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L’Opera Poetica - Vol. I

Poesia

Ciro Vitiello
Guida Editori


Recensione proposta da LaRecherche.it

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Pubblicato il 15/02/2013 12:00:00

[ Recensione di Alessandro Viti ]

 

LETTURA TEMATICA DELL’OPERA POETICA DI CIRO VITIELLO

 

 

Alle prese con una produzione in versi così vasta e articolata come quella raccolta nel primo volume dell’Opera poetica di Ciro Vitiello,[1] un primo orientamento si può trovare cercando d’individuarne la cifra tematica distintiva, ciò che in termini crociani si direbbe ‘il vitielliano’. Una volta depurato degli eccessi di psicologismo, un approccio critico che, alle prese con Vitiello, sembrerebbe funzionare è quello - un po’ desueto - di Charles Mauron, colui che ha coniato la definizione di mito personale, espressione della personalità inconscia che costituisce l’opera attraverso reti fisse di associazioni di immagini, oggetti, idee.[2] I contributi critici inclusi nel volume confermano come quella di Vitiello sia una poesia ricca di metafore ossessive, tale che, attraverso varie modulazioni, tende a ritornare sui medesimi nuclei tematici; Di Lieto parla in proposito di “coazione a ripetere”.[3]

 

Carattere di mito personale sembra avere un’immagine ricorrente in Vitiello, una scena che, se ciò non desse atto a malintesi di stampo freudiano, chiameremmo primaria, non fosse altro perché viene presentata già nella prima poesia (Jole) della prima raccolta, Corporazioni del 1975:

 

La melodia dolcemente sale dal lago anulare,dal mare,

e tu a seni nudi vieni, Jole, oggi il sole

è testimone della dolorosa iniziazione. Mentre

l’albume d’aria cola, diròttati, tienimi la mano – ricòrdati

 

siamo tronchi di ciliegio, e copie d’api: mescolammo

i nostri fiati, la dolcezza della sera portò alla carne,

in fretta, ottundimento di felicità, ma incerta meta.

Nel labirinto della tua carnosa rosa mi smarrii -

 

nel cristallo il ritmo metallico dell’orso fu tacito – al

culmine dello splendore però accadde

che, inesorabilmente, il sentiero

ci divise … (OP 9)

 

L’io poetico si rivolge a un tu femminile, con il quale ha un rapporto sessuale sullo sfondo di un paesaggio marino. Anticipando l’esito di scacco delle raccolte pubblicate negli anni successivi, questa densissima prima poesia già si chiude su una nota di distacco degli amanti. Ci saranno poi arricchimenti, specificazioni, ripensamenti, evoluzioni, ma qui è il nucleo di quello che sembra essere il principale nodo tematico della poesia di Vitiello. Quali sono le sue caratteristiche?

In primo luogo, si configura come una costante l’appello a un tu femminile che assume col susseguirsi delle raccolte identità diverse che si alternano e si succedono: dopo Jole ci saranno Moll, Lucilla, Charlotte e altre ancora. Spicca inoltre la presenza del mare, quello che è di gran lunga l’ambiente naturale prevalente, con una presenza molto forte, evidentemente tematizzata (“Io sono roccia e mare”, OP 191, si scrive ancora nel 1996, ancora più emblematica poi una poesia come Mare, mare, OP 55). L’insistenza su immagini della spiaggia nella luce solare dell’estate e sul meriggio fanno inevitabilmente pensare ad Alcyone. Tuttavia, non si dovrà per questo parlare di dannunzianesimo a proposito di una poesia come quella di Vitiello in cui l’io poetico è passato attraverso il filtro degli Ossi montaliani, minimizzandosi in forma di residuo e detrito marino (“guscio in onda” OP 64, “pietra prosciugata nel fondo” OP 130, “legno, che la corrente si porta via” OP 149).

 

Soprattutto, al centro della poesia di Vitiello sta il valore totalizzante dell’esperienza erotica, della sensualità e della corporeità: “cerchi/nell’ebbrezza l’estrema sensualità” (OP, 81) dice l’io-poetico a se stesso, e ancora nell’ultima raccolta si parla della carne come sede dell’anima (OP, 356). C’è, in questa poesia, una forte materialità corporea, per quanto sempre resa su un registro lessicale alto. In particolare il corpo femminile è evocato con insistenza nelle varie parti anatomiche, le interlocutrici dell’io poetico sono carne, bocca, sangue, tutte immagini connotate dal rosso vivo, il colore più presente insieme al giallo del sole, dei capelli biondi e del miele (“Ho le mani piene del/tuo miele odoroso”, OP 287). In particolare si nota come il femminile sia spesso legato all’immagine del sangue (“la carne desiderata fu/pantano di sangue”, OP 207), un binomio che non si limita a indicare la passione d’amore, ma assume tratti anche più perturbanti, di sofferenza (“Mi pietrifica/la furia del sangue”, OP 218).

