[ Recensione di Sergio D’Onghia ]
Non accade spesso che un’opera poetica risarcisca in copia, ad ogni nuova lettura, il tempo dedicatole. L’impressione è quella di sentirti catapultato in una moderna parabola dei talenti e più investi, in termini di emozioni e sentimenti, e più ti sembra di riceverne in cambio. Alla fine dell’ennesima lettura, ne esci fuori più ricco e più saggio, grato per quanto l’autore ha saputo ricreare in te, con la semplice alchimia del suo verso. Tutto questo è accaduto con la lettura dell’ultimo lavoro di Giacomo Leronni, Le dimore dello spirito assente, pubblicato nel giugno scorso dalla casa editrice puntoacapo. Ma ripartiamo con ordine, cercando di chiarire il senso di quella suggestione che ho chiamato “alchimia del verso”.
«Tu non ricordi la casa dei doganieri…»: con questo semplice incipit antiletterario, direi quasi da conversazione, si inaugurava la stagione matura dell’ermetismo che è, poi, il crocevia da cui si diparte la poesia italiana del ‘900. Insieme a Montale, autore del verso, ritroviamo colui che, a ragione, è considerato il padre dell’ermetismo, Giuseppe Ungaretti. A loro ci sembra che G. Leronni sia, ma solo in parte, debitore delle novità linguistiche di questo suo secondo lavoro. Il verso scarno, ma evocativo, in cui la parola “canta” (ma sarebbe più corretto dire in cui la parola “suona”), si presenta teso come pelle di tamburo, o più spesso levigato e reso sottile corda per gli arpeggi di un’anima che, in molti punti, appare lacerata. È questa la “dimora” (per parafrasare una parte del titolo) in cui Leronni va a cercare la sua voce, i suoi suoni. È l’autore stesso a metterci in questa direzione nella Dichiarazione di poetica, che è il primo componimento della raccolta. Esso ha il potere miliare di segnare il cammino, affatto piano, di questa silloge. L’essenziale punteggiatura, poi, ha il merito di ricordarci che la poesia di Leronni, come la grande poesia del ‘900, «annegando gli orpelli», allentando i morsi della «ridondanza» (sono parole sue ), procede per immagini e suoni; istantanee che hanno il potere di immortalare una scelta linguistica originale, abrasa e piallata sino alla trasparenza. Eppure, nonostante la trasparenza, tutto rimane misterioso. La poesia è davvero tale quando porta in sé un mistero; e allora, ci si domanda, di quali elementi si compone questo “mistero” che abbiamo colto tra le righe di Leronni? La risposta è tutt’altro che agile. Innanzitutto indichiamo il silenzio, come quello che ritroviamo tra i tanti, cercati e voluti, spazi bianchi che dilatano le strofe dei componimenti. Sono questi spazi bianchi a fare da “membrana” narrativa alle schioccate secche e tese di quei versi che descrivono, con una precisione spietata, i gesti del quotidiano. Come su una tavolozza ideale, l’autore, da buon tintore di parole, usa questi segmenti bianchi per diluire la materia del quotidiano con pigmenti d’infinito. Come sulla tela di un impressionista, ci regala immagini sfumate o allusive, toni cromatici diafani o decisi, macchie d’ombra o sanguigne. Poche pennellate servono per riempire di “tenebra” o di “luce” il bianco spazio poetico che unisce, e al tempo stesso divide, le strofe.
Occorre pazienza, tempo e spazio per sistemare le cose, per dare ad ogni dolore il proprio risarcimento, per restituire ad ogni fatica la giusta ricompensa. Perché serbare questo segreto costa sempre fatica, la stessa che ci vuole per sopportare – come ci dice l’autore - «un sole corrotto» o «minimi termini di discussione / pause, avanzi». La stessa fatica che ci vuole – continua Leronni - «per conoscere», «per arrivare a lambire / la volta del tempo», senza esserne risucchiati. La stessa che occorre per affrontare il patibolo di un nuovo giorno, nel tentativo di trovare un senso a tanta finitudine a cui il poeta sacrifica corpo e vizi pur di preservarsi l’anima. Scrive il nostro autore: «La cicatrice al polso del mattino / il concetto / che cerca le sue case // libero nel buio / lo spasimo dell’offerta // il vizio mi ricuce // stordito, ancora riluttante // attimi prima del cappio» (pag. 80).
