Pubblicato il 21/01/2019 07:02:32
La Lucania, terra di sentimenti nascosti. Matera, città d’arte, designata dall’UNESCO ‘Capitale Europea della Cultura 2019’.
“Come amorevolmente protetta da robuste braccia, fra le due estreme penisole della Iapigia e della Calabria, regni delle Murge e delle Sile, si apre la classica costa ionica dela Basilicata, alla quale fanno corona la tragica Metaponto, bella ancora di templi dorici, la bianca Pisticci ricca d’industrie, Montalbano Ionico, centro agricolo e la fiorente Policoro, vicina ai resti di Heraclea che col castello dei Berlingieri, attorniato da umili abituri, domina la sua opulenta pianura e il mare. […] La spiaggia e la circostante silenziosa pianura, sembra ora ridestarsi da un sonno che si perde nei tempi ed avvince per il suo vero e molteplice aspetto antico e storico, artistico, culturale e pittoresco: contrada che meglio custodisce il tipo del paesaggio classico, solenne e suggestivo. Proprio in questo sacro silenzio emergono le linee di una energia primaverile, in cui il soffio stesso è il caldo alito di una febbre di altezze e di aspirazioni sante. E la campagna racchiude in sé i segni possenti delle età passate”.
Inizia così il bel libro postumo “La mia Basilicata” in memoria di Concetto Valente che il figlio Giuseppe Valente ha voluto dedicargli nel centenario della sua nascita. Ben poco rimane all’immaginario da fantasticare, la colta descrizione parla da sola, ancor più quando lo scrittore si abbandona al canto lirico del poeta che lo insigna, e che ritroviamo nelle pagine seguenti:
“Dal golfo s’inerpica la terra lucana tra colli e monti, le cui vette brulle ed immacolate immerse nell’azzurro formano la gradinata gigante dinanzi alla immensa valle solitaria ed all’arco aurato della spiaggia. Dalle schiere di colline e monti, interrotte da strette pianure ubertose e da fresche valli, s’innalza repentino, come nube a Mezzogiorno, a confine con la Calabria, il massiccio del Pollino, dalla cui vetta l’occhio abbraccia un vastissimo orizzonte che comprende la visione di mezza Basilicata e spazia dal Tirreno, fino al porto di Taranto ed oltre. [...] E già emergono terre più ricche e sane, specie intorno all’oasi di Policoro, già bella di superbi e fregranti frutteti, e così in tutta la pianura ionica stanno estendendosi più fitti aranceti, albicocchi e pescheti, salutati sulle prime colline dall’antico fluttuare di ulivi, di potenti carrubi, di grandi quercie, di favolosi pini, di pruni, fichi, mandorli ed ancora aranceti e cedri”.
“Le montagne della Basilicata hanno una caratteristica tutta particolare: vette superbe dominanti panorami meravigliosi e vari, profili staglianti ed ora armonici, che a guisa di anfiteatri racchiudono ridentissimi piccoli laghi selvaggi. Spesso città antiche, belle e custodi di opere d’arte d’immenso e pregevole vale subliminano queste alture; l’antichissima Matera dei Sassi, ricca di opere d’arte di ogni tempo d’inestimabile valore, Montescaglioso, Irsina, Tricarico, Acerenza, Venosa, Lavello, Melfi e l’aerea Potenza, che dalla sua altezza giganteggia sull’antica e gloriosa Valle del Basento e su quella ampia di rione S. Maria, verde di boschi, ‘boschetti’, ‘macchie’ e giardini”.
“La Basilicata non è terra improvvisata, cova dentro il suo fuoco ed ha il pudore e la gelosia dei suoi sentimenti più profondi. La bontà gli è riconosciuta; la giustizia presiede a qualsiasi giudizio delle moltitudini. Capace d’impeti mistici e di lunghe vigilie, la sua gente è ragionatrice, ponderata per indole, è vigile nelle analisi e si eleva a mirabili sintesi. Vuole essere epicurea ed è di natura nostalgica. Il suo custico umorismo non uccide ed è edificatore. Vuol ridere e si accora di un niente. Ascoltatela nelle ore gravi, terra sacra ai campi; terra sacra alle opere eterne. La sua gente vi fatica senza amarezza: la stella dell’alba è salutata dal canto del boaro; quella del crepuscolo ancora sente cantare gli uomini che ritornano verso le case disperse, che il monte cova ed il cielo inazzurra. La divina natura spesso inspira il cantore popolare, che commosso trova un’alta espressione sulle labbra per la terra madre”:
“Sienti,sienti! La terra mi parla chiani / sienti sta mamma antica / ca mi chiami e mi vole se songh luntani!”