In questa prospettiva sono rivelatrici le dichiarazioni di Vitiello, che racconta di come a metà degli anni settanta la sua poesia nasca tra le altre cose dalla scoperta della body art, in particolare dallo sconvolgimento causatogli da una performance di Marina Abramovic cui ha assistito nella primavera del 1975.[4] Stando alla cronologia dovrebbe essere Rhythm 4, nella quale l’artista espone il corpo alla mercé del pubblico che arriva a minacciarla con armi da fuoco e praticarle dei tagli con lamette; situazione che sembra essere descritta nella poesia, dal titolo molto significativo, Scena ossessiva:

 

Nella sala, silenziosa stai, candida anatomia, lucida

iride – nel cartiglio dici: “puoi liberamente usare lame,

lamette, pistola perché minima è la cosa sangue,

 

e la morte vanità. (OP, 10)

 

L’esperienza qui descritta rivela a Vitiello il ruolo centrale del sangue e dal sanguinamento, nonché l’idea che l’esperienza artistica e conoscitiva passi attraverso l’uso diretto del corpo, ovviamente in forma soltanto figurata nel campo della poesia.

 

Nella seconda parte di Scena ossessiva entra il secondo polo tematico dominante la poesia di Vitiello (siamo solo alla terza poesia della prima raccolta ed il terreno su cui si fonderà l’intera riflessione poetica dell’autore è già precocemente individuato):

 

Storia, o destino,

sancisce che, nelle umane vicende, le rosse bandiere

 

portano rivoluzioni cruente! Vie e fragore di stoviglie

dall’altra stanza – medito sul potere – apprendo che –

anche in democrazia – è subdolo,

e arrogante, chi comanda. (OP, 10)

 

Accanto all’amore carnale c’è infatti la politica, l’elemento pubblico e sociale accanto a quello più intimo.

Qui, come in numerose altre poesie successive, il passaggio avviene ex abrupto, con uno spostamento, in senso propriamente freudiano si potrebbe dire. In termini di tecnica poetica si tratta di un procedimento associativo (non analogico in senso simbolista, però). Per certo la politica sarà sempre, come scrive Verdino, un basso continuo e intermittente del canzoniere lirico di Vitiello.[5]

Il trait d’union tra eros e politica va individuato nel valore etico del desiderio come tensione verso la soddisfazione assoluta, sia per l’individuo che per la collettività. Dal congiungimento fisico dell’io con la donna si passa all’affermazione che “tutti devono godere il pane,/la rosa, la libertà” (OP, 11). L’ideale di comunione attraversa i due campi: la comunione fisica e, etimologicamente, il comunismo, la causa mai rinnegata dell’emancipazione della classe operaia. Davvero in questa poesia, come da slogan anni settanta, il personale è politico, e da politico diventa storico.

 

Con lo scorrere della storia rispecchiato nel susseguirsi delle raccolte, purtroppo, il quadro politico muta però in negativo: l’ideale di comunione che pareva una possibilità aperta, da cogliere nel presente, progressivamente sfuma nel campo dell’irraggiungibile, mentre parallelamente il desiderio sensuale sconta una sempre maggiore divaricazione dal suo obiettivo. Il rapporto con la donna nasce nel fuoco delle lotte di piazza degli anni settanta (“D’improvviso, scoppiano bombe/nelle piazze, lacrimogeni annebbiano l’aria,/impazzita la folla si disperde nei labirinti,/favola della rivoluzione…”, OP 25), una contingenza storica destinata ad esaurirsi presto, suscitando nel poeta un autentico risentimento verso ‘la vile storia’, come da titolo di una raccolta del 1980. Viene registrata, senza rassegnazione ma con amara lucidità, la vittoria del capitale a partire dagli anni ottanta, viene diagnosticato precocemente come la nuova questione da affrontare sia quella di una democrazia ipocrita, ridotta a parvenza di libertà per nascondere lo sfruttamento (“Il demone dell’infamia corrode l’ipocrita democrazia”, OP 71).

