che punge suo figlio Juanito: il mondo esterno è fitto di insidie e di pericoli nascosti, da cui gli uomini del villaggio devono guardarsi senza mai abbassare la vigilanza, non potendo fare affidamento che sul loro istinto, privi come sono dei mezzi di difesa reperibili nella grande città.
Gli Dei sono contrari alle mire di Kino, e la loro ira si manifesta nel mare scosso e furente, che stringe quasi d’assedio la terraferma, nelle nebbie torpide e avvolgenti, che impediscono alla vista di scorgere le minacce, nel vento che divora la sabbia e abbatte i canneti come mandrie in fuga: tutta la natura congiura contro gli uomini, perché essi aspirano a credersi padroni dei propri destini.
La società umana è dilaniata dallo sforzo che ogni individuo perpetua per sopraffare e sfruttare il suo prossimo, ma tale stato di conflitto è la conseguenza di una più ampia, endemica lotta, che coinvolge la creazione in ogni suo ordine, come Kino sembra intuire osservando delle semplici formiche che ingaggiano scontri mortali sul terreno, mentre siede all’ingresso della capanna in attesa di consumare il primo pasto della sua giornata; anche quando scappa con la moglie nelle regioni incolte fuori dai centri abitati, in una rara e fugace pausa della sua fuga, Kino si riposa su un masso e segue con lo sguardo l’andirivieni delle formiche ai suoi piedi, frenetico e cruento, e magari quell’immagine torna a suggerirgli una analogia con la sorte degli uomini, sebbene i suoi pensieri non la esprimano in termini consapevoli: un simbolismo che si ripete all’inizio e alla conclusione della trama, piegandola a uno schema circolare. L’accostamento tra uomini e formiche prosegue nelle minuscole figure che Kino vede profilarsi all’orizzonte, quelle dei tre cacciatori che hanno battuto il paese per derubarli, quasi invisibili per la lontananza. Lo stesso viluppo di vita e morte, inestricabile come i nodi delle alghe sulla battigia, si offre nello scenario della spiaggia all’alba, dove cani randagi e gabbiani si contendono i pesci morti rovesciati dalle mareggiate e granchi si avventano famelici sui piccoli gamberi appena schiusi dalle buche, mentre il sorriso del Golfo, in lontananza, tremola al raggio del sole nascente che accarezza la distesa calma delle acque; nelle profondità dell’oceano innumerevoli specie si fanno guerra, replicando su scala cosmica quel travaglio per la sopravvivenza che non risparmia neanche l’uomo. In una tregua del loro vagabondaggio, i due coniugi sostano presso una sorgente nascosta in una ferita tra le rocce; lungo la riva, diverse forme di vegetazione si contendono esigue strisce di terra e angoli di luce per respirare, e i pesci nelle acque si divorano l’un l’altro e sono preda a loro volta delle razzie di uccelli e gatti selvatici, obbedendo tutti a una legge universale che amministra la sua feroce giustizia dietro il tono apparentemente idillico della scena.
Il mattino in cui Kino trovò la perla fu annunciato da un greve addensarsi di nebbie sul mare, lente a diradare anche dopo che il sole era ormai alto, spesse al punto da rendere, come nei sogni, “incerte le immagini e dubbia la vista”, e presaghe di un qualche avvenimento sconosciuto, estraneo alle leggi del prevedibile e dell’ordinario.
Kino accetta di a mettere in gioco la vita stessa, sua e dei suoi cari, per far fronte alla tenebra che lo perseguita, e che sembra rivelarsi nel fremito delle mangrovie, nel lamento delle onde, nelle voci degli animali che si muovono vicino alla capanna. Il male si rapprende alla notte, e diviene una cosa sola con la cappa di oscurità che avvolge il paesaggio un tempo rassicurante; e anche la città, allo scoccare delle tenebre, “si barrica” come per prepararsi a una difesa estrema. Quando il protagonista si convince ad andare a vendere la perla in un’altra città, visto che in quella vicina i compensi offerti dai mercanti gli parevano troppo bassi, lo spazio che lo separa dalla destinazione si dilata, assume una estensione che lo sgomenta, innalza una barriera e un abisso per superare i quali gli occorre far leva su tutto il coraggio di cui è capace; un viaggio così impegnativo lo costringe ad uscire dal mondo familiare, per spingersi “oltre il mare e oltre le montagne”, dove non era mai stato prima.
