Pubblicato il 25/02/2008
Un appassionato di pittura, ad esempio della pittura di Claude Monet e di Sisley, conosce e gusta necessariamente i corsi d'acqua solcati da una vela tra le loro rive erbose, il mare turchino di Antibes, le diverse ore del giorno, certe vedute di Rouen in cui la cattedrale appare tra le case, profilando, tra tetti piatti e muraglie compatte, la freccia del suo campanile e le sue facciate striate di nervature; allo stesso modo che l'amante di una attrice ama necessariamente le parti di Giulietta e di Ofelia, che sono le specie sotto le quali gli si manifesta la creatura che egli adora. Gli appassionati di pittura, che fanno un viaggio per vedere un quadro di Monet raffigurante un campo di rosolacci, non faranno forse una passeggiata per recarsi a vedere un campo di rosolacci; tuttavia, come gli astrologi che possedevano un cannocchiale in cui osservavano tutte le cose della vita, ma che bisognava recarsi a trovare in luoghi solitari perché non si mescolavano alla vita, tengono nelle loro stanze una sorta di specchi altrettanto magici, chiamati quadri, nei quali, allorché si sappia contemplarli bene, discostandosene un poco, si rivelano importanti parti della realtà. Noi siamo lì, chini sullo specchio magico, ce ne allontaniamo, cercando di bandire qualsiasi altro pensiero, di comprendere il senso d'ogni colore, ciascuno dei quali richiama nella nostra memoria impressioni provate in passato, le quali si associano in un'architettura altrettanto aerea e multicolore che i colori sulla tela, costruendo nella nostra fantasia un paesaggio. Specchi che vengono consultati da vecchi dalle lunghe barbe, che non conoscono l'abbrunimento del vento o del sole, ma che vanno in estasi nello scoprire tutte quelle verità, aventi del resto come materia il sole, il vento: allo stesso modo che l'amante di un'attrice conosce lo scrittore ch'essa ammira e di cui interpreta i drammi. Un quadro di Monet ci fa amare il paese che esso raffigura. Monet ha molto dipinto le rive della Senna a Vernon. Senza dubbio, noi pensiamo che avrebbe potuto vedere cose altrettanto belle altrove; e che furono forse circostanze accidentali a condrlo colà. Non importa. Per far uscire la verità e la bellezza di un luogo, noi abbiamo bisogno di sapere che esse possono uscire da quel luogo, che il suolo di esso è pieno di dèi. Noi possiamo pregare soltanto in un luogo consacrato, nonché in quei luoghi dove noi stessi, in giornate divine, avemmo rivelazioni. Certamente, in noi non è una vana idolatria di Corot, di Monet, ad amare: ad amare, siamo noi stessi. Ma, prima di pervenire all' amore, siamo timidi, bisogna che qualcuno ci abbia detto: « Là potrete amare, amate! ». Allora, amiamo. I quadri di Monet ci rivelano in Argenteuil, in Vétheuil, in Epte, in Giverny l'essenza incantata. E noi partiamo allora per quei luoghi benedetti. Essi ci rivelano parimenti il nutrimento celeste che la nostra fantasia può trovare in cose meno determinate: i corsi d'acqua seminati di isole in quelle ore inerti del pomeriggio in cui l'acqua è bianca e turchina delle nubi e del cielo, verde delle piante e dei prati, rosa dei raggi già declinanti sul tronco degli alberi, e nell' oscurità illuminata di rosso dei cespugli dei giardini dove crescono le grandi dalie. Ci fanno amare un campo, il cielo, una spiaggia, un fiume, come cose divine verso le quali vogliamo andare, come cose divine in cui restiamo tante volte delusi vedendo passeggiare nel campo o camminare lesti sulla spiaggia una signora che si avvolge nello scialle o un uomo e una donna che si tengono per mano. Noi mettiamo tanto in alto le divinità da noi adorate che quanto le abbassa al livello di cose già note ci disincanta. Siamo innamorati dell'ideale. Crediamo che il pittore debba dirci che cos'è un dato luogo: persona misteriosa dalla vasta fisonomia di scogliera, dallo sguardo serotino rosseggiante nella pioggia sin nelle acque profonde del mare; e tra noi e quella persona vediamo interporsi una coppia. E noi che riteniamo tanto misteriosa quella individualità dei luoghi da pensare che il pittore s'impegni tutto intero nell' evocarla nel silenzio solcato dai rumori marini di quelle spiagge, proviamo un senso di delusione accorgendoci ch'egli non l'ha studiata, in definitiva, con maggior attenzione di quella coppia, che pur non ci sembra per nulla misteriosa e che ha ritratto anch'essa sulla sua tela. Abbiamo sete di luoghi che siano soltanto se stessi, e non altri, di spiagge che non vedano mai che un certo scorcio di scogliera e che ascoltino l'intero giorno e l'intera notte i lamenti del mare, di ville situate sul pendio d'una collina e che vedano soltanto un fiume e, d'estate, dei boschi di serenelle; e la vista degli uomini incorporati a tali cose ci è molesta, perché non volevamo vedere che esse, senza nessun rimpiccolimento. Tale è l'esigenza dei nostri ideali. Da ragazzi, quando cerchiamo nei libri la luna e le stelle, la luna di Picciola c'incanta, perché è un astro splendente, mentre in Colomba ci delude, perché vi è paragonata a un formaggio, e un formaggio ci sembra volgare. E, nell'Histo ire d’un merle blanc di Musset, finché abbiamo a che fare con ali bianche e un becco roseo e goccioline d'acqua siamo felici, ma, quando il merlo bianco dice alla colomba: «Signora marchesa», quegli uomini e quelle donne, che costituiscono allora per noi la vita, la bruttezza, quel che non è per noi la poesia, ci danno un senso di fastidio e spezzano l'incanto in cui eravamo immersi. È l'età in cui, nei musei, ci piacciono solo i quadri di Gleyre e di Ingres, in cui abbiam bisogno di forme ammirevoli, di lune simili a un chifel d'argento in un cielo seminato di stelle, e in cui tutti i colori delle Nozze di Cana ci appaiono altrettanto lontani dal mondo della poesia e altrettanto volgari quanto le falde d'un soprabito su una sedia o gli schizzi di vino su una tovaglia.
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