«PROVARE A PENSARE… CIÒ CHE AVEVO SENTITO»
MARCEL PROUST E LA TRAVERSATA DELL’ESPERIENZA
Paul Mommaers, specialista della mistica cristiana, è autore di una lettura della Recherche che approfondisce la questione dell’esperienza fino a fare di questa il termine ineludibile per provare a comprendere dall’interno la struttura, i motivi e la terminologia del romanzo proustiano. È essenzialmente su questi tre livelli (strutturale, tematico, terminologico) che si svolge il suo lavoro di esegesi del testo; un lavoro che procede minuziosamente verso una spiegazione del nucleo più denso e riposto dell’opera, senza cedere alla tentazione – non certo nuova per quanto riguarda la critica proustiana – di sovrapporre più o meno arbitrariamente texte e hors-texte, ovvero l’opera e la biografia del suo autore.
Una volta fissato il campo di praticabilità per una lettura che già dalle prime pagine annuncia un intento molto vicino all’esegesi, Mommaers non esita a sottolineare un altro motivo (nient’affatto secondario) per cui questo tentativo non può sfuggire alla questione cardinale, alla premessa che è al tempo stesso la domanda-che-sempre-ritorna quando si tratta di provare a pensare il movimento del romanzo proustiano: si può arrivare fino in fondo nella costruzione di un discorso sull’Unità del romanzo (mettendo in rapporto la molteplicità con l’Uno, il contrappunto sfuggente di fili annodati che compongono il testo con un punto d’attrazione verso cui questi dovrebbero essere ricondotti dal critico) e rimanere nel contempo fedeli al carattere e alla fisionomia dell’opera di Marcel Proust?
Non di rado, infatti, si è tentato di leggere À la recherche du temps perdu come la monumentale esposizione di una lezione estetica. Tale linea interpretativa ha spesso costituito il binario di lettura privilegiato per rintracciare, all’interno della Recherche, una sorta di teoria dell’arte in funzione della quale ogni elemento del testo troverebbe il suo posto, venendo ricomposto e riassorbito nell’insieme. Mommaers, consapevole del rischio di semplificazione insito in ogni operazione ermeneutica, non tarda a mettere in chiaro che l’obiettivo del suo testo è un altro: leggere nella Recherche l’apertura di uno squarcio su una realtà qualitativamente differente. È esattamente questo squarcio, questo lampo, questo bagliore accecante che viene definito, con tanto di maiuscola, Esperienza. È quest’ultima a situarsi, quasi fosse un organo vitale, nei punti più interni e meglio protetti del romanzo. È sempre l’Esperienza a legarsi a quel senso di profonda gioia che il protagonista esprime attraverso frasi di questo genere: «mi sembrava di essere fuori dal tempo». Ed è, infine, sempre su questo punto che la creazione artistica, teorizzata ed esposta contestualmente alla scrittura dell’opera, sembra ritornare, attratta da un movimento incessante e spesso sotterraneo che il narratore stesso definisce, con un termine preso forse in prestito dalla mistica, come una vocazione.
Sulla collocazione concettuale dell’Esperienza in questa lettura del romanzo proustiano torneremo in seguito. Per il momento sarà opportuno concentrarsi, invece, sugli indizi che conducono l’interprete a scegliere questa strada. Tali indizi, raccolti pazientemente da Mommaers lungo tutta l’estensione del romanzo, si rivelano come i presupposti fondamentali che reggono l’intera struttura del suo testo.
È proprio a livello strutturale che i primi elementi vengono a delinearsi. Su questo punto l’autore rasenta un tipo di convinzione che si potrebbe definire categorica: la Recherche ha una struttura ad arco. O, meglio ancora, il romanzo di Proust è questa stessa struttura, in cui si compie l’itinerario dell’Esperienza. Sul valore di questo compimento, così come precedentemente suggerito a proposito del corollario concettuale dell’Esperienza, sarà opportuno rimandare una presa di posizione. Ciò permette, infatti, di seguire – restando in qualche modo fedeli a questa logica dell’itinerario – i passi e i punti di arresto nella lettura di Mommaers. Se si può sostenere, e vedremo come, che la Recherche delinea un tracciato definibile come il grande arco dell’Esperienza, questo è dovuto al fatto che lo stesso Proust confesserà, in almeno due lettere scritte a dieci anni di intervallo, come l’architettura del romanzo fosse stata originariamente pensata. «Le dernier chapitre du dernier volume a été écrit tout de suite après le premier chapitre du premier volume. Tout l’“entre-deux” a été écrit ensuite».
