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Papez

Poesia

Claudio Pagelli (Biografia)
L’Arcolaio

Recensione di Gian Piero Stefanoni
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Pubblicato il 22/02/2013 12:00:00

Papez, nome curioso, buffo, che rimanda quasi agli spiritelli allegri che si dimenano tra i campi o sulle soglie delle nostre case e dei nostri sogni, ha la sua spiegazione in realtà nell’omonimo circuito, nel percorso intracerebrale implicato nelle funzioni dell’emozioni e della memoria. E all’emozione e alla memoria è legato questo libro di una bellezza che non acquieta, non potendolo tra le derive e le ironie di un mondo smitizzato e dolente. E’ un testo questo che si fa voler bene subito per l’opposizione nuda, teneramente realistica, a perdere spesso (come il pugile a pagina 12) al freddo delle separazioni e delle aggressioni, delle violenze da autodafé di una società che non risparmia colpi entro promesse che acrobazie finanziarie e silenzi di valori non possono mantenere. L’osservatorio, non da poco in questo senso, è quello tra la provincia di Como dove Pagelli vive e lavora e Milano, microregione ritratta appunto tra dinamiche di depennamento e la ferocia di esistenze inghiottite e nascoste. Così il tempo di cui ci parla (“Tempi moderni” tra l’altro è il nome di una delle quattro sezioni) non è solo quello della precarietà del reale e dello svuotamento di capacità professionali ed umane in un livellamento senza più parametri (nel “giù di lì” da cui “si cade proprio in bocca ad un niente”) ma del disfacimento che esso comporta su sagome e volti, nelle azioni e nei riflessi in cui l’incubo si raccoglie e perde in quel vapore, in quella nebbia che se bene dice gli spazi pure prima è dell’anima. E’ lo stordimento infatti la dimensione che forse con maggiore evidenza emerge e ci parla da queste pagine grazie a un’eticità del dire e del sentire che sa del grottesco (e alla bisogna anche della caricatura) più che la denuncia, la stizza delle visioni spezzate, il riconoscimento della ferita comune nella compassione impotente. E se già nel primo testo (“foto ricordo”) l’auto scatto di famiglia con il lago sullo sfondo non ha che lo zucchero della lastra come breve ricompensa nel ciclo dei conti strozzati (il pensiero alla “sagra futura”), la rassegna di figure che segue (siamo in “Papez”, l’omonima sezione d’apertura) testimonia, ricordandocelo bruscamente, l’abisso di una deriva che ruota incalzando e rovesciando i ruoli “tra i fregati di ogni dove” e in cui ”ogni errore si paga col sangue”- il tono asciutto de “l’avvocato” compiutamente incarnando: ”il mondo, lo sai, gira e divora/appena il passo s’intoppa”. Realtà quotidiana soggetta ad una sopravvivenza senza più luoghi che possano dirci, a rigettarci non più contemplandoci e dove, nel contrasto, il discrimine tra rassegnazione e presenza è dato il più delle volte dagli attacchi e le ire delle dinamiche interpersonali di chi si muove come bestia inseguita tra cattività di confine. Tutto ciò, in sintesi, è però magnificamente espresso e descritto nella terza sezione, “La cena”, dove la scrittura poetica ha il suo suggello attorno al tavolo cui vecchi amici si ritrovano e si confessano tra dialoghi di memoria e rovinose cadute. Qui il talento narrativo di Pagelli, sempre guidato da una prospettiva d’insieme che sa ben legare verità morali e fragilità e grossolanità umane, ha il tono secco e pungente delle speranze irrealizzate, di sofferenze a cui nemmeno più i sogni posson portare condivisione nel magma di una crisi che non ha imputati, senza più colpevoli. Ed allora, ogni singolo partecipante è percepito come vittima e marionetta (tra l’altro proprio “Puppets” è il titolo che in origine il libro avrebbe dovuto recare) dei propri abbagli oltre che di un’oscurità subita per intero. Il taglio, di conseguenza- che per sarcasmo e partecipazione, per descrizione scenica, ha qualcosa della nobiltà senza prigionieri della commedia all’italiana (di Risi in particolare- e non a caso comunque dal testo è stato tratto anche uno spettacolo teatrale)- è quello di una comunità, di un paese, il nostro, che più non si riconosce, in cui non ci si riconosce, priva di memoria e, dunque di prospettive, perché soprattutto priva d’amore. Amore che nitidamente, luminosamente è proprio ciò che “Papez” cerca con fatica, e con sgomento, di preservare entro le corde e le istanze di ciò che per natura è poesia (e che negli anni corriamo il rischio di dimenticare tra vanità solipsistiche e deliri metapoetici). Prossimità, vigilanza, capacità di interrogazione e di sostegno del peso, indignazione ed urgenza di ricucire, di iscrivere o reiscrivire la lingua (che è corpo e sostanza di ciò che di più vero ci appartiene) dove la vita strappata manca, fanno di questo libro una testimonianza lucidamente e dolorosamente alta del pericolo che ci attraversa nel percorso d’anestesia e negazione di orizzonti e passioni. Altro ancora andrebbe aggiunto ma ogni segnalazione di un testo, per quanto possa dire, è sempre mutila ed è giusto così dovendo lasciare al mistero della lettura lo spazio nudo dell’incontro; solo, ci piace concludere con i versi che forse più degli altri, o a commento degli altri, sono rivelatori di quanto scritto finora. “Il ficus”: “E’ così- foglia a foglia-/ che si muore, come il ficus/ ridotto a mobilio d’ufficio/ nell’aria bellicosa del condizionatore./ E’ così, allora la tenera eclissi / delle cose, senza sangue che sprizza/ ai lati della carne né divini fotogrammi/ a predire abilmente-/ (ah! l’occhio rosso dell’angelo alle tue spalle/ che ti avverte dello schianto imminente..)”.


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