[ Recensione di Elena Ribet ]
Dal punto di vista critico, a parte il tema, è un azzardo, o addirittura una sfida, fare un discorso unitario su “Cuore di preda” (antologia di poesie contro la violenza alle donne a cura di Loredana Magazzeni, con immagini di Fabiola Ledda, Edizioni CFR, 2012).
Il testo si presta a una lettura politica e post-femminista, ma anche a una lettura ormonale, umorale, psicoanalitica; una pur breve premessa sugli aspetti poetici è doverosa. Intanto per il valore dei testi qui raccolti. Fra le autrici abbiamo nomi di altissimo livello: Viola Amarelli, Antonella Anedda, Lucianna Argentino, Dina Basso, Mariella Bettarini, Elisa Biagini, Maria Grazia Calandrone, Alessandra Carnaroli, Fortuna Della Porta, Anna Maria Farabbi, Paola Febbraro, Annamaria Ferramosca, Giovanna Iorio, Erminia Passannanti, Cetta Petrollo Pagliarani, Maria Pia Quintavalla, Anna Ruotolo, Ida Travi, Anna Zoli… Ci sono anche alcuni nomi stranieri di rilievo: Imtiaz Dharker (Pakistan); Mary Dorcey (Irlanda); Lisabetta Serra (Brasile). Sono rappresentate diverse generazioni, con autrici nate negli anni ’40, ’50, ’60, ’70, ’80. E ci sono diversi stili e diversi approcci.
C’è il respiro smorzato, sincopato, racchiuso in un diaframma squarciato, fra realtà e incubo, nell’incubo del reale, con versi ritmici e lucidi che si chiudono in un sospiro dolorosissimo “Annina: questa no, non è questa / la mia bambina, non mi scherzate / perché sono vecchia: quando torna farò / molta attenzione. Sarà pronto l'olfatto, l'acume / terra-cielo della vista (ci vuole / una vista per l'erba e una per l'istante / del distacco) e il rigore / splendido della mente: Angelina / – stavolta al campo ti accompagna mamma.” (Calandrone).
Ci sono versi di una sola parola, didascalie, una spoon river di sintagmi, immagini, vittime universali, di ossa da immaginare offerte a singhiozzi, come un pianto rotto nel rompersi delle relazioni e delle vite, spezzate per sempre come si spezzano rime interne per trasfigurarsi, fino a diventare assonanze, asindeti: “marcello hai fatto / un macello incinta / al nono mese / tua moglie / rotta la testa / bruciata i vestiti / solo resti brandelli / i budelli accovacciati al colon / la merda / la merda addosso / disegna la cistifellea arresta / -il tuo pisellone è un calcolo che sbreccia / la mia parete destra / la faccia / slacciata le labbra / dal fuoco / secchissime / neanche l’acqua può / un sorso / le labbra / la pancia / la guancia indentro / il figlio indentro / ha caldo / come // un forno / la pancia / l’arrosto / servito / su un piatto di strada / nerissima / funerale la donna / tua moglie / l’amante / il lavello / marcello” (Carnaroli).
E poi ci sono simboli, domande, denunce, dichiarazioni di guerra e di amore per donne che non ci sono più, dediche che spaziano ovunque nel mondo, dal Messico di Ciudad Juarez*, all’Afghanistan di Nadya Anjuman, poetessa morta a 25 anni di infarto (secondo le autorità), a seguito delle percosse del marito, per aver osato declamare in pubblico versi delle sue poesie d’amore tratte dal libro “Gul-e-dodi’” (Fiore rosso scuro). C’è il sarcasmo, la polemica di chi vede oltre: “tu poesia che dici sempre io / scegli le parole più vere / falle brillare / falle esplodere / falle saltare in aria / falle dire tutto / falle raccontare la verità / quella che fa male / [...] / esci dai salotti / varca i cancelli / cammina oltre il filo spinato / vieni a cercare / chi non ha più / parlato” (Iorio).
C’è la sintesi estrema, ermetica, ma rivelatoria, quasi apodittica “qui si ragiona non degli occhi del soldato / ma della pupilla interiore / della vedova del soldato” (Farabbi).