È vero quello che ci suggerisce l’autore quando tira fuori il collo dal nodo scorsoio del quotidiano: poche cose occorrono per essere, per capire che, in fondo, si è una «coscienza di fibra», una «docile fibra dell’universo», per dirla ancora con Ungaretti. Una fibra che brucia di febbre, come il grano di giugno, che «ascolta la canzone del fieno», quando «gli occhi si velano d’estate», ma che – inevitabilmente – è destinata , come tutti noi, ad un «futuro di putredine». Fortunatamente, però, molte cose ci ancorano alla vita, come una «…arteria che non trova posto / nel corpo.» e a dispetto della «pace metallica» e dell’«indifferenza del giorno», vorrebbe irrorare di passione i sensi o ardere ancora al sogno di un ideale, anche a costo di rimane ustionati sino ai «nervi giulivi». Mi pare sia questo il gioco misterioso ed alchemico della prima sezione dal titolo Lectio Facilior, che ha il merito, tra l’altro, di prepararci alla seconda lezione dall’oscurità, quella più difficile, che l’autore ci propone dopo una lettura solo apparentemente più agile. La seconda sezione, infatti, lungi dall’apparire in contrapposizione alla prima, come i titoli lascerebbero intuire, si apre con la stessa forza e lo stesso sacrificio occorsi nella prima parte «per saldare l’alba / al tramonto» e che adesso, in questa seconda lezione, ci spingono nella notte affinché, con nuova ed eterna fatica, l’alba partorisca le sue ipocrisie quotidiane. Scrive l’autore: «Dispongo le tempere del giorno / poi le ripongo // il meccanismo s’inceppa / ma io insisto / faccio forza, prevalgo // sorge l’alba // senza che alcuno sappia / spingendo, tendendo i muscoli / altre ore di falsità sono pronte.» (pag. 25).
A questo punto, una breve riflessione critica sui contenuti della raccolta potrebbe riservarci diverse verità, da contrapporre alle «ore di falsità» del verso precedente. La raccolta si presenta pregna di elementi sensibili a cui si contrappongono spazi altamente spirituali, persino teosofici. Parole come “carne”, “corpo”, “occhi” - che si ripetono spesse volte - e poi ancora “nervi”, “sangue”, “arterie”, “mano”, “fibra”, “orecchio”, “osso”, “vena”, “gomito”, “costola”, “pelle”, “cellule”, conferiscono alla poesia di Leronni una precisa consistenza materiale, quasi a ricordarci che essa non è linguaggio degli dei. Altrimenti gli uomini non la comprenderebbero, come diceva Croce. Essa esce dall’uomo e ritorna nell’uomo, ma per farlo deve attraversare il corpo per intero, sino alle sue estreme periferie cellulari. Insieme a questi fondamentali elementi materiali, altre due sostantivi aprono come chiavi le serrature delle stanze di queste dimore dello spirito assente: sono rispettivamente il “fuoco” e la “luce”. La prima parola compare nella raccolta undici volte, la seconda ben dodici. Sono, è inutile dirlo, i cardini della silloge. Il fuoco è la sostanza primordiale che domina tutti gli altri. Il suo calore incendia e plasma gli elementi, modellandoli in forme che meglio s’adattano al sentire poetico dell’autore. La fiamma brucia la carne, la ustiona, consumandola lentamente come una passione, e conferisce alla raccolta una grande sensualità. La “luce”, invece, è meno calda del fuoco e compare nei versi quasi a ristabilire un ordine morale tra le cose: una sorta di catarsi, dopo tanta corporeità. Una redenzione che può giungere anche dopo una riflessione esistenziale: «un dito di morte / lava», ci suggerisce con consapevolezza il nostro autore, affinché il corpo non si decomponga tra la noia del quotidiano. È il contrasto, perciò, a dominare la raccolta, anzi direi che tutto il libro è pregno di contrasti, come «un osso fatto di aria». Ancora un esempio: è una raccolta in cui, come si diceva, si nomina la luce, eppure la dimensione che pare dominare è quella del buio. Scrive Leronni: «sono dietro l’angolo / mi vedo oltre il gomito delle stelle // invocato per portare buio.» (pag. 48), perché la «luce mirabile / è quella che spegne.» (pag. 49), quando «il piede della notte» avanza sull’«uscio del sonno» nell’ora, forse, dei rimpianti. Ecco un nuovo ospite di queste dimore, il rimpianto, quest’ultimo abilmente celato dietro le tante immagini disegnate dagli scarni tratti delle parole. Perché - l’avrete ormai intuito - sono loro le vere narratrici della raccolta. Sono loro a salire in cattedra per impartirci queste lezioni estetiche. Vediamo come. Nella silloge la famosa divisione tra contenuto e forma pare assottigliarsi, sino a confondersi del tutto. Materiale e immateriale si uniscono e si scambiano, si fa fatica non tanto a riconoscerli, quanto a sistemarli ed utilizzarli nella loro funzione semantica. In questa alternanza di rimandi, scambi e sostituzioni fisiche e metafisiche si gioca il gusto del libro. Anche il poeta sembra suggerircelo: lui non s’immischia «con la forma che declina // con la sostanza che diserta…» (pag. 94). Si rompe – come vuole la tradizione moderna, e della poesia francese contemporanea, in particolare - il rapporto tra significato e significante, in cui l’unica certezza possibile è il suono e l’unica conoscenza reale è quella semantica. Eccone alcuni esempi: «mentre luccicava / il peso delle ore:» oppure «lacrime / dagli archivi del marmo…», o ancora «Senza dire, slogando // senza parlare, mietendo // puntando il senso / verso i sassi…» (pag. 53).