Questo quadro trova poi la sua attuazione e massima conferma nella seconda guerra in Iraq, quella dello scorso decennio, evocata con una concretezza cronachistica stilisticamente nuova rispetto al passato. Ecco che quindi Vitiello vede la cieca alternativa tra falsa democrazia imperialista e fondamentalismo religioso (“Il fondamentalismo minaccia metastasi, la democrazia/non si impone!”, OP 271), riuscendo a cogliere in poesia l’orizzonte politico cruciale del nuovo millennio così come aveva fatto negli anni settanta con le lotte operaie: “L’ideologia del capitalismo monopolistico lavora/necessariamente con mezzi di spietato cinismo,/opprime i popoli in nome della finta pace” (OP 355).

 

Soprattutto, viene compreso il trionfo storico della merce, nozione molto chiara alla formazione marxista dell’autore. “La storia è merce(OP, 104), scrive nel 1984 in una poesia nella quale con amara ironia l’io-poetico informa di aver sottoscritto buoni del tesoro il primo maggio. Essendo tutt’altro che ingenuo, l’autore capisce bene come alla mercificazione totalizzante non possa certo sfuggire l’ideale amoroso-erotico, il fulcro della propria ispirazione poetica. Anche la donna diventa merce, anzi ‘mercimonio’ è il termine più utilizzato.

Si arriva qui a un nodo fondamentale della poesia di Vitiello. La sensualità resta certamente un valore positivo, la bellezza fisica un elemento salvifico. E tuttavia, col passare del tempo si insinua anche una connotazione negativa, il piacere dell’atto sessuale viene vissuto sempre più anche come colpa, compaiono termini con un’accezione di origine religiosa come vizio e lussuria “per giungere al bello dell’anima provai l’orrore, il vizio,/la vergogna”, OP 207). Rivolgendosi alla madre, l’io confessa di essere “arso vivo dal fuoco della donna” (OP 150), espressione che indica in accezione negativa una consunzione, mentre la figura femminile è a sua volta “inconsapevole che sedurre è morire” (OP 99).

Da dove deriva questo lato oscuro del mito solare di congiunzione carnale? Una risposta arriva da uno di quei passi sorprendentemente trasparenti e prosaici che fanno capolino in un dettato poetico complesso e ad alta gradazione figurale come quello di Vitiello: “Non riesco a liberarmi/dal sorriso della prostituta che, salendo sul tram,/mormora: ‘la felicità tua, goduta,/è il mio inferno” (Il cielo è vuoto, OP 98). Si tratta evidentemente del senso di contraddizione con i propri ideali alle prese con la prostituzione come meccanismo di sfruttamento della miseria.

 

La prostituzione è un altro dei temi decisivi della poesia: vi sono dedicate intere sezioni ispirate a Baudelaire, filtrato magari dall’interpretazione di Benjamin, ma anche a Campana, o Sbarbaro (Uscendo dalla casa di tolleranza ricorda sin dal titolo l’incipit,  “Esco dalla lussuria”, della quarta poesia di Pianissimo).[6] Si entra qui nel lato negativo, ctonio, della poesia di Vitiello. Vi sono pagine intere incentrate sulla discesa nei bassifondi della città, nei postriboli verso cui fascinazione e repulsione si intrecciano inestricabilmente:

 

Molle è la notte

sul sagrato, e rantolo l’orrore del rimorso,

il caro idioma con il viso di vergogna è spudorato,

 

logoro. Oh, amato bene! Perché a merce riduci

la beltà? (OP, 39)

 

 Alla luce meridiana delle poesie in riva al mare si contrappone qui il buio della notte fonda, in una dialettica degli opposti che non è affatto casuale, ma anzi caratterizza a vari livelli la poesia di Vitiello, addirittura ne costituisce forse il principale tratto distintivo: “Tra radicali estremi è tesa la vita” (OP, 96).

Questa interpenetrazione degli opposti vale anche per i personaggi femminili: tutti quelli cui l’io si rivolge per nome sembra siano in realtà prostitute (sicuramente lo è Moll, uno dei principali: “dove sei,/distratta amica,//in quale fondo baratti la tua carne” OP, 78). E tuttavia si parla di loro anche come bambine (Jole, ad esempio). Motivo ricorrente collegato è quello della verginità e della sua perdita: “Ti ho atteso vergine, Moll, e invece, nel girare/della ruota, ti allontani deflorata” (OP, 86). Il motivo della verginità si ricollega probabilmente alla già citata ossessione per il sangue, come sembrano suggerire i diversi riferimenti espliciti alla rottura dell’imene e al sangue inguinale: “Nelle segrete vie la stolida indifferenza//è fuoco di allucinogeni, cola sangue/da inguini violati…” (OP, 187). Il quadro è complicato dal fatto che, in genere, le vergini sono al contempo prostitute (“Era vergine lolita al contrario, nonostante/le tante sevizie e penetrazioni” OP, 200). La vergine prostituta: una figura mitica, che ben rappresenta l’essenza duale della poesia di Vitiello.