“Per la gente lucana la maggior vita è all’aperto, la sua primavera è gagliarda, tutta vissuta nei riti agresti della semina, della mietitura, della vendemmia.I contadini di Maratea e di Acquafredda, a breve distanza dal classico lido dei templi pelipteri immortali di Paestum, come quelli delle colline del Mare Ionio, così del Pollino, Volturino, Areoso e Vulture o lungo il Bradano, Basento, Agri, Sinni e Ofanto, al tempo della mietitura del grano, verso sera quando il sole sta per giungere al tramonto, sospendono il lavoro e si inginocchiano dinanzi al sole che muore. Nella dolcezza dell’ora il massaro intona una Ave Maria alla quale i mietitori rispondono in coro sollevando le falci verso il sole”.
“Le tradizionali visioni mistiche ridestano la gente nei campi il contadino è tutt’uno con la sua terra, alla quale la sua vita è connessa immutabilmente. La ama profondamente. Conosce il cammino della sua casa, conosce l’ombra dei suoi pagliai. Ogni angolo dei suo campi, ogni fossatello, ogni vite, ogni olmo gli sono familiari ancor più della faccia della donna sua. E questo gli basta. Egli non può far passare il giorno che non percorra i suoi campi fra le siepi ben tenute; va fra la nebbia o la neve; studia i frusoli delle sue viti, le gemme dei suoi peschi, il verde dei grani pallidi, che debbono cespire. Non chiede di più. Emigra; arricchito ritorna in patria e riprende a lavorare il suo lembo di terra, al quale ha dato una fisionomia, un nome e un cuore. Riprende l’opera di rinascita a favore del suo tempo”.
“Risuonano nel suo cuore di uomo antiche melodie. E così nei vecchi orti di Venosa ove grandi massi poligonali, fra torri, dominano il Vallone Ruscello, formando insieme il loro miracolo di poesia e di realtà, di presente e di passato, di rovine classiche e di architetture medievali, io potetti ascoltare un canto leggere, fresco, di seminatori”:
“Lu cieli si inondava di grazia / mentre la selva mormorava cupa. / A Vergine Maria s’assettò / all’ombra dell’auliv; tutt’e frasche / abbasciannisi vasaren’a Gesù. / Evviva Maria / e chi la creò. / Lu cieli si inondava di grazia / mentre la selva mormorava cupa”.
“La bella strofa mistica, come per un canto umbro, pareva munita, pel suo volo, di candide ali, fra i severi ruderi latini. Un altro canto mistico nel periodo dei pellegrinaggi a San Miche le del Gargano ed alla grotta di San Michele di Monticchio, richiama il culto bizantino per San Luca Corleone e per San Vitale – che dopo aver difeso leoninamente Armento contro i Saraceni, maceravano le loro carni nelle grotte basiliane del torrente Melfia (Vulture), ove dipinsero santi ieratici e simboli del Cristianesimo – e ricorda ancora la tradizione dei cavalieri longobardi e dei loro rappresentanti spirituali, i monaci latini, che ne arricchirono la leggenda introducendo nell’Italia meridionale il culto per San Michele Arcangelo, il cristianizzato giovane Sigfried uccisore del drago, al quale furono dedicati santuari sulle cime dei monti della Lucania”.
Qualcuno leggendo si chiederà dove poter trovare la Lucania, oppure il Cilento, paradossalmente ‘inesistenti’ su gran parte delle carte geografiche, dopo l’avvenuto accorpamento di queste regioni con altre o la cancellazione dai flussi di comunicazione di zone del territorio rurale, ritenute di scarso interesse turistico ed economico. Per trovare alcune notizie interessanti sono tornato a sfogliare la Treccani con davvero scarsi risultati, se non che si tratta di una sub-regione la cui popolazione è dedita alla pastorizia e all’agricoltura. Mentre ho trovato qualcosa in una ‘Guida d’Italia’ del Touring Club Italiano nientemeno che del 1928 in cui si annovera la Lucania, come un’antica regione italica successivamente compresa nella Calabria e, infine, annessa alla Basilicata. Ma solo perché la sua storia è legata alle numerose guerre combattute da Greci e Lucani, fra Lucani e Romani contro Pirro e Annibale seguite da grandi devastazioni del territorio, niente di più.
Quel che verosimilmente rimane di questa regione, è infine un ‘amaro’ che viene regolarmente pubblicizzato in TV. Ovviamente non può essere solo questo, mi sono detto, ne vale la dignità di un popolo autoctono già famoso nell’antichità per la produzione artigianale della ceramica, sono famosi i vasi lucani, in cui si distinse per la sua qualità e il livello artistico. Poco o quasi niente rimane della conoscenza degli usi e costumi dei Lucani e dei Cilentani, letteralmente ignorati nella grande “Storia d’Italia” dell’editore Einaudi che, nei volumi dedicati a ‘I caratteri originali’ e ‘I documenti’ fa riferimento solo alle popolazioni della Basilicata e distrattamente alla Lucania in quanto agglomerato della prima, dacché la Lucania e il Cilento verosimilmente non esistono:
“Non si deve certo disconoscere che vaste aree contadine e pastorali del Sud sono rimaste sostanzialmente escluse dal contatto con le egemonie urbane e con le ‘città contadine’ ed altre ne abbiano subito solo marginalmente la pressione, ma è tuttavia ipotizzabile che il particolre ordinamento socio-economico del Sud abbia potuto mettere in movimento processi trasformativi della cultura tradizionale in grado di riprodursi attivamente lungo un arco temporale assai lungo, considerando la compresenza di altri elementi e il fatto che la tendenza a organizzare su base urbana la società contadina permane, nel Meridione, fino a noi. A questo elemento un altro può essersi congiunto nel determinare una particolare disposizione della comunicazione orale del Sud verso moduli che oggi ci appaiono assai prossimi a forme della ‘poesia culta’ della prima età della nostra storia letteraria.”