Al di là dei confini della parola sembra regnare il nulla: l’unico spazio percorribile e intellegibile è quello all’interno della parola, sia essa pronunciata oppure solo significata. È a questo punto che il poeta fa appello a tutti i suoi sensi, li richiama, li scuote, li pone al servizio di una conoscenza che sembra non aver sufficienti parole (o certezze) per descrivere e spiegare la realtà. Ma lui non si scoraggia. Ci prova e ci riprova e per farlo chiede aiuto, ancora una volta, alla luce, da sempre sapienza e conoscenza di uomini e cose. Allora «sia la luce», pare dire il nostro. Il risultato non è quello reperibile nei testi sacri, ma umanamente consola tutti noi che ci siamo lasciati cacciar fuori dall’Eden, ammaliati dal fascino di altra luce e di altri colori. Sentiamo Leronni: «Lo descrivo il colore / e s’incaglia // poi di soppiatto / rientra nella norma // la tentazione di captarlo / lo incarcera // la voglia che lo addita / lo annulla // richiamo la pupilla / ritiro la tovaglia del senno // lo lascio allora / spoglio, il colore // innegabile» (è il testo a pag. 51, citato per intero). E davvero non si può negare che il desiderio dei colori è ciò che seduce e, in sua assenza, ci spinge a cercarlo. In definitiva, è ciò che ci rende appena sopportabile il peso del buio. Ma il buio va attraversato. La notte deve passare, col suo carico di segreti che tormentano «l’uscio del sonno», in cui l’unico ristoro possibile pare venire dal passato o, meglio, dal ricordo del passato. Solo in esso il mattino è principio del giorno, non fatica della notte o risalita dall’alba. Solo nel ricordo la sera non è più preludio del buio e della notte, oppure ombra per la mancanza di luce. La sera, con un gioco di consonanze, adesso «reca l’ambra». È la giusta ricompensa da pagare alle muse della memoria per aver riportato intatto l’incanto del ricordo: «La pena è elusa / il ricordo s’incasella:», ci suggerisce l’autore. Esso appare un approdo senza condizione, un’isola calma e paziente sulla quale è inutile affrettarsi tanto il dolore, come la morte, prima o poi verrà. Allora perché dar premura al “carnefice”? Perché distrarlo? «Il guanto del dolore» reca in sé «la disfatta». Al poeta non resta che registrarlo, come un diario di bordo: «ecco parla / ed io registro» - scrive Leronni – «arrivo da voi, piccole mosche / che trattenete il fiato…» per portarvi la mia voce. È un cammino irto di ostacoli e profondo di abissi metafisici. Ma il poeta non può fermarsi, scivola per «chine taglienti» e come al solito, come sempre, «resiste», pur di «…accompagnare / tutto questo legno di ore / ad ardere» (pag. 57). Un nuovo sacrifico si prepara, ma è ancora la luce, che «Niente può separare / …dal chiodo //», «nell’ora inestinguibile / del palmo trafitto» a mostrarci «…arrendevole / la resurrezione.» (pag. 61).
