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Nessuno sa quando il lupo sbrana

Poesia

Maddalena Capalbi
La Vita Felice

Recensione di Gian Piero Stefanoni
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Pubblicato il 07/02/2013 12:00:00

“E’ una favola l’amore,/ce la raccontiamo per stare bene” ci avverte, o avverte se stessa quasi a proteggersi, l’autrice di questo libricino in una delle poesie iniziali nella cui interrogazione si racchiude in realtà il perchè dell’intera raccolta:” (..) di chi sono- mi chiedo?/Di quale paesaggio?”. Memoria sofferta ma necessaria di sé tra ricomposizioni e accettazioni familiari all’interno di una storia e di una corporeità ferita. Racconto personale che nel dipanarsi degli anni (da quelli della propria adolescenza fino alle malinconie e agli azzardi dei ragazzi di oggi) dice però anche molto delle dinamiche generazionali nel nostro paese dai ’70 in poi. Diviso in due sezioni- la prima “Nessuno sa quando il lupo sbrana”, la seconda “Così i nostri ragazzi”- il nodo che il testo cerca in qualche modo di sciogliere, o quanto meno di raccontare, è soprattutto nell’ambiguità di relazione tra la figura paterna e materna, con la figura paterna e materna, i cui graffi, le cui reciproche occlusioni consumano tempo e anime tra desolazioni e colpa, tra solitudini e rabbia. La Capalbi, nelle osservazioni di sé ragazzina, non fa sconti, in una registrazione quasi automatica di emozioni e reazioni, non tralascia nulla, focalizzando la propria attenzione sulle ripercussioni corporee che nel silenzio delle stanze e nella ripetizione monotona dei rispettivi domini fissano i diversi protagonisti in situazioni il cui unico sbocco spesso sembra non poter andare oltre la caparbia sottolineatura del proprio irricucibile ruolo. Centrale, allora, in questa scrittura a tratti diaristica del dolore è il rapporto con la madre ed insieme della madre col padre la cui inadeguatezza subita di donna e di moglie si riflette (non a caso forse tornando più volte il termine specchio) nel muro di giudizio e durezza con cui la figlia vede e sente se stessa a partire dalle urgenze e dai reclami di un’identità femminile che sente anche nel proprio corpo il veicolo della conoscenza di sé e della propria liberazione. Così, oltre “la gara delle ribellioni” nel superamento di confronti impossibili, oltre una visione che dice dell’uomo e del maschio la diffidenza e il richiamo, questi versi si offrono in un rendiconto asciutto, teso, essenziale, come un rimontaggio da cui ridarsi sguardo per lo scioglimento delle proprie ossessioni. Sguardo che si tenta, come dicevamo, proprio dentro un paesaggio la cui misura nel divenire d’ombra è lo sgomento, a tratti, e l’inappartenenza nell’oppressione e la dirompenza del limite. Che è poi corda d’ogni vera poesia se ancora poesia è ricomposizione e spinta da un paesaggio, sua voce e sua densità profonda (si legga al proposito “Il mare di Foceverde”, brano esemplificativo in questo senso e rivelatorio di una nudità osservata e colta in tutti i suoi movimenti, nelsuo movimento ). Profondità, dicevamo, data con un’abilità di distacco e insieme , ancora, di urgenza emotiva espressa con sicura efficacia da una poetessa ormai giunta alla sua quinta prova (e di cui ricordiamo la sua attività di coordinatrice di un corso di scrittura nella Casa di reclusione vicino Bollate, Milano). Non diversamente nella seconda parte, in cui l’attenzione si sposta sulle dinamiche relazionali e sui riti d’amore dei ragazzi di inizio millennio, “splendidi animali” osservati fra masticature e solitudini, in cui la scrittura scorre con la medesima forza, senza cedimenti di tono, pur rischiando di pagare in alcuni momenti una partecipazione che nel fuoco delle interrogazioni e delle tenerezze (com’è naturale forse) giunge meno accesa. Ciò non vela, comunque, il lascito con cui questo libro si chiude: non smorzano il canto infatti i nostri figli, anche se trafitti e mangiati dai confini. Tentano ancora l’amore scivolando silenziosi, schierandosi “come piccole costellazioni//liberi”. Ma “senza più chiedere aiuto”, come un verso quasi meccanicamente ricorda. Ed in questo, ci domandiamo in conclusione, c’è poi davvero differenza con la generazione materna? O, venendo incontro al testo: quanto di non detto ancora ci ferisce, e ci confonde dividendoci?


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