La compresenza degli opposti è stata interpretata da Di Lieto con gli strumenti della psicanalisi di Matte Blanco: Vitiello, infatti, nella scrittura utilizzerebbe la logica simmetrica, che prevede l’abolizione del principio di non-contraddizione.[7] Non c’è però in lui il gusto di tanta poesia moderna per la contraddizione in sé, da lasciare aperta e irrisolta. Vitiello sembra cercare una fusione degli opposti in unità assoluta, seguendo un imperativo etico: “graffiando lo spazio/sconosciuto dell’imene, Jole, i contrari sanno da soli/convergere” (OP, 17). Il tragico nasce quando non vi si riesce: “Dove è/la parola che perpetui la congiunzione/degli opposto, e lo/sterile fecondi?” (OP, 332).

 

La dialettica tra positività e negatività è ben evidente se si prende in considerazione il tema della dissoluzione. Si tratta di un termine che ricorre con una frequenza notevolissima nel canzoniere: un lavoro di concordanze lo vedrebbe probabilmente classificarsi tra i primi posti. Dissolversi è destino, recita il titolo di una poesia della raccolta Didimo del 1983 (OP, 69), mentre Dissoluzione delle distanze si chiama la sezione di poesie inedite premesse alla raccolta. Ebbene, la dissoluzione può assumere connotazione sia positiva che negativa.

La prima condizione si può raggiungere attraverso l’orgasmo, come dispersione fecondatrice, in cui si l’identità si scioglie nella congiunzione con l’altro (“Ti tocco e dici:/”Mi offro naturalmente”, mentre mi spoglio nudo/e dissolvente”, OP 105). Un’altra via passa attraverso la fusione panica dell’io negli elementi della natura per connettersi al tutto cosmico: “Immerso nella calma ferragostana navigo/nell’assoluto, dolcemente mi lambisce,/nel secondo che muore,/l’intera eternità”, (OP, 171).

C’è però anche un rovescio della medaglia, nel quale la dissoluzione significa perdita dell’identità umana (“il viaggio è duro tra le umane dissolvenze”, OP 107), con l’io disfatto, vegetalizzato o mineralizzato: “però vegeto nelle dissoluzioni – mi ritrovo pietra/all’ultima fase del giorno, forse dell’ora” (OP, 162). Una liquidazione che apre la via al senso di perdita e assenza che caratterizza le raccolte degli ultimi due decenni.

 

Si impone infatti come necessaria una scansione diacronica dell’opera di Vitiello, ponendo come possibile discrimine il silenzio tra il 1985 e il 1991, anno della pubblicazione di Accensioni. Se nelle prime raccolte l’evocazione degli opposti trovava una sorta di bilanciamento, da questo momento in poi la tonalità negativa sembra prendere il sopravvento.

Il presupposto di tutta la seconda fase vitielliana è che la giovinezza, l’età del desiderio e delle passioni, è finita; mutamento non di poco conto, se si considera il ruolo fondamentale che il concetto di desiderio ha sempre rivestito nella poesia di Vitiello: “molto desiderando ho forse perduto il senso,/e non so se ci sia ancora la felicità” (OP, 142). Si perde il contatto con quella che abbiamo definito scena primaria, che pure ogni tanto torna, ma generalmente evocata tramite uno sguardo retrospettivo, come espresso mirabilmente in Godevo lisce cosce, tratta da Solitudini:

 

Godevo lisce cosce, lisci ventri in libidini

e moine: parlavamo di utili e di capitali,

 

tu odoravi di gigli recisi al sole estivo,

prima che l’aurora scoprisse

le crepe del mio cuore, (oggi

procedo nei giardini popolati di ortiche –

e fischia il vento) … (OP, 199)

 

Il meriggio “non porta più il nero rapace che morde” (OP, 186), non è cioè più vettore di compimento del desiderio, il mare non parla più allo stesso modo all’io-lirico che ha perso il contatto col tu-femminile: “Sulla battigia stanno pesci/putrefatti, se allungo il braccio sento che sei lontana” (OP, 185).