Sappiamo quanto il Marcel Proust “mondano” si divertisse nell’arte di disseminare, nella conversazione a viva voce come nelle lettere, indizi cifrati che solo alcuni tra i suoi interlocutori potessero comprendere. Che l’affermazione sopra citata potesse valere come una sorta di risposta velata ai (non pochi) detrattori, tra i suoi contemporanei, che sottolineavano il carattere dispersivo dell’opera, è del tutto plausibile. Ma non bisogna sottovalutare che il progetto originario della Recherche, molto più asciutto del romanzo che leggiamo oggi, doveva comprendere soltanto tre volumi, ovvero i due Côtés (Swann e Guermantes) più Il Tempo ritrovato. È noto, infatti, che il personaggio di Albertine è, letteralmente, venuto dopo. Tanto che alcuni interpreti, di fronte ai due volumi La prigioniera e La fuggitiva, hanno coniato l’espressione “il romanzo di Albertine”, come a rimarcarne il carattere di parentesi. L’albertinage (ovvero quel movimento convulso, nel cuore della Recherche, che tiene insieme la fuga, la prigionia e la perdita dell’essere amato, e che non secondariamente alimenta il desiderio del protagonista) costituirebbe dunque un dislivello strutturale che ha cambiato la fisionomia originaria del romanzo. Mommaers non si occupa espressamente di tale questione, eppure il poco spazio da lui riservato al personaggio di Albertine, che compare per lo più come sponda per esporre una lettura del rapporto tra desiderio e realizzazione, testimonia di un’attenzione che si concentra maggiormente verso il tema dell’io nel protagonista del romanzo.
Il riferimento alla struttura serve in realtà a tracciare il binario della lettura di Mommaers, che procede da Combray al Tempo ritrovato, abbracciando tutto il cosiddetto arco in cui l’Esperienza del protagonista si compie e relegando ad un piano secondario, se non accidentale, gli elementi di fuga rispetto a questo tracciato. L’edificio proustiano dell’Esperienza è l’oggetto di lettura di questo saggio. Esso mette in luce come l’io non sia una sostanza originaria a partire dalla quale, tramite un meccanismo generativo, l’itinerario del protagonista arrivi al suo compimento. Anzi, con la valorizzazione di elementi chiave della sensibilità proustiana quali lo spaesamento, l’alienazione, la sofferenza, emerge una declinazione dell’Esperienza che ritorna immancabilmente al punto in cui si svelano l’ambiguità e la plurivocità che governano l’io dal profondo. Il che equivale a porre continuamente, e ogni volta in modo diverso, la domanda: “chi sono io?”, rispetto alla quale l’unica risposta all’altezza di Proust è che “l’io è il nome che si dà a una successione di momenti”.
Il passaggio dell’esperienza proustiana attraverso le prove della memoria – ciò che Mommaers in un’analisi dettagliata definisce le “reminiscenze” chiave – esprime tutta la difficoltà da parte del protagonista, inchiodato ad un compito impossibile, di riconoscere qualcosa senza aver nozione della sua causa. È questa la base che permette allo specialista della mistica di introdurre il tema dell’essenza. Giocando sull’ambiguità semantica che fa oscillare questo termine tra il senso metafisico di emanazione e quello di essenza preziosa che ha a che fare con un odore o un profumo, Mommaers annoda il tema della realtà eccedente l’ordine del soggetto al motivo dell’incontro casuale, dell’accidente materiale. Proprio come il mistico che percepisce nel quotidiano la presenza del miracoloso, il protagonista della Recherche, di fronte alle “impressioni oscure” prova un piacere speciale, ma sempre sul punto di perdersi – l’indizio che rivela l’esistenza di una realtà tanto preziosa quanto inafferrabile per la volontà. Su questo punto, anzi, su questa costellazione che viene definita realtà, la lettura esposta in Marecel Proust, esthétique et mistique insiste più che su ogni altro motivo. Il problema del protagonista, fino al Tempo ritrovato, resta quello dell’intellegibilità dei segni dell’esperienza: “provare a pensare… ciò che avevo sentito”. Le sensazioni, tratto comune tra reminiscenze e impressioni, «materia quasi impenetrabile», alla soglia dell’inintellegibilità, vengono accolte e recepite come segni di qualcosa che di cela dietro, sotto, al di là del vissuto. I segni, dunque, e non le idee, hanno a che fare con l’Esperienza. Un’esperienza che è molto più Evento (evento dell’Altro) che non teoria.