E ancora, c’è la “Vendetta. Che (dà gioia solo se letta a ritmo spezzato, fermandosi a / ogni punto, schiudendo leggermente le labbra ai due punti) // Che: peccato morire amore mio. Dire: «non ti amo più» / così nel vuoto. Che: vergogna la voce spazientita la fretta. / La distanza tra il primo sussurro innamorato e questo timbro / nuovo. Che poca vergogna sotto la stessa distesa che hai creato. / La: distesa. È: una tela. È: bianca. È: un lenzuolo. / É: una terra su cui è caduta la neve. / Sst. stai là da solo. Non più sopra. ma. sotto. come si addice / ai morti, come si addice ai semi. e. ai gigli prima di spuntare. / sentirai come dei graffi in corsa: sono gli uccelli i topi le mie / stesse mani ossute che adoravi la mia lingua che ha sete. / Brr. amore. che. pena ho di vederti reso più piccolo dal gelo così / privo di doni in questa tomba dove non posso piangerti / ma solo scavare fino alla terra fino al suo ferro / al fuoco che ora la stringe e che mi onora.” In questo testo Antonella Anedda mette i due punti come a voler suddividere i pezzi del ragionamento in un caleidoscopio, trova nuove forme, significati, punti di vista; scompone e ricompone il senso, i sensi, in una trasfigurazione continua in maschio e femmina, vittima e carnefice, amore e odio, piacere e dolore. Un pendolo che oscilla fra due estremi che si compenetrano, avvicinandosi e allontanandosi continuamente, senza mai risolvere l’enigma nelle parole “fine” e “ancora”, in quel rapporto paradossale tra amore e violenza, già raccontato da un femminismo ignorato, rinnegato, frainteso, ma sempre e ancora vivo. Come afferma Lea Melandri, “a far da controcanto alle sirene del grande mutamento restano poche voci, […] a ‘pensare e scrivere la morte’ è stata storicamente la parola dei poeti, capaci di testimoniare il ‘nulla’ su cui si affaccia l’esistenza, senza restarne muti o abbagliati. Ma ci provano anche tutte quelle scritture che non hanno paura di mettersi a nudo, sfiorando i confini di passioni ‘impresentabili’, sopportando silenzi e frammentazioni”.
Questa è un’antologia che scava a fondo un tema, quasi senza cadute. Sono davvero pochissime le pagine acerbe poeticamente (e non si intende per l'età delle autrici), anche se mancano testimoni importanti come, ad esempio, Donatella Mei, autrice e interprete fra l’altro del monologo 'L'Importanza di Donatella' sulla vita, la poesia e la vicenda giudiziaria di Donatella Colasanti, scampata al massacro del Circeo e morta nel 2005.
“Cuore di preda” è comunque un affresco abbastanza esaustivo sulla violenza contro le donne, vista dal punto di vista delle donne. Ma non sarebbe forse opportuno fare un’antologia di poeti uomini sullo stesso tema? Da troppo tempo si dice che il problema della violenza sulle donne è un problema maschile. Non femminile. Perché gli uomini non si interrogano su questo? Alcune associazioni lo fanno, ad esempio Maschile Plurale, Il cerchio degli uomini, Noi no, ma si tratta sempre, ancora, di esperienze di nicchia.
In diversi ambiti, anche molto aperti e colti, la risposta dei maschi rispetto a queste sollecitazioni, sulla rappresentanza delle donne in politica o sulle discriminazioni, è sempre la stessa: "sí, ma..." sí, ma...”. Come se le giustificazioni potessero supplire alla quasi totale ignoranza dei dati. Come la classica frase “io non sono razzista, ma…”
È utile ricordare, allora, alcuni di questi dati sulla violenza contro le donne. Le informazioni sono desunte dall’indagine Istat condotta nel 2006 sulla base di una convenzione con il Dipartimento per i Diritti e le Pari Opportunità, dal Rapporto criminalità del Ministero dell’Interno, dalla rete nazionale Dire (associazioni e centri antiviolenza). In Italia 6 milioni 743.000 donne tra i 16 e i 70 anni hanno subito violenza fisica o sessuale. L’analisi per tipologia mostra come le violenze siano state commesse dal partner nel 62,4% dei casi per quelle fisiche, nel 68,3% dei casi per le violenze sessuali, senza considerare la molestia, e nel 69,7% dei casi per quanto riguarda gli stupri. I partner sono dunque responsabili della quota più elevata di tutte le forme di violenza fisica e delle forme più gravi di violenza sessuale. Sono quasi 14.000 le donne che ogni anno si rivolgono ai Centri Antiviolenza e alle Case aderenti a D.i.Re. Il 78% sono stati “nuovi casi”, il 71% di nazionalità italiana. Gli autori di questi reati sono stati per il 64 % partner, il 20% ex partner, 8% familiare, 6% conoscente, e solo il 2% estraneo. Sono 13 al giorno gli stupri denunciati in Italia nel 2007 (ma oltre il 90% non viene denunciato) e dei 1.933 omicidi volontari (dati 2004/2006), il 91,7% sono stati commessi da uomini. Oltre 100 le donne uccise nel 2012 in Italia da mariti, compagni o ex.