La donna, infatti, si definisce ormai nella sua assenza, come un fantasma, o larva di idea di un universale che si è perduto: “Tu sei partita senza mai girarti/indietro, questo pezzo/di ghiaccio sono io,/in dissoluzione” (OP, 193). Nella sezione di apertura di Accensioni viene messo in scena l’abbandono, il ripudio da parte del personaggio di Lucilla sullo sfondo del mare ormai indifferente:

 

Sono di faccia al mare indifferente – chiaro in alto

era il sole – ti chiedevo un po’ di bene,

ma i tuoi occhi furono terribili, di lupo, e adesso

ancora danno gelo! (OP, 126)

 

La privazione di quella che era sembrata essere la ragione fondante della propria poesia getta l’io nello sconforto, lo lascia idealmente esule: “perché non rispondi alla lettera che ti ho, mille volte,/scritto? Non errerò per asciutti estuari, o eburnee/emigrazioni, esangue espio l’errore, ed esule mi estinguo!” (OP, 267).  Un esilio che si sconta nel quadro di una città (Nell’urbano esilio, s’intitola una poesia di Solitudini, del 1996) vissuta come deserto d’indifferenza (“in questa estesa scena//di cani morti nel pattume della città indifferente”, OP, 78). L’esilio, la città, l’indifferenza: sono tutti temi e motivi primo novecenteschi molto presenti nell’opera di Vitiello, anche in quella giovanile seppur in misura minore.

 

Le ultime raccolte sono tematicamente più sfrangiate, sebbene venga più volte ribadita la coerenza della propria posizione politica (“Mai/volli piegarmi al potente che i servili blandisce”, OP 215) e si continui a tornare periodicamente sulla scena originaria, come a cercare di chiudere un conto mai risolto con essa, come in Il cielo è sempre più lontano, del 2001:

 

Dal mare sorgi, creatura d’ambra,carne

che infiammi, erpice che violenti –

risplende la bellezza nel raggio di cristallo

e riflette l’abisso! Accedo a speranze per un alveo

inglorioso, in un angolo forse se trovo ardire

vivo ancora felice l’accordo … (OP, 216)

 

La poesia tende però a farsi sempre più dematerializzata, metafisica: “Io dimoro nel giorno soffio di niente…/non ci sono uccelli stanziali, la lontananza è oscura di/intermittenze” (OP, 361). Sempre più frequenti si fanno le riflessioni e gli interrogativi su Dio (In permanenza cerco/con ansia Dio”, OP 147). L’io arriva a rappresentarsi come un asceta (“Io,/per me, sono un asceta,/distaccato da ogni sete”, OP 312); con l’attenuarsi dell’urgenza del desiderio si accentua il carattere conoscitivo, filosofico, di una poesia che mantiene costante, anche se in termini differenti dal passato, l’atteggiamento interrogativo etico, a evitare ogni tentazione di sprofondamento nichilistico.

 

Quando scrive, in modo simile al finale delle Città invisibili di Calvino,[8] “la mossa più logica da fare è di aggredire il/possibile nelle crepe del male …” (OP, 142), si ha la conferma che Vitiello scrive per tratteggiare una visione del mondo, che mira all’analisi critica della totalità.

Si potrebbe quindi considerare Vitiello come anello di congiunzione tra due diverse tradizioni della poesia italiana novecentesca: una più interessata a rendere l’emotività, a esplorare la passione e la carnalità (Saba, Penna, Scotellaro), l’altra più razionale, speculativa, filosofica, anche francamente politica (Montale, Sereni, Fortini).



[1] CIRO VITIELLO, L’opera poetica, Vol. I, Napoli, Guida, 2012. D’ora in avanti nel saggio faremo riferimento a citazioni tratte dal volume con l’indicazione OP seguita dal numero di pagina.

[2] CHARLES MAURON, Des métaphores obsédantes au mythe personnel, Paris, Corti, 1964.

[3] CARLO DI LIETO, Reti associative e metafore ossessive, in OP, XXXI-LV: XXXVI.

[4] Iniziazione alla poesia, intervista a Ciro Vitiello a cura di Alessandro Carandente, in OP, 371-379: 372.

[5] STEFANO VERDINO, Il destino dell’io, nel destino di un tempo e di una società, in OP, XI-XXIX: XIV.

[6] CAMILLO SBARBARO, Pianissimo, a cura di LORENZO POLATO, Venezia, Marsilio, 2001, p. 44.

[7] CARLO DI LIETO, Reti associative e metafore ossessive, cit., p. XXXIV.

[8] “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio” (ITALO CALVINO, Le città invisibili [1972], Torino, Einaudi, 1993, p. 164.


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