Il caso e la necessità
Ho appena finito di rileggerlo. Sono commosso e intriso da una paratassi mnesica, ai limiti del farfugliamento, che mi risuona nell’animo come una nenia malinconica. Le memorie dell’ottuagenario ex-combattente del Palmach sono un puzzle scomposto e allucinato, nei cui vuoti si insinua, feroce, una verità che pare menzogna. Mi sento triste, lo confesso. Reprimo un accenno di lacrime perché la razionalità, più che il pudore, mi dice che non bisogna piangere. Anche se certe cose le sento vive nel mio animo e la voglia di piangere è tanta, come quando avevo anch’io diciassette anni e il dolore degli altri mi stracciava il sorriso sulle labbra. Non ho pianto. Piangere non serve ad altro che a consolare il cuore affranto, non risolve i problemi. E poi io non ne ho colpa. Io, in quanto individuo, intendo, non in quanto cellula malata di una civiltà cinica e indifferente. No, non ho colpa, ma non ho mai saputo che fare per riscattare le colpe della mia genia. L’unica risposta che ho saputo dare è stata quella di sostenere qualcuno che ritenevo più bravo di me a sbrogliare l’intricata matassa. Nel mio paese, s’intende. L’ho votato. Mi ha puntualmente tradito. Ho puntato su qualche altro cavallo che reputavo vincente. Ho perso di nuovo. Che fare? È così, come vuole la laconica chiusura del bel romanzo di Yoram Kaniuk edito dalla Giuntina nella traduzione italiana di Elena Loewenthal.
Ora mi domando se 1948 avrà successo qui da noi e se i lettori premieranno questo specchio spregiudicato della nostra coscienza imbellettata, apposta imbellettata per sfuggire alla cognizione di sé. È tale il libro di Kaniuk, una spregiudicata analisi di coscienza, senza maquillage e senza fronzoli retorici. Una lingua asciutta, affilata, penetrante quanto quel proiettile che vaga nell’autoblindo a Bab el Wad, sulla strada che da Tel Aviv porta a Gerusalemme, e uccide due partigiani del Palmach, sotto gli occhi neppure tanto esterrefatti di Yoram che, non ancora diciottenne, ha già imparato della guerra molto più dei capi militari, lui soldato semplice, volontario di un conflitto il cui fine è fondare uno Stato per dei morti, come lo stesso autore afferma. Yoram non lo sa che sta fondando uno Stato, non sa neppure che cosa sia uno Stato, sa che vuole dare un posto in cui stare ai sopravvissuti alla Shoah, morti viventi raminghi per i mari, stipati su bagnarole che non trovano approdo da nessuna parte, dopo che la Gran Bretagna mandataria ha posto un veto armato alla massiccia immigrazione degli Ebrei perseguitati in terra di Palestina, dove non c’è uno Stato e dove gli Arabi sono maggioritari. Così gli Ebrei sono respinti da tutti, anche da quelli ai quali spetterebbe il compito di trarli in salvo dall’orrore, dando così ragione a Herr Goebbels il quale aveva detto che se gli ebrei erano così intelligenti e così dotati e suonavano così bene, come mai nessun paese li voleva.
L’autore non sapeva di fondare lo Stato di Ben Gurion, aveva militato in uno dei movimenti giovanili che sognavano un assetto binazionale per la terra di Palestina e in questo sogno di convivenza pacifica si crogiolava come ogni adolescente che si rispetti e che abbia maturato per tempo la coscienza dei tempi in cui gli è dato di vivere. Era un sabra e poco sapeva di Sionismo, anche se optando per la militanza nell’Hashomer Hatzair, dopo essere passato per l’Hamachanot Haolim, s’era convinto della possibilità di coabitazione tra Arabi ed Ebrei, a dispetto d’una guerra subdola che, fin dagli anni venti, aveva visto cadere, vittime di attentati, uomini e donne di entrambe le parti. Per lo più capri espiatori, come sono sempre gli innocenti obiettivi del terrorismo e delle guerriglie, i due modi più sporchi di condurre un conflitto di per sé sporco, perché guerre pulite non ne esistono da che mondo è mondo.