E poi c’è il World Economic Forum con il “Gender Gap Report 2012”, che vede l’Italia all’80° posto su 135 paesi analizzati (dopo paesi come Botswana, Cina, Kazakhstan e Vietnam) quanto a disparità tra i sessi nei quattro settori fondamentali: economia (composizione forza lavoro, gap retributivi, differenze di carriera), rappresentanza politica, istruzione e salute (nuovi nati in base al sesso, aspettativa di vita).
Oltre ai dati quantitativi, ci sarebbe anche la conta dei danni morali che si perpetuano da secoli nelle donne a causa delle persecuzioni subite, a partire dalle nostre antenate, per arrivare ai nostri giorni ovunque nel mondo, come ben dimostrano le poesie di questa antologia.
La violenza maschile accomuna tutte le religioni, tutte le razze, tutti i ceti sociali. Non possiamo più ignorare che il problema della violenza maschile è sì un problema maschile, ma è anche un problema di relazione. E questo implica un discorso molto più complesso che non possiamo certo esaurire qui. Violenza nelle relazioni significa parlare degli equilibri e squilibri di potere all'interno della coppia. Occorre analizzare la debolezza del maschio (debolezza affettiva, relazionale, mentale) che lo porta a esercitare la sua superiorità fisica per mettere a tacere una donna molto più assertiva, capace di sentimenti e azioni, sia negativi che positivi, estremamente dirompenti. E quindi, occorre guardare in faccia anche le negatività delle donne, per esempio il mettersi troppo spesso dalla parte delle vittime. Le donne devono imparare a essere libere dagli uomini, a ottenere rispetto anche con la forza, se necessario, smettere di indugiare su se stesse con uno sguardo distorto, che appiattisce in ruoli stereotipati di moglie perfetta, madre perfetta, prostituta perfetta. Perfetta vittima sacrificale.
In questo libro manca una cosa. O forse c'è, ma solo in minima parte. La rabbia verso i cosiddetti carnefici. Già il titolo mostra quasi il candore di queste vittime il cui sacrificio sembra sublimare quella crisi delle relazioni ormai al suo culmine. Se è necessario dire basta, arrabbiarsi, denunciare e ribellarsi alla violenza di per sé, è forse ancora più vitale e necessario ribellarsi a tutte quelle dinamiche che la alimentano. E questa ribellione deve e può essere anche maschile. Occorre ribellarsi al silenzio. Ribellarsi ai ruoli stereotipati. Ribellarsi ai vincoli che imprigionano. Ribellarsi all'immagine falsa della famiglia come luogo sicuro per adulti e bambini. Infine, cosa più dolorosa di tutte, ribellarsi all'amore che genera odio. Ci sono tanti modi di amare; è necessario trovarli e praticarli. Questo libro parla agli uomini, alla loro presunta disumana forza, come un pugno nello stomaco, un pugno da prendere, da accogliere per riuscire a scriversi e leggersi a vicenda e, forse, iniziare relazioni più sane.
* Dal 1993 a oggi sono oltre 1000 le donne e le bambine scomparse a Ciudad Juárez, Messico; di queste, circa 460 sono state ritrovate morte dopo essere state violentate e torturate. “La comunità internazionale deve intervenire, dobbiamo far circolare documenti, foto, testimonianze: non è possibile che le madri aspettino in casa che succedano queste cose, o che si ritengano fortunate se hanno trovato il cadavere delle figlie abbastanza presto a significare che sono state torturate meno a lungo. Le madri vengono chiamate dalla polizia e viene detto loro che hanno trovato una ragazza, che forse è la loro figlia, che devono venire a prenderla; i funzionari le portano in obitorio a identificare il cadavere, irriconoscibile per la violenza e la crudeltà delle sevizie subite. Visi distrutti, con la pelle e i capelli rimossi, violazioni sessuali, labbra staccate a morsi. Abbiamo visto cose terribili fatte anche su bambine, una aveva solo 3 anni”. Si sono fatti molte ipotesi sulle ragioni di queste violenze: riti satanici, orge, venditori di organi, sacrifici umani. Le opinioni di criminologi e antropologi convergono sempre più sul fatto che si tratti di riti per inserirsi in bande mafiose. Da un’intervista a Marisela Ortiz Rivera, psicologa e insegnante, tra le fondatrici di “Nuestras Hijas de Regreso a Casa”, associazione di familiari e amici delle giovani uccise a Ciudad Juárez, Messico. Tratta da Noidonne.org&nbs