“Se infati osserviamo come quei caratteri ‘culti’ paiono essere emergenti più in Sicilia che nelle altre regioni meridionali e come la connotazione più ‘profonda’ e ‘primitiva’ il nostro Sud la trova non già nei suoi territori più meridionali ma piuttosto in un’area, per lo più interna, che comprende Campania, Puglia, Lucania e Calabria settentrionale, possiamo immaginare che anche quel processo di tardiva rilatinizzazione, che i linguisti hanno rilevato in Sicilia e nella Calabria meridionale, possa aver agito nel senso di caratterizzare in modo più ‘moderno’ una parte almeno degli oggetti comunicativi. In una simile prospettiva si può allora ipotizzare un duplice indirizzo d’influenza (dalle città meridionali verso le campagne e dalla Sicilia verso il continente) sulla cultura ‘arcaica’ del nostro Sud, con le conseguenze abbastanza sorprendenti che oggi ci è dato di osservare.” Ciò per quanto concerne le informazioni contenute in “Enciclopedia” (Einaudi 1973).
Tuittavia ritengo autorevole quanto scritto da L. M. Lombardi Satriani (*) sulle possibile ‘tecniche di distruzione di una cultura’ cioè, di un vero e proprio etnocidio a discapito di alcune popolazioni che assistono alla negazione e spogliazione della propria espressione culturale. Quando, a fronte di una cultura sommersa pur comprensibilmente autentica che pur andrebbe finalizzata alla comprensione di un ‘vissuto’, anche se in certi casi inconsapevole, da tutti, in ragione d’una sua comprovata esistenza territoriale.
Sommersa come lo è una certa religiosità commista di antiche superstizioni che sopravvivono nel sacro e nel divino che, ancora oggi sono parte integrante del quotidiano, sintomi di una tensione verso il sacro che il cristianesimo ha storicamente individuato e da sempre incanalato verso una religiosità autentica che si professi più autentica. Per quanto è altrettanto vero che questi agglomerati esistono e sono sempre esistiti, come bisogni non materiali che il godimento di sempre maggiori beni di consumo non riesce a soddisfare, anche se la cultura industriale li ha spinti ai margini, svalutati, soffocati, bollati dentro il loro stesso alone del ridicolo che verosimilmente li ha maturati.
Ma è tempo questo di restituire allo spirito quello spazio che gli concerne con un canto tradizionale raccolto presso un bracciante agricolo di S. Marzano, in cui la discendenza da antichissimi riti di morte e resurrezione, accentuate dall’uso melodico e una metrica insolita, fanno di alcuni canti veri esempi di grande rilevanza dell’espressività popolare:
“Né Carnuvà, pecché si’ muorto” (tipico lamento rituale per la morte del Carnevale)
“Né Carnuvà pecché si’ muorto / che nce vogliono ‘e sorde belle p’e schiattamuorte / che ggioia / t’aggio sentut’o o rummore r’re campanielle / mo se me vene ‘o cavallo ‘e puleciello /che ggioia / t’aggio sentut’o o rummore r’re carrettelle / mo se me venen’ ‘e femmene co’ ‘e canestrelle / che ggioia”.
L’espressività dionisiaca del ritmo, caratteristica di alcune danze più antiche relative alle feste organizzate in onore della divinità pagana, può essere ricondotta alla funzione originaria di scansione musicale e coreutica all’interno del Carnevale sotto la denominazione generica della ‘tarantella’, accomunata ad altre danze ‘taranta spagnola’, ‘tarantulata pugliese’ ecc. in cui la particolare diffusione dell’organetto come strumento d’accompagnamento la fa da padrone. L’originalità del canto che segue sta nel fatto di elencare una serie di strumenti che variano da luogo a luogo e che ci permette di connotarne l’uso:
“Caro cumpare” (canto sull’organetto, chitarra, tamburello, campanelli)
“Caro cumpare che bai sunanno vaco sunannu lu viulinu comme lu suoni lu viulinu (uè cumpà) minghillu-minghillu fa ‘u viulinu don-don-don fa ‘u campanone dan-dan-dan fa la campana din-dindin fa ‘u campaniello e dipidindà fa ‘u tamburiello … Caru cumpare che bai sunanno vaco sunannu la rancascia comme la suoni la rancascia (uè cumpà) t’ ‘o ‘ncascio t’ ‘o ‘ncascio fa la rancascia te ‘mponno te ‘mponno fa le zampogne bai e bbene l’urganettu nze-nze-nze fa la chitarra minghillu-minghillu fa ‘u viulinu don-don-don fa ‘u campanone dan-dan-dan fa la campana din-dindin fa ‘u campaniello e dipidindà fa ‘u tamburiello … Caru cumpare che bai sunanno vacu sunannu lu cuornu re caccia comme lu suoni lu cuorno re caccia (né cumpà) e musciu e bbuono t’ ‘o sbattu ‘mpaccia ecco ca suona lu cuorno re caccia”.