Me ne sono anch’io andato in giro per Tel Aviv, percorrendola in lungo e in largo. La città, oggi, non è più quella di cui narra Kaniuk; no, non lo è, forse perché, come dichiara egli stesso, i giovani non sanno o preferiscono non sapere, mentre gli adulti fondano la loro memoria sulla retorica nazionalista dei nuovi libri di storia con l’imprimatur. Via Ben Yehudah, la strada centralissima in cui abitava la famiglia Kaniuk, è ancora lì: ad ogni crocevia puoi vedere il mare, lo stesso in cui si smarriva lo sguardo del narratore sedicenne, con la testa confusa e l’eco altrettanto confusa di voci d’una Shoah i cui reticenti superstiti, i volti segnati dall’orrore, soli e spauriti, cominciavano ad aggirarsi sempre più numerosi in quest’appendice architettonica dell’Europa prebellica, mentre i nativi, i sabra, che non sapevano o sapevano poco o sapevano per sentito dire, avevano la vaga sensazione che qualcosa bisognasse fare, a dispetto della chiusura delle frontiere voluta dagli Inglesi fin dal Trentanove. Mi son sentito come lui, come Yoram a sedici anni, e mi sono detto che io, io medesimo, avrei agito allo stesso modo in cui agì lui: avrei tentato di difendere l’arabo innocente linciato da una folla inferocita e morto sotto i suoi occhi, la prima orribile morte in diretta alla quale lo scrittore abbia assistito; avrei ballato la hora vicino a un compagno senza nome diviso in due pezzi; avrei difeso la roccaforte di Quastel e avrei sparato a Abdel Khader al-Husseini, il mitico capo della Jihad di allora morto proprio in quell’occasione, per vincere, con un manipolo di ragazzini, una battaglia data per persa contro un esercito apparentemente bene armato e bene addestrato; avrei assistito, con malcerta freddezza, al dissanguamento di decine di ragazzi miei coetanei, zotici e incolti per lo più, contadini dei kibbutz, scaricanti di porto, simpatiche canaglie come Ari-Pseudonimo; avrei… qui ho tremato, ho tremato davvero dinanzi a una scena agghiacciante, l’acme crudele di una narrazione drammatica, che me ne ha evocate altre delle quali ho letto, delle quali ho visto foto e documenti d’epoca, delle quali il cinema mi ha restituito la copia in sedicesimo. Lo scenario era ovviamente diverso e poteva essere il campo di Auschwitz, di Sobibór o la via fangosa lungo la quale Eichmann sospingeva i suoi cinquantamila Ebrei ungheresi verso la soluzione finale, lasciandone per strada oltre la metà, ovviamente morti, ovviamente massacrati perché infermi o deboli come i bambini denutriti. Ma siamo in Palestina, nel villaggio arabo di Beit Yuba e qui il boia è un Ebreo. Kaniuk non ne rivela il nome, per buon gusto e per affetto, afferma, e lo chiama semplicemente N. Costui vede un compagno orrendamente mutilato, legato a un albero, con i genitali suoi propri in bocca. Il villaggio è quasi deserto, ma in una casa il cadavere di un arabo reca indosso la camicia verde del partigiano ebreo orrendamente mutilato. In casa vi sono anche due donne e un bambino. N. è accecato dall’ira. Uccide le due donne, inveisce con un pugnale sulla più giovane, la possibile genitrice della progenie assassina degli Arabi, intima a Yoram di sparare al bambino, sbeffeggia i suoi ideali di fratellanza; questi gli punta l’arma contro per indurlo a desistere dal folle proposito. Parte un colpo. Non si sa chi ha sparato. Colpisce a morte il bambino. Mi spiace dirlo, ma il Nazismo non avrebbe saputo fare di meglio. Si legga con attenzione il capitolo 12 e si capirà perché. Vi si trovano tutti gli ingredienti dell’umana barbarie: il fanatismo e l’intolleranza, la frustrazione e il nazionalismo ottuso, l’odio e il pregiudizio, il razzismo e la ferocia belluina d’un’umanità accecata dall’ancestrale legge del taglione nella versione aggiornata della rappresaglia. Funziona così, ha sempre funzionato così, ancor prima del Nazismo e della guerra arabo-israeliana del 1948. Scene analoghe sono in «Guerra e pace» di Tolstoj, benché vi si tratti d’altra vicenda bellica, d’altri tempi, d’altri campi di battaglia. Ho pensato che il giovane Yoram ben potrebb’essere il Pëtr Kirilovič Bezuchov dell’epopea tolstojana. In fondo i due libri, a parte la differente mole, si somigliano nella struttura, con scene di guerra che s’alternano a scene d’ordinaria quotidianità, non senza la postuma, densa e pregnante riflessione dell’autore.