La tesi portante del testo di Mommaers afferma, a questo punto, una prossimità innegabile, una sorta di parentela auto-evidente, tra l’esperienza proustiana e quella che egli definisce “di genere mistico”. Si tratta di qualcosa che ricorda le somiglianze di famiglia di cui parla Wittgenstein. Infatti, non vi è traccia di testi propriamente mistici nei sette volumi della Recherche; i punti di contatto restano indiretti. Tra questi si possono elencare il rapimento, l’estasi, la sofferenza (che finisce per rivelarsi l’inesplicato par excellence) e la categoria della «conoscenza sperimentale» (il cui carattere passivo riguarda l’essere “toccato” in opposizione all’iniziativa personale). Ma, più in generale, l’accostamento proposto da Mommaers è legittimato dal movimento proustiano attraverso cui la realtà ordinaria e conosciuta si fa in certi istanti trasparente, lasciando che il soggetto toccato dall’esperienza scorga una realtà straordinaria e sconosciuta.
Se i primi due piani di questa lettura sono stati toccati attraverso il riferimento strutturale all’arco dell’Esperienza e l’accenno al tema della costellazione della realtà, il terzo livello esegetico – quello terminologico – merita ancora di essere considerato. Probabilmente è proprio su tale terreno che il testo di Mommaers si rivela uno strumento di lettura in grado di dissodare le geometrie fin troppo compatte con cui alcune interpretazioni semplicistiche della Recherche riducono la vicenda ad una progressione di passi verso la scoperta, da parte del protagonista, del suo “vero io”. Niente di più lontano da Proust: il carattere di progresso è estraneo al gesto dell’autore della Recherche. Non a caso, dall’incipit sino al termine del romanzo, si avverte il sentore di una potenza regressiva che fa saltare (ogni qual volta può, e a costo di infliggere abissali sofferenze al protagonista) il continuum temporale della vicenda, quindi la storia.
Ritornando al livello terminologico, però, si nota in Mommaers la tendenza a riprodurre lo schema della struttura ad arco attraverso l’isolamento di una coppia di termini, rispetto ai quali gli altri si troverebbero in una posizione, per così dire, secondaria. Mi riferisco alla dialettica tra i due poli della realtà e della realizzazione. Ma, non bisogna, per questo motivo, ridurre a un passaggio diretto dalla prima alla seconda tutto il movimento della Recherche; di ciò l’autore sembra essere consapevole. È per questo motivo che spezza l’uniformità semantica del primo termine, introducendo un’oscillazione che, assunta fino in fondo, sembra suggerire un punto di indecidibilità, una pluralità di compossibili rintracciabili in seno alla realtà. Si tratta di un movimento di passaggio più che di un’aporia, di una trasfusione di senso che tiene insieme almeno tre livelli: la realtà reale, la realtà interiore, la realtà altra. La prima è la realtà che il discorso comune oppone, con un classico esempio, al sogno. Non occorre dilungarsi per ricordare che per il narratore della Recherche è proprio questa realtà reale a nascondere e rivelare le tracce della realtà altra, secondo quel movimento del farsi trasparente con cui il noto lascia intravedere l’ignoto. La realtà interiore, d’altra parte, è il risultato di quel palinsesto di nodi affettivi che, interagendo con la realtà reale, rende possibile il con-tatto – nella forma dell’esser toccato come in quella, altrettanto proustiana, dell’incarnare – con la realtà altra.
Se percorriamo la curva dell’esperienza, sull’altro versante rispetto alla stratificazione di realtà, troviamo la realizzazione. Proust, in un passo di Swann, la definisce come l’operazione con cui si fa entrare qualcosa – per esempio una qualità o un talento – nel quadro dell’esistenza comune. E, tuttavia, al cuore di questo senso di traduzione del possibile nell’effettivo ritorna quel sentimento di con-tatto fisico che precede il corso diretto dell’intenzione cosciente: si tratta del livello fisiognomico che in Proust annuncia sempre qualcosa della realtà altra. Come nel romanzo un certo gesto o una certa movenza possono annunciare un cambiamento imprevedibile nelle preferenze sessuali di un Saint-Loup, così esiste per Proust un livello di incorporazione che precede e nel contempo scavalca gli sforzi con cui l’intelligenza cerca di decifrare i segni dell’esperienza. Si tratta di ciò che è stato da altri interpreti definito il “tempo sensibile”, che probabilmente è il punto nodale di ogni esperienza mistica e che un lettore proustiano come Georges Bataille ha concentrato, con spietatezza e contro ogni senso di ascesi, in una frase della sua Esperienza interiore: «Ho incarnato l’inafferrabile».