Ed ecco cosa ci dice un vecchio libro scolastico sulle “Regioni d’Italia” sulla Basilicata allorché, superate le informazioni sul clima, la flora, la fauna e l’aspetto orografico del territorio, l’industria e l’artigianato, ci ricorda le principali città come Potenza, Matera, Avigliano, Melfi, Maratea, Piosticci, Tursi, Acerenza, Tricarico Montescaglioso con le rovine della Magna Grecia, così come Metaponto (dove insegnò Pitagora), e che sulle monete rinvenute (Lucania) appare il simbolo della spiga d’orzo, un tempo sacra a Cerere e simbolo della regione. Un solo sporadico accenno è dato sulla Lucania:
“isolata fra i suoi monti, percorsa da profonde vallate di difficile accesso che in tempi antichissimi vide giungere gruppi di ‘coraggiosi’ che spingevano avanti le loro mandrie e trasportando gli utensili agricoli, e che quindi vi si stabilivano attratti dalla bellezza naturale del luogo. Mille anni prima di Cristo giunsero i Lucani; più tardi i Greci, i Goti, i Longobardi, i Bizantini che ne cambiarono il nome in Basilicata da ‘basilikos’ che in greco significa ‘funzionario imperiale’.
Ancora oggi la più grande personalità lucana è il poeta latino Orazio Flacco (Venosa 65 a.C. - Roma 8 aC.) autore di Epodi e Odi, Satire ed Epistole appartenenti al genere lirico. Per saperne di più ho sfogliato quell’incredibile documento storico in due volumi che “Antica Madre” (AA.VV. Garzanti-Scheiwiller 1989) ha dedicato alle genti italiche: “Italia: Le genti della Basilicata antica”, che ci informa sui Lucani anche detti Enotri o Coni di origine arcade, forse discendenti da Sparta, già presenti attorno al 1800 a.C. quindi agli inizi dell’età del bronzo. E successivamente allo spostamento di gruppi etnici dalla Campania alla Sicilia a partire da un certo momento (e dunque da un certo mutamento culturale profondamente ellenizzato), in cui si identifica la fisionomia culturale delle rispettive popolazioni insediatesi nelle regioni meridionali, fra cui i Sanniti in Campania e i Lucani nell’area di Metaponto.
Poco o nulla è detto delle profonde trasformazioni avvenute nell’espressione del sentimento religioso e ancor meno degli strumenti musicali utilizzati nei rituali funebri e nelle feste calendariali in questa zona così sentite profondamente. Tuttavia, per quanto concerne la grande permeabilità culturale che ormai accomuna tutto il mondo italico meridionale, corrisponde una sostanziale unificazione dello scenario culturale si conosce l’esistenza di qualche sporadico flauto di canna (Eboli), della ciaramella (Auletta), dell’aulos a due canne forate, delle nacchere cilentane d’importazione ellenistica, e la cosiddetta ‘tromba degli zingari’ detta anche ‘marranzano’ presente in tutta la Magna Grecia.
Lo strumento importato probabilmente dall'Asia dalle popolazioni nomadi è conosciuto anche con il nome di ‘scacciapensieri’, è costruito in metallo a forma di un piccolo ferro di cavallo, con al centro una linguetta pur’essa di metallo fissata ad una sola estremità al telaio, viene fatto suonare tenendolo tra i denti e facendo vibrare con un dito la linguetta, la cui ‘nota’ può essere in parte modulata variando la forma della cavità orale attraverso il movimento delle guance e della lingua ed usata come accompagnamento negli intervalli musicali nel canto, insieme alla chitarra battente e al tamburello.
Sebbene la trascrizione dei canti non tiene conto delle riprese e delle ripetizioni di temi pur numerosissime, sia nella sua complessità e sia nella varietà, ciò avviene per nuclei musicali separati da brevi pause, attraverso una peculiare successione per ripetizione-cumulazione di un verso dopo l’altro, per cui si collegano in modo frequente di esecuzione, ma spesso anche per bruschi scarti su altro tema o, con improvvisazioni occasionali, tipici del cantare popolare che prevede l’intervento dei presenti secondo la disposizione soggettiva dei cantanti. Tutto ciò spiega in parte la variabilità del contenuto delle sequenze e la successione ininterrotta, ad esempio nella ‘tammurriata’ (canto e ballo alla tammorra) e/o della ‘pizzitata’ eseguita sulla chitarra battente. La nota ‘pizzitata’, termine che designa la tarantella utilizzata nel Salento per l’esorcismo coreutico-musicale nella terapia del ‘tarantismo’, anche conosciuta col nome di ‘pizzica’.