La raccolta, così, ci appare pregna di elementi aguzzi e taglienti: “chiodi” – per l’appunto - e poi “lame”, “speroni”, “aghi”, “forbici”, “cunei”, “aculei”, “spilli”, “coltelli”, “artigli”, “spine”, che “tagliano”, “bucano”, “trafiggono”, “forano”, come in un quadro di Fontana. Il lessico, che è sempre un’impagabile chiave di lettura di una raccolta poetica, in questo caso è più che mai indicativo. Ha la funzione di destare, di scuotere, di pungolare il lettore che, così stimolato, diviene parte integrante della storia, una sorta di coautore: non più spettatore ma protagonista di quei fendenti e di quelle ferite. A questa prima lettura interpretativa, ne segue una seconda che è tutta simbolica. Il taglio, il foro, l’aculeo bucano la superficie dell’indifferenza e collegano mondi diversi. Li penetrano e li pongono in contatto. Lasciano che la luce filtri dalle fessure, con naturalezza ma inevitabile dolore. Le immagini poetiche, così, proprio come descritte dalla lingua dei versi, appaiono costruite a livelli, con stratificazioni verticali, dall’alto verso il basso o viceversa. Ecco l’importanza simbolica del foro come spiraglio di luce, che prova a farsi largo tra grovigli di immagini quotidiane, di «ore di falsità» tra convenzioni ipocrite di indifferenza pericolosa e atroce. Il poeta diviene una sentinella, con la sua baionetta appuntita fra i denti, pronto a forare il quotidiano nemico per guardare oltre, seguendo la linea Maginot della luce, avendo ricevuto precisi ordini dal suo spirito: sono le consegne dello sguardo da difendere sino al sacrificio estremo. Anche in questa seconda parte della raccolta le immagini fluiscono con una determinazione perfetta ed essenziale. Come in tutto il libro, del resto, la natura e l’uomo, nella sua totalità, si fondono e si confondono, tanto da non sapere più dove termini l’uno e inizi l’altro: è il trionfo dell’omogeneità, in un’osmosi con la natura che pare aver assorbito l’uomo strappandolo alla sua superficialità, al materialismo, ai cicalecci mediatici che popolano le nostre giornate, alle cibernetiche epifanie che abitano le dimore diserte dallo spirito. Scrive Leronni: è in questo tempo «il rischio di sprofondarvi // questo tempo senza gloria / questo rispetto spento // che rende illeggibile / l’impronta della guarigione» (pag. 135). Il nostro autore, però, ci ricorda che esistono ancora altre strade e altri «Percorsi di grano e ciglia / nell’insolenza» in cui ancora «freme il mare interiore». E continua, va avanti come sempre, non si scoraggia «Scava, vaneggia per le rive / della fioritura insensata», se paragonata alle infinite foreste di microchips che hanno occupato i nostri spazi visivi. Ma il poeta guarda oltre e ci invita a farlo. Ed ecco che compare «un bosco, una patina orante / agile il diamante / del suo sguardo // dipinge quella croce / che poi procede / incauta e scalza // lettera di gesso / che simula l’urlo» (pag. 71).
È questo, in ultima analisi, il messaggio che l’autore affida ai suoi versi. Un urlo di allerta contro le insidie del quotidiano, una tenaglia che pizzichi i nostri sensi, un ago che ferisca la nostra carne sino a farla sanguinare, affinché il dolore ci desti dal torpore e il rosso sia calamaio in cui intingere e segnare le nostre parole, la nostra voce. Ci dice il poeta: «Per te cerco l’orzo / la sua clemenza // e ti reggo ancora / al limitare della meraviglia / ma le mie parole / storpie, corrucciate // nonostante il silenzio / la pace tutt’intorno // senza il tuo morso / non ti diranno mai» (pagg. 73-74). L’urlo, così, diviene un invito mordace e solidale per trattenere l’armonia e il bello. Una leopardiana ginestra che fiorisca sul destino degli uomini. Un urlo forte, ma non disperato; un urlo d’amore che, nonostante tutto, ancora una volta si apra alla speranza fiducioso nel grande potere salvifico della poesia. Una nuova redenzione del cuore umano, perché il poeta sa bene che spingendo «con fiori, note e altro ciarpame // il buio esita / s’intossica // cede» (pag. 99). Perché il pericolo viene sempre dal buio e dal nulla, che è sempre in agguato, pronto a incenerire l’ardore di chi – come il nostro autore – sente di non vivere nel migliore dei mondi possibili. E, visto che l’abisso è sempre dietro l’angolo, il pericolo è quello di scivolarci dentro. Scrive Leronni: «digrada l’essere, si sloga / ciò che era annuncio // […] unge l’inquietudine / disperde i fiori // e intanto infetto // eccomi nel nulla / con voi» (pag. 96). Ma questa invocata alleanza, questa eroica resistenza è l’ultima frontiera possibile che la poesia disegna per tracciare nuove dimore allo spirito assente. È il tentativo, direi riuscito, di riempire di senso quel nulla che ci tenta al limite del baratro. Un passo indietro dal nichilismo imperante, sufficiente per permetterci di cambiar rotta, in attesa di riprendere tutti insieme il viaggio verso quell’eterna fiaccola che ci illumina, ci perdona e, infine, ci salva.