Pubblicato il 09/05/2008
Luigi Fontanella vive tra Long Island, Roma e Firenze. Ordinario di lingua e letteratura italiana presso la State University di New York, è poeta, critico, narratore e drammaturgo. Questa sua raccolta di poesie, scritta nell’arco di un settennio, tra il gennaio 2000 e il dicembre 2006, si apre con l’interessante capitolo intitolato “Fiori”, dove si leggono poesie dedicate ai fiori (Anemone, Camelia, Dalia, Geranio, Giacinto, Margherita, Rosa canina e Violetta) come altrettante figure femminili, con una scrittura che rende partecipe il lettore della sua confidenza con questi elementi naturali e rappresentativi, probabilmente, di altre relazioni umane: “Possiedi, Camelia, quella perfezione / d’amore che io non seppi far mia. / […]”. Il libro ha sicuramente una nota di merito, si legge volentieri e semplicemente, si ha quasi la sensazione di esserne gli autori: “Era tanto che / come stasera / non sentivo questo /soffio di rinnovata primavera. tanto che non m’appropriavo / di questo albume calmo di rinascita… / dov’ero stato tutto questo tempo? / […] / Tutto quanto abbiamo amato intorno a noi / non cesserà mai d’esistere.” Le poesie di Fontanella sono “leggere”, volendo mettere in risalto, con tale aggettivo, la dote dell’autore di esprimere, con semplicità di linguaggio e senza perdere la maestria del poeta, caratteristiche salienti ed evidenti della scena, del soggetto o dell’azione rappresentata. In tutta la raccolta, si avverte, e non dispiace, una caratteristica confidenza dell’autore con il lettore. Le sue poesie sono simili a un diario di situazioni, presenti o passate (si affaccia spesso al davanzale del ricordo), a cui si accompagnano percezioni e pensieri personali che il poeta condivide con chi legge; questo suo aprire al lettore (che diventa ospite tra i suoi versi) le porte dei propri pensieri, spesso legati ai ricordi, spiazza per la disarmante semplicità e assenza di ricercate complicanze poetiche. Specialmente nell’ultima parte del libro, le poesie di Fontanella fanno pensare a testi scritti in maniera occasionale (ma non lo sono), dettati dall’esigenza di fissare idee, è come trovarsi per caso tra le mani il diario di una persona che l’aveva nascosto da qualche parte con l’intenzione di non farlo leggere ad alcuno: “Ripenso a quei giocattoli abbandonati per distrazione, o per uso consunto, in coni d’ombra domestici; vecchi giocattoli che non riemergeranno più da quel loro silenzio; giocattoli muti, non più ravvolti in fasce innocenti”.
“Oblivion” significa oblio e dimenticanza, un titolo azzeccato che tradisce subito il carattere del libro che, come un diario, appunto, ha un vago sentore di nostalgia e di andati e dimenticati vissuti, rievocati dalla parola e dall’odore delle pagine dello stesso diario: “Torna indietro, se puoi, / anima in abiura, guàrdati / attorno in quest’aurora di bambini / adunati a riva, guardando al mare / per i loro destini. […]”. E s’intona bene, la tonalità e la atonalità di questo libro, con la variegata e omonima musica di Astor Piazzolla: “Oblivion”.
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