Allo stato della ricerca etnomusicologica si ignora se e quali connessioni e interrelazioni possano essersi sviluppate in passato fra ‘pizzica’ e ‘pizzitata’, la cui esecuzione tuttavia risente idealmente di un solo organico strumentale in accumulo di una serie di strumenti diffusi nell’area cilentana, sui quali una volta la ‘pizzitata’ veniva quasi certamente suonata durante le cerimonie pubbliche lucane: “..una mescolanza di cattolicesimo popolare e di relitti di forme religiose antico-arcaico connessi con i diversi momenti che regolano il mondo agricolo.
“ Tra le feste del ciclo dell’anno ‘carnevale’ e ‘capodanno’ hanno in gran parte hanno conservato caratteristiche abbastanza integre ed autonome. […] Tra queste ultime si pone il ‘giuco della falce’ che ha luogo (almeno fino a pochi anni fa) a San Giorgio Lucano, in provincia di Matera, e che appartiene a quelle feste di mietitura diffuse in gran parte dell’Europa. Elemento essenziale di questo ‘giuoco’ è il mascheramento dell’atto del mietere con quello di una battuta di caccia a un caprone, personificato da un uomo ricoperto da una pelle d’animale. I contadini, fingendo la battuta, in effetti mietono il grano e stringono sempre più il cerchio intorno al capro fino a raggiungerlo e ad ucciderlo simbolicamente”. (C. Valente, op.cit.)
Le cerimonie a carattere privato più diffuse sono quelle magiche, soprattutto la ‘fascinazione’, la pratica ancora presente e soprattutto la memoria culturale ancora viva, nonché l’importanza dell’aspetto etnomusicologico, dovrebbero essere di stimolo per gli operatori culturali e di quanti sono alla ricerca di stimoli musicali, che dal ‘vivo’ del passato, giungono fino a noi a insegnarci quel certo virtuosismo creativo mai dismesso, e che ritroviamo in ogni regione limitrofa. Tuttavia un aspetto particolare e una certa diversità distinguono l’assetto della Lucania/Basilicata dalle altre regioni come la Sicilia o la Campania, pur dividendo con queste talune somiglianze e evidenti scambi, se vogliamo, invevitabili con la Iapigia per il grande dominio culturale che sul litorale ionico ebbero con le città della Magna Grecia, le cui superstizioni sopravvivono nel sacro e nel divino di oggi.
Con ciò si vuole qui offrire un prezioso materiale di demopsicologia con l’intento di studiare l’anima popolare e di offrire alcuni documenti dei valori spirituali della razza, senza escludere quelle che sono le tradizioni pagane tutt’ora ‘vive’ sul territorio. Molti paesi sappiamo, offrono un largo campo di osservazione per quanto riguarda i costumi, i canti, i riti occulti e l’arcano dei ricordi orali, che attraversano la favolosa antichità del medioevo.
“Una usanza senza dubbio del periodo di Metaponto, di Siris, di Heraclea, di Paestum, è il rito che si pratica lungo la costa jonica di Pisticci, di Policoro, di Nova Siri e sui colli del Senise, di Sant’Arcangelo, di Ferrandina, Colobraro (in Lucania), e di Calimera, di Melpignano e di Castrignano (nella Iapigia) e che consiste nella celebrazione delle ‘prefiche’ sui morti, anche dette ‘repite’ che, a somiglianza delle antiche ploratrici, piangono e cantano lungamente sui cadaveri dei defunti” (C. Valente, op.cit.).
A questa usanza l’etnografo Ernesto de Martino dedica nel libro “Morte e pianto rituale” (Boringhieri 1975), un intero capitolo: “Il lamento funebre lucano”: “Può sembrare strano che una ricerca storico-religiosa sull’antico lamento funebre rituale si apra con una giustificazione metodologica che riguarda una particolare indagine etnografica. […]Un procedimento così eccezionale, e a prima vista così discutibile, è certamente bisognoso di una giustificazione che riguarda la determinata ‘tecnica del piangere’ come quella messa in atto nel Sud, cioè un modello di comportamento che la cultura fonda e la tradizione conserva al fine di ridischiudere i valori che la crisi del cordoglio rischia di compromettere. In quanto tecnica (quella del pianto rituale) che riplasma culturalmente lo strazio naturale e astorico (lo strazio per cui tutti piangono ‘ad un modo’), il lamento funebre è azione rituale circoscritta da un orizzonte mitico”.
