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A schermo nero

Poesia

Marco Ercolani
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Recensione di Marco Furia
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Pubblicato il 14/12/2012 12:00:00

“A schermo nero”, di Marco Ercolani, è un evidente gesto d’amore nei confronti del cinema.

Qualcosa di veramente intimo è presente in questa nutrita serie di dialoghi, racconti, colloqui, proposti da un autore che riesce a immedesimarsi nei suoi personaggi (celebri personalità del cinema di tutti i tempi) secondo le pronunce di un racconto diretto, non privo di una certa propensione al surrealismo.

Le immagini dei film, assieme alle persone che le hanno create, divengono immediata presenza nella scrittura.

Ercolani, insomma, è anche il suo cinema, ossia il cinema vissuto da lui.

A partire dalle prime proiezioni cui assiste con la madre che

“a quattordici anni descriveva le minime scene di ogni film con una calligrafia minuta, a matita, senza tracce di correzione, in quadernetti quadrettati”,

a partire, dunque, dall’infanzia, Marco entra in contatto con un mondo d’immagini che costituiscono qualcosa che è lontano e, contemporaneamente, molto vicino.

Non si tratta, nel suo caso, di entrare in scena come accade nella stupenda sequenza di una famosa pellicola di Buster Keaton, si tratta, piuttosto, di amare lo schermo in quanto tale.

Una sorta di magia realistica viene riconosciuta quale ineliminabile parte della propria personalità.

Lo scrittore diventa lo spettacolo, è regista, attore, sceneggiatore, scenografo, direttore della fotografia, eccetera.

Riporto di seguito uno dei pensieri inediti di Robert Bresson / Ercolani:

“Si dicono cose così imbarazzanti e false sul cinema che mi viene voglia di parlarne solo per difenderlo dagli stupidi. Per me il cinematografo è una scrittura con suoni e immagini in movimento: nel film non ci sono attori vivi – nessuna traccia dello sforzo muscolare o del sudore dei teatranti – ma gesti, oggetti, immagini che creano fra di loro legami diversi e imprevedibili”.

Ebbene, simili legami, lungi dall’esaurirsi con il riaccendersi delle luci di sala, entrano a far parte dell’immaginario e, perciò, della vita degli spettatori.

L’immaginario non è àmbito distinto in maniera netta e rigida dal reale, poiché l’essere umano è vivido impasto di differenti, molteplici, aspetti: assistere alla proiezione di un film è esperienza concreta in grado di consentire lo sviluppo della fantasia.

Qualcosa, dall’esterno, richiama la nostra attenzione e, con i suoi specifici lineamenti, offre al nostro divenire la possibilità di compiere ulteriori percorsi.

Di professione psichiatra, autore, assieme a Lucetta Frisa, dell’illuminante “Anime strane”, Marco sa bene che qualunque personalità è viva persistenza complessa eppure semplice, è grumo di energia che, quando giunge a felice esito espressivo, dice davvero.

Si parla di cinema, ma si potrebbe benissimo parlare di poesia, di pittura, di musica o, anche, di un intenso e fecondo colloquio, oppure di una madre che, nei non poi così remoti anni cinquanta e sessanta dello scorso secolo, rende partecipe il figlioletto della sua grande passione.

Riconoscerci, dunque, è riuscire a dirci, ossia a esistere in una parola o in un gesto da cui non ci distinguiamo, ma in cui, quali esseri viventi, intensamente siamo.


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