Nella successione dei piani – strutturale, tematico e infine terminologico – con cui questa pregevole lettura di À la recherche du temps perdu avanza verso la sua conclusione, non si può ignorare che alcune complicazioni (o co-implicazioni, come il gioco dei livelli di realtà), se escono allo scoperto, soprattutto attraverso le oscillazioni linguistiche, sono rintracciabili, in uno stato di semi-latenza, già nei due precedenti piani. Per fare un esempio, la struttura ad arco – punto fermo per l’interpretazione che intende assimilare il percorso dell’esperienza proustiana ad un cammino verso la scoperta di un io profondo – non può che essere indebolita dall’azione corrosiva che le potenze affettive esercitano sul protagonista del romanzo. Oppure, al limite, assumere su di sé (nel senso di un farsi-carico-di) tutto il lavoro attraverso cui tale intreccio di nodi affettivi sostiene la struttura soggettiva. Legata a doppio filo all’azione di queste potenze, la variazione identitaria o l’in-versione – termine che nel vocabolario proustiano vuol dire molto di più che nel linguaggio comune – non conosce alcuna ricomposizione finale, se non sul piano della decisione, tutt’altro che pacifica, di scrivere ciò che per tutta una vita il protagonista si era sforzato, in vano, di comprendere. Il protagonista diventa narratore nel momento in cui sceglie questa strada. E scrivere, nella prospettiva proustiana, corrisponde ad una sottile variante dell’incorporare. «Il libro essenziale, il solo vero libro, uno scrittore non deve, nel senso comune del termine, inventarlo, dal momento che esiste già in ciascuno di noi, bensì tradurlo. Il dovere e il compito di uno scrittore sono quelli di un traduttore»[2]. Traduzione dell’incomprensibile (nel senso di una massa che resiste alla scansione cronologica e fa deragliare l’ordine del soggetto). In definitiva il compito dello scrittore, per come Proust lo intende, consiste nel rimanere fedeli a questa imperfezione dell’ingranaggio che vuole “ogni cosa al suo posto”. La traduzione non può che essere fedele al corpo, anche a discapito del senso.
Avviandomi alla conclusione, non posso lasciare ulteriormente in sospeso un filo del discorso dalla cui chiarificazione dipende, in un certo senso, l’intera lettura del testo di Mommaers. Ho accennato in precedenza al problema della collocazione concettuale del tema dell’Esperienza. Ora, dopo aver attraversato i diversi strati che compongono il suo orizzonte di lettura, è il momento di affrontare l’asse portante della lettura di Mommaers. L’esperienza per Proust non è un’opera che procede progressivamente verso il suo compimento. Se l’Esperienza è “la materia prima del libro”, una materia differente dalle altre (come il piccolo pezzo di muro giallo della Veduta di Delft per Bergotte), ciò non significa che la realtà nuova che emerge dal fondo di questo percorso corrisponda alla realizzazione della vocazione per il protagonista del romanzo. Nessuno può assicurarci la perfetta corrispondenza tra il libro la cui scrittura viene annunciata ne Il Tempo ritrovato e La Recherche che noi leggiamo. La stessa obiezione può essere posta se pensiamo al rapporto tra il narratore e il protagonista: si può davvero parlare della stessa persona? Credo – osservazione del tutto incidentale – che la questione dell’io nella Recherche dipenda in massimo grado dalla risposta che si sceglie di dare a questa domanda. Certamente esiste in Proust un rapporto intimo tra la sofferenza e la gioia, che sono le figure-chiave, i numi tutelari di qualsiasi discorso sull’esperienza nel romanzo. L’Esperienza proustiana, che si scelga o meno di utilizzare la maiuscola, è propriamente traversata, il passaggio tra questi due estremi: più che il suo inizio o la sua fine, contano le infinite tappe intermedie, in cui la realtà dell’extra-temporale è inseparabile dall’azione distruttrice del Tempo.
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