“Al contrario i relitti folklorici del lamento antico ci permettono ancor oggi di sorprendere l’istituto nel suo reale funzionamento culturale: e ciò che la documentazione antica ci lascia soltanto intravedere o immaginare, cioè il lamento come rito in azione, la documentazione folklorica ce lo pone sotto gli occhi in tutta la sua evidenza drammatica, offrendoci in tal modo non sostituibili opportunità di analisi. […] Tuttavia anche se il lamento funebre folklorico ha perso il nesso organico con i grandi tempi della religiosità antica, e anche se i suoi orizzonti mitici sono particolarmente angusti e frammentari, esso può fornire ancora, almeno nelle aree trattate e di migliore conservazione, utili indicazioni per ricostruire la vicenda rituale che, nel mondo antico, strappava dalla crisi senza orizzonte e si reinseriva nel mondo della cultura autoctona.” (De Martino, op.cit.)
A questo proposito, per meglio comprendere la lezione di De Martino, riporto qui un passaggio riferito alla ‘morte’ di Vincenzo Boda (*) “La religione sommersa” (Rizzoli 1986): “La ripercussione attraverso la parentela (che pure si esplicitava come dolore per la perdita, diventava, ed era, un ‘crisi di gruppo’ di appartenenza. Ciò scaturiva da certi comportamenti rituali (mitici e sociali) nei quali certamente agivano , e interagivano, componenti diverse da quelle mortuarie. Ma non c’è dubbio che in tali mitologemi e in tali comportamenti rituali, sia a livello di crisi collettiva che accompagnava ogni morte, sia a livello della tensione e dell’angoscia che apparivano radicate nel sentimento dell’incertezza e della precarietà esistenziale. La vicenda ‘morte’ aveva ed ha una motivazione predominante e prevalente, tanto che non mancano studiosi i quali, a livello di ipotesi, fanno risalire l’origine della religione al tema della morte. In questa prospettiva, le mitologie dell’al di là, della sopravvivenza, dell’immortalità, i riti di seppellimento, di placazione, di venerazione dei morti e degli antenati si fondevano nella comune funzione di risposta all’illogicità della morte; diventavano tentativi per sostituire la sicurezza alla precarietà. Così il mito assolveva una funzione salvifica nel senso che, reagendo attraverso l’ideazione mitica, l’uomo e il gruppo si riscattavano dall’angoscia esistenziale e risolvevano la crisi emergente da ogni singola morte.”
“Il rito – prosegue Vincenzo Boda – doveva invece soddisfare sia l’esigenza istintiva, immediata, di esprimere il dolore e il dramma del distacco (che era più intensa e naturale quanto più prossimo era il grado di parentela o il rapporto di convivenza e di consuetudine), sia quella di risolvere il problema di fondo che stava nella crisi e nell’angoscia provocata dall’evento. Entro queste linee vanno pure riletti i miti dell’origine della morte e dell’immortalità primordiale, i miti di trasformazione della morte in passaggio all’immoertalità (si pensi, per esempio, nell’ambito dei miti più conosciuti ed elaborati, all’Ade pagano, ai misteri orfici, alla trasmigrazione delle anime ecc.), i miti della sopravvivenza (si pensi ai fantasmi, agli spettri, ma anche ai morti che ritornano, alle anime, alle ombre). Entro tali linee vanno pure riletti i fenomeni di ritualizzazione del duolo e del lutto, trasformati da ‘fatto primario istintivo’ (dolore per la morte e per il distacco) in una manifestazione che, seguendo schemi obbligati, tradizionali che, non solo si rende necessaria anche quando il fatto istintivo viene meno, ma può essere delegata a terzi, come a detentori delle giuste tecniche del duolo, appunto: la prefiche.”
Scrive ancora C. Valente: “Ma, oltre alle laudi severe della Settimana Santa, fra i monti della Lucania risuonano altri canti mistici, lì ove c’è anima, c’è sentimento, c’è dolore, ove c’è finalmente poesia. [...] Come nelle laudi dei poeti umbri, nei canti mistici l’espressione nuda del sentimento ha tutto l’impeto e il singulto della pura verità umana e l’amore divino non è che un riflesso dell’amore umano.” Richiamo qui di seguito un leggero e fresco canto mistico della gente lucana:
“Stedda Mattutina”
“È fatte juorne e sie lu benvenute / beneditte sia Die ca l’ha criate / Ti preje Gesù mje de darme aiute / concedami la pac’e la virtute / inta a chesta santa sciurnate.”