La fantasia del protagonista carica di sinistri presagi i suoni della notte, il fremito delle foglie, le voci dei vicini e la cantilena delle onde, uno scricchiolio dei rami o uno sbuffo del vento sulla brughiera, e interpreta i segnali del mondo circostante come indizi di una minaccia incombente; un aggressore potrebbe celarsi dietro i cespugli di stoppie o i massi della spiaggia, e la paura acquista consistenza fisica, sembra materializzarsi nelle ombre e nei rumori indefiniti intorno alla capanna. La stessa inquietudine pervade la natura, ma in forma capovolta, quando Kino fugge con la famiglia in cerca di scampo verso la montagna: ogni fuscello spezzato e sasso scostato nel cammino rivela una traccia del loro passaggio, e offre indizi agli inseguitori; ogni vagito del neonato e crepitio dell’erba secca sotto i loro piedi può rovesciarsi in maligno richiamo per l’invisibile predatore che dà loro la caccia. Come una bestia braccata, Kino sta all’erta, guardandosi dalle sue stesse sensazioni; e la sua essenza ferina emerge e prevale sulla sua umanità, ora che vive “solo per conservare se stesso e la sua famiglia”, dovendo badare “a nascondersi e ad attaccare”; tuttavia è proprio il brivido dell’avventura a rinfocolare la sua vitalità, trasmettendogli una esaltazione degli istinti, primitiva e risalente al fondo ancestrale del suo sangue, impensabile fino a che la sua vita scorreva monotona e sicura, e la disperazione gli accende infine “una luce di belva negli occhi”, famelica e pronta a tutto.
La solitudine in cui i due sposi scontano la loro maledizione è amplificata dalla visione della spiaggia vuota e deserta, dove poco prima dell’alba Juana si precipita per rigettare in mare la perla, fermata in tempo da Kino che l’aveva inseguita a passi rapidi e silenziosi. Nel giorno in cui decidono di partire per la capitale, anche il cielo porta inscritti i segni della sciagura che sta per abbattersi, che gli uomini non sanno decifrare, sebbene ne percepiscano il monito nefasto: le nuvole appaiono “stracciate”, come superstiti a uno scempio, e in mezzo ad esse una luna infernale beccheggia come sul punto di esserne sopraffatta, battagliando con gli scuri brandelli che tentano di eclissarla. La scena mira a fissare un parallelismo tra le vicende della perla contesa tra i personaggi e l’alternarsi di luce e tenebra nel cielo: dopo che il marito è rimasto frastornato dallo scontro con un bandito, Juana si lancia alla ricerca del perla caduta tra le stoppie; quando la avvista, la luna si scopre e il bagliore che illumina il cielo è corrisposto dallo scintillio che sulla terra manda la pietra; non appena la donna afferra la perla e la stringe nella sua presa, anche il cielo chiude la sua mano sulla luna e ne torna a coprire il riflesso.