Il Nazismo! Se lo si sfronda dei connotati storici, diventa una possibile dimensione dell’umano agire, un movente come un altro, quasi una necessità. I metodi del terrorismo dei due opposti fronti, ebreo e arabo, prima durante e dopo la guerra del Quarantotto, coincidono, con tutta la loro carica di ferocia indifferente al sangue delle vittime innocenti. La brutalità non s’arresta neppure davanti ai cadaveri, sui quali si continua a inveire con efferata cinica crudeltà. Così come la compiaciuta occupazione dei villaggi palestinesi, molti dei quali abitati da innocue famiglie arabe, con la massiccia nakba che ne consegue, ha poco o nulla da invidiare agli esodi forzati ai quali gli Ebrei medesimi sono stati costretti dalle SS hitleriane. È così! Le frange estreme del Sionismo e della sua ala militare, l’Irgun, sono state naziste e magari lo sono, nei sentimenti, i loro epigoni politici. Non si dimentichi che il famigerato gruppo Lehi (banda Stern) vide in Hitler un possibile interlocutore e ne auspicò l’alleanza nello stesso momento in cui questi faceva deportare e massacrare milioni di Ebrei.
Ha ragione Viktor Klemperer[1] quando, in un contestato capitolo del suo Taccuino, attribuisce al Nazismo influssi sionisti e sottolinea l’identica matrice culturale delle due ideologie[2]. Ora, tuttavia, mi viene voglia di infirmare anche questa ipotesi e d’essere assai più radicale. Nazista potenziale è ciascuno di noi per gli istinti belluini che si porta dentro. Certo, ce ne siamo spesso allontanati, elevandoci ad altezze vertiginose rispetto alle bestie che siamo stati. Ma bastano una serie di circostanze favorevoli, beninteso generate da noi medesimi come una ragna che ci imprigiona e che la stoltezza chiama destino o fato, per scivolare nella ferinità ancestrale. Disconosceteci il diritto d’essere quello che siamo, cancellate la nostra dignità, conduceteci alla disperazione della miseria materiale, negateci la possibilità d’aver cura dei nostri figli e dei nostri vecchi, massacrate la nostra famiglia, toglieteci la facoltà d’amare e vedrete che, prima o poi, tirerete fuori il Nazista che è in noi. Vi odieremo e la nostra sete di vendetta non sarà appagata fino a quanto non vi vedremo annegare nel vostro stesso sangue. L’odio genera se stesso e il sangue chiama altro sangue. È così! Si dice che l’occasione faccia l’uomo ladro, per necessità. Se non si presenta l’occasione, non vi sarà necessità alcuna. Se è vero che tutti siamo bestie, è altrettanto vero che ciascuno può diventare uomo. Una questione di scelta, non di destino.
È bello di verità questo libro di Yoram Kaniuk.
[1] Viktor Klemperer, LTI. La lingua del Terzo Reich – Taccuino di un filologo, pref. di Michele Ranchetti, 4a ed. riveduta e annotata a cura di Elke Fröhlich, Giuntina, 2011.
[2] Cfr. Antonio Piscitelli, La lingua del Terzo Reich… ecc., in Meridione, anno XII, numero 2-3, aprile-settembre 2012, Edizioni Scientifiche Italianee, pp. 393-405.