Famosi sono anche i riti nuziali, quelli per il Calendimaggio, le Cavalcate, le Processioni e i Pellegrinaggi che vengono talvolta riproposti con grande partecipazione popolare, come: “Il carro trionfale di Matera”, “Il pellegrinaggio di Fondi” e “La processione dei Turchi a Potenza”; quella per il “Corpus Domini al Santuario di Viggiano”, e la “Leggenda dei petali” (I pip’l): È questa una leggenda di alta ispirazione mistica in cui si narra: che nei tempi del martirologio cristiano una popolana di Potenza, nel lavare la biancheria giù al fiume Basento, ricordandosi che là vicino era stati suppliziati dodici martiri cristiani venuti dall’Africa, volle prendervi qualche loro reliquia – come scrive Paolo da Grazia (cit. Valente): “Raccolse dei fiori inzuppati del loro sangue e se li portò a casa e li conservò in una pezzuola di candido lino. Dopo parecchi anni trovò i fiori ancora verdi come se fossero stati colti allora. Stupita li portò ad una asceta perché li conservasse in chiesa. Il ministro di Dio così fece e li conservò. E da allora ogni anno, il primo di settembre, in occasione della festa per i Dodici Martiri, si mostranvano al popolo i fiori verdi che aprivano i loro bocciuoli o petali, detti “pip’l”. Per questa tradizione d’ispirazione religiosa e di candida fede migliaia di giovinette del popolo, per la festa del Corpus Domini, dalle finestre e dalle terrazze di via Pretoria, adorne di damaschi, di tappeti e di coperte di seta, come un leggiadro e fantasioso mosaico di broccati, di oro e di ricami, salutano il passaggio del Santissimo sollevato dal Vescovo sotto una pioggia di fiori.”
Propongo quindi un canto ‘umoristico’ legato a “Lo scaricavascio” di Melfi con significazione storica risalente al 1799, epoca in cui i maggiorenti melfitani, in luogo di organizzare una strenua difesa della città, preferirono aprire le pèorte di casa propria alle orde devastatrici del Cardinale Ruffo. L’atto ritenuto vile, urtò il sentimento della popolazione che, non potendo altrimenti esprimere la propria indignazione in quei tempi di scarsa libertà, riuscì a significare nel canto detto dello ‘scaricavascio’, la insicura stabilità del dominio paesano che i maggiorenti, i sanfedisti, avevano ottenuto dal favore del Ruffo in cambio della resa. Il gaio ritornello – (come scrive A. Cantela nel libro di Valente) – è cantato da otto giovani contadini, quattro dei quali danzando sostengono il peso degli altri quattro, che si levano in piedi sulle spalle dei primi, tenmendosi stretti l’uno all’altro con le braccia. Nel balletto faticoso delle improvvisate torri umane che ne conseguono, la fertile fantasia popolare ricamò alcune strofe d’occasione i cui versi rivelano ai dominatori che se il popolo si sottrae al gioco del loro dominio, il capitombolo è inevitabile. Lì dove ‘Pizzic’Andò’ sta a significare: con tutto il pericolo, balliamo pure! “Canto per lo ‘scaricavascio’”
“Vuoie ca state da sopra / Statev’attinte ancora: cadite … / Se si spezza lu ram di sotto / Ve ne sciate di capisotto. / Lu vide lu scaricavascio? / Lu vide e sembra mo / Pizzic’Andò, pizzic’Andò.”
Ma in Lucania si canta anche all’amore Valente: “Il canto sgorga su dal cuore innamorato e trae ispirazione dalle tempeste dell’anima. Il popolo canta ed esprime la sua consolazione della fatica, la gioia del vivere e la sua fede con immagini delicate e pensieri pieni di tenerezza. A volte la poesia si fa profonda, più vivace e dolorante e accenna a intime lotte in descrizioni di vita popolare che raggiunge un alto valore lirico. Nenie nostalgiche e canzoni d’amore rivelano una malinconia pensosa, che è poi l’essenza dell’anima lucana, gaia talora solo in superficie, come nell’esempio di ‘fronna’ che segue:
“Canzuna nova” (in C. Valente, op.cit.)
“Voghhiu cantari ‘na canzuna nova, pa gilusia ca mi struggi u core. Gioia, l’amuri toj strittu mi teni! Vurria tuccari l’unna ri lu mari vurria vulà pi li cieli sireni. Vurria cent’uocchi pi ti riguardari milli cori pi ti vulì chiù beni. La gilusia mi consumi u core e ti voghhiu cantà a canzuna nova.”