Mentre i due protagonisti lasciano il villaggio diretti alla capitale, le stelle sembrano guidarli con la loro pallida luce, complici del loro audace disegno di fuga. Sopraggiunta l’alba, il cielo non è più sgombro e limpido, ma gonfio di nuvole che si ammassano e si coagulano tra loro, fondendosi in una muraglia grigia e opprimente, e un vento si leva recando l’umido avvertimento di una tempesta in arrivo dal Golfo: anche gli elementi sembrano in preda allo stesso fremito che turba il cuore degli uomini. A giorno alto, la coppia si è allontanata ormai dal villaggio, la sua marcia serrata è incalzata da un vento insolitamente furioso, che imperversa monotono nel cielo e staffila i canneti, e i versi degli animali, coyotes e civette, feriscono l’aria con note beffarde e crudeli. I due fuggitivi si sono inoltrati in una zona intatta dalla presenza umana, e devono tutelarsi, oltre che dagli uomini che li pedinano, anche da diverse specie di piante: alcune a causa dei frutti velenosi che producono, altre perché ritenute di cattivo auspicio dalla credenza popolare. La fissità infocata del sole, intanto, avviluppa l’orizzonte e l’intero consesso naturale che comprende in una morsa omicida; gli alberi sono bassi e spinosi, prosciugati dall’aridità, e crepitano come bruciassero sotto la sferza accecante dell’afa che non dà riparo. L’assenza di acque e la comparsa solo saltuaria di forme di vita, quali piccoli uccelli grigi che zampettano nella polvere o serpi che sibilano tra la macchia, rende definitiva e assoluta la desolazione dell’ambiente; l’inaspettata apparizione degli uomini è a sua volta misteriosa agli occhi degli animali, e turba lo squallido silenzio della montagna, provocando la fuga repentina di un coniglio spaventato dalla sua tana e il voltarsi di “mostruosi rospi” acquattati tra i sassi con le loro “piccole teste di drago”. Per rendersi introvabili, Kino e Juana devono riparare dove la natura è più refrattaria ad essere percorsa dall’uomo: verso il groviglio inestricabile degli sterpi, e poi sempre più in alto, dove inizia il pendio ripido della montagna, dopo aver scalato una corona di macigni franati. Quanto più salgono il fianco dell’altura, tanto più il sentiero si fa erto e scosceso, ingombro e quasi cancellato dal pietrame e dagli arbusti, e il paesaggio sembra voler ostacolare e opporre resistenza alla loro fuga, inasprendosi di dirupi bui e battuti dal vento e picchi di granito inaccessibili. Il calare del tramonto reca l’annuncio di un fatale verdetto che sta per compiersi, allungando l’ombra della montagna sulla brughiera deserta e avvolgendo così ogni cosa visibile in un velo di tenebra. Anche per gli inseguitori la natura notturna è un concerto di suoni da decifrare: essi tendono l’orecchio al gracidare delle rane e allo stridere delle cicale che riempie la valle, ansiosi di intercettare uno scricchiolio di sassi che possa tradire la presenza di Kino.
E sarà ancora sulla complicità della luna che Kino dovrà fare affidamento quando deciderà di attaccare a sorpresa i suoi inseguitori, approfittando del favore dell’oscurità che precede il levarsi dell’astro per avanzare senza esser visto verso il loro accampamento; ma la luna è un alleato infido e tradisce, e si affianca ai tre cacciatori nel montare la guardia rivelandosi per Kino un avversario aggiuntivo da cui guardarsi. Una luna che, a causa dei lunghi bracci di nuvole che a intervalli la nascondono, apparirà “slabbrata”, sfigurata dalle “crude ombre” che ne avviluppano il volto e ne fanno filtrare un chiarore da incubo, poco prima che il suo raggio incerto stagli nel buio lo sguardo pieno “di spavento e di orrore” dell’uomo che Kino ucciderà, e il sangue sui corpi di quelli già abbattuti.
Il finale della storia vede i due coniugi far ritorno nella città, attorniati da una folla da grandi occasioni, e recarsi fino alla spiaggia per disfarsi della perla: scagliata in mare, essa torna alla pace dei fondali, a cui appartiene, e il “verde specchio” delle acque la ricopre, custodendone per sempre il segreto, mentre le onde continuano a ripetere imperturbabili la loro melodia, emblema del restaurato equilibrio nell’ordine della natura e del destino, che più severamente ribadisce la sua autorità sugli uomini quando essi incuranti dei propri limiti osano sfidarlo.
Guglielmo Aprile
[1] Il romanzo, pubblicato nel 1947, narra l’avventura di un povero pescatore messicano, che dopo il ritrovamento di una perla nelle acque del Golfo si illude di aver fatto fortuna, per rendersi poi conto che quel falso tesoro gli ha attirato addosso una serie di sciagure, alle quali porrà fine solo rinunciando al miraggio della ricchezza e rassegnandosi all’umile modo di vivere di sempre.
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