Molte sono le canzoni d’amore cantate come messaggi da una gioventù priva di ogni distrazione, il cui pane e sale della vita era (un tempo) nient’altro che fatto di ansie e di lavoro, di stati d’animo e di desiderio, di sdegno e d’odio che si susseguono con vigorosa autenticità in una vena poetica e schietta, spesso insolita, nella giovinezza ardente … “E sia benedetta questa luce fatta di passione, di sentimento puro inestinguibile”. Tuttavia la Lucania e tutta la Basilicata non è solo questo. Con questa ricerca pur breve, si può ben immaginare quanto ancora ci sarebbe da dire, ma quest’oggi voglio con ciò salutare la gente lucana tutta e dare il benveuto a Matera città d’arte designata dall’UNESCO quale ‘Capitale Europea della Cultura 2019’. Ma è qui doveroso ricordare lo studioso Concetto Valente che voglio ringraziare per il suo libro più volte citato, dal quale ho tratto a piene mani ogni sfumatura, e che tra le altre interessantissime cose di cui ci narra, ho appreso talune meraqviglie nascoste della città Matera:
“Una nota possente del paesaggio materano [...] è dato dalle ben note gravine scavate nei tufi e nei calcarei compatti – nelle voragini che separano le doline delle murge scendenti a gradinata verso il mar Ionio. La città si distende sui declivi di due valli profonde scavate dalla natura nel tufo seguendone la forma ed il declivio, chiamate Sasso Barisano e Sasso-caveoso. È dominato il Sasso-caveoso da un irto e severo scoglio con ai piedi una chiesetta bizantina scavata nella roccia. E le case dei Sassi, in gran parte aperte nelle doline tufacee, sono costruite in modo che l’una serva di base all’altra. Serpeggiano ripidi viottoli fra abitazioni primitive dominate da rocce e con scalinate sostenute da rozzi archi rampanti., in cui le caratteristiche abitazioni trogloditiche sostengono spesso ampie e impervie vie che si incurvano fra i comignoli delle case, il cui interno è rivestito di intonaco bianco ed ha lo stesso arredamento della casa comune”.
“Del sentimento religioso della gente lucana, le cappelle, le edicole e le croci, presenti nelle costruzioni, ci parlano le leggende sacre, le grotte aperte nei cupi recessi del monte Vulture, del monte Raparo e delle gravine di Matera, [...] ma perché il ‘frutto’ dell’arte si colga, conviene attivare questo semplicissimo criterio: laddove fioriscono forme speciali d’arte esse dovranno rinnovarsi, essere prese, continuate, adattate ai gusti dei tempi nuovi, senza che perdano nell’uso nulla della loro essenza, della natura propria della razza che vi impresse spontaneamente i suoi caratteri, le sue intime tendenze, le sue idealità.”
E con questo commiato, che a me sembra il messaggio più cospicuo e appagante dell’opera di Concetto Valente, scomparso nel 1954, al quale l’insigne Paolo Toschi ha voluto lasciare una dedica in cui gli riconosce la nobiltà della figura di studioso e di poeta, saluto e ringrazio il figlio Giuseppe che ha permesso di accedere all’opera del padre con la già citata sua pubblicazione.
Nota:
Concetto Valente (1881-1954) nativo della Lucania, fu direttore del Museo Archeologico Provinciale della città di Potenza, dal 1928 al 1954 anno della sua morte; colui che più di tutti si occupò di arricchire le collezioni artistiche museali. Nel 1925 ottenne la medaglia d’oro dei “Comuni d’Italia” dal Ministro della Pubblica Istruzione; ancora la medaglia d’argento nel 1942 concessa sempre dal M. della Pubblica Istruzione per la diffusione ed elevazione della cultura e dell’educazione nelle arti e nella tutela del patrimonio artistico e storico della Nazione. Infine, nel 1955 è stato insignito della medaglia d’argento alla memoria, dal Presidente della Repubblica per i benemeriti della cultura. Nel 1932 curò la “Guida artistica e turistica della Basilicata” una monografia con testo a stampa, riproposto poi con aggiunte nel 1948.
Note bibliografiche:
“Guida d’Italia” - Touring Club Italiano, 1928. “Storia d’Italia” - Einaudi in ‘I caratteri originali’ e in ‘I documenti’. “Enciclopedia” - Einaudi 1973. “Antica Madre” (AA.VV. Garzanti-Scheiwiller 1989): “Italia”.
(*) Ernesto de Martino, “Morte e pianto rituale” - Boringhieri 1975; “La terra del rimorso” - “Sud e Magia” - Boringhieri 1976. (*) Vincenzo Boda, “La religione sommersa” - Rizzoli 1986. (*) L. M. Lombardi Satriani, sulle possibile ‘tecniche di distruzione di una cultura’. Annabella Rossi in “Basilicata”, in “Santi, Streghe & Diavoli” a cura di L. M. Lombardi-Satriani, Sansoni Editore 1973.
Si ringrazia inoltre il Teatrogruppo di Salerno per le note e la trascrizione dei testi; Gelsomini D’ambrosio per le illustrazioni di copertina e i disegni che accompagnano i booklet davvero preziosi che accompagnano i due LP; l’Editoriale Sciascia di Milano per la produzione del catalogo Albatros/Zodiaco; la Oedipos Edit. per il libro-album "Fantocci, principi e marchesi. Il Teatrogruppo di Salerno" (2011) , scritto e curato da Luciana Libero con un ottimo archivio di foto in bianco e nero che, a prescindere dalla valenza strettamente tecnico-artistica, restituiscono, fanno rivivere e ci lasciano ‘affascinati’ da uno dei periodi più ricchi e creativi della storia della nostra musica popolare.
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