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La fabbrica della parola

Saggio

Raffaele Urraro
Manni Editori

Recensione di Enzo Rega
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Pubblicato il 19/10/2012 12:00:00

Non a caso il titolo del libro di Raffaele Urraro, La fabbrica della parola. Studi di poetologia su Leopardi, Baudelaire, Ungaretti, Rilke e altri (Manni, 2011, pp. 342, euro 25), richiama l’etimologia del termine “poesia”: quel poiein che in greco indica il fare, quel fare il cui prodotto è appunto la parola. Con il termine “poetologia” proposto nel sottotitolo, si riprende e si ridà dignità a ciò che viene chiamato “Poetica”, termine inizialmente importante e che a un certo punto finì per indicare solo la precettistica di consigli pratici, di mera “cucina” della poesia. Urraro invece gli ridà quella dignità che riconsegna alla Poetica lo spessore di visione completa sul fare artistico, in gara con ciò che poi viene chiamato Estetica. Urraro affronta così questione complesse, che travalicano anche nel campo della filosofia dell’arte e della Linguistica (per Jakobson la Poetica era parte della Linguistica stessa), ma con lo fa con una lucidità e una chiarezza invidiabili, che fanno di questo libro al contempo un  testo per specialisti e un vademecum per chi vuole addentrarsi nella riflessione sul fare poetico: perché, come suggerisce Marina Cvetaeva, la poetessa russa citata da Urraro fin dalla Premessa (e poi ripresa in un capitolo), non si tratta di dare precetti e consigli: non c’è nessun grande poeta che scriva sulla base dei consigli di un altro poeta; e anche le indicazioni che un autore dà a se stesso nascono in realtà a posteriori, a cose fatte, analizzando il proprio lavoro. E come osserva Urraro a ridosso delle annotazioni della poetessa russa, voler dare “consigli” ingenera l’equivoco di pensare che basti seguire tali consigli per diventare poeta. Cosa che è invece più complessa. E così chiarisce lo studioso vesuviano: “Insomma il mio intendimento, quando ho scritto queste pagine […] è stato quello di fornire, a me stesso e agli altri, materiali di riflessione, di approfondimento e di ricerca. E poi… ognuno per la sua strada! Meglio: ognuno per i ‘fatti’ propri” (p. 11). Ma nelle scelte che fa degli autori la cui poetica trattare, e nel dialogo che imbastisce con loro, concordando o anche dissentendo, probabilmente, trasversalmente, delinea anche la propria Poetica, da studioso che pratica l’arte della poesia in proprio: e lo fa nell’unico modo possibile: attraverso i lacerti delle altrui trattazioni. L’unico modo per rispondere alla domanda che cos’è la poesia? (e quindi anche la propria) è entrare nel laboratorio altrui e mettere insieme i tentativi di risposta. Ricorda un po’ il modo con il quale il grande semiologo e filosofo francese Roland Barthes affrontò un’altra questione indecidibile: che cos’è l’amore? Scrisse un famoso libro intitolato Frammenti di un discorso amoroso. E così la Poetica che questo libro ci offre è per Frammenti di un discorso poetologico.

   Questi frammenti, per la verità organicamente disposti e correlati tra loro, riguardano le riflessioni di autori che vanno dal mondo latino all’età contemporanea, chiudendosi con un poeta scandinavo: Orazio, Boileau-Despréaux, Leopardi, Baudelaire, Mallarmé, Verlaine, Rimbaud, Gide, Valéry, Rilke, Ungaretti, Cvetaeva, Montale, Lagencrantz. Di ciascuno, Urraro individua uno o più testi esplicitamente poetologici – in alcuni casi dei classici del genere, come Le lettere a un giovane poeta di Rilke o i Quaderni di Valéry – o scritti che meglio si prestano a trovare spunti interessanti in merito, come nel caso di Eugenio Montale, che non ha lasciato uno scritto di poetica, ma una messe sterminata di articoli di critica letteraria, dai quali è possibile estrapolare quanto occorre.

   Proprio quest’ultimo offre degli spunti per chiarire alcuni aspetti che riguardano la principale accusa che si fa alla poesia contemporanea, ma che riguardano probabilmente la fruizione della poesia in ogni epoca, della poesia in quanto tale: la sua oscurità. Montale, citato da Urraro, in una lettera del 1954, annotava: “Nessuno scriverebbe versi se il problema della poesia fosse quello di farsi capire. Il problema è di far capire quel quid al quale le parole da sole non arrivano” (p. 304). Ci si può immaginare come Montale, frainteso, fosse accusato di proclamare una deliberata oscurità della poesia, come a dire che la poesia “non vuole essere capita”. Ma come Urraro chiarisce acutamente, il problema è un altro, e riguarda la specificità della “comunicazione poetica” che si differenzia da altre forme di uso del linguaggio che invece mirano a una più immediata e diretta trasmissione di informazioni. La poesia serve ad altro. Scrive Urraro: “… tutti i poeti tendono a dire l’oltranza delle parole, non ad essere oscuri. Ed allora è vero che se il ‘problema’ della poesia fosse soltanto quello di ‘farsi capire’, cioè di comunicare concetti, nessuno scriverebbe versi per il semplice motivo che non sarebbe necessario né indispensabile far ricorso alla poesia: basterebbe esprimersi oralmente a parole, oppure con un articolo di giornale, con un saggio specialistico o con un’altra delle tante possibilità comunicative. La poesia è altro e serve ad altro. Ed anche se si fa con le parole essa vuole giungere a ciò che è inesprimibile con le parole. Al quid di cui si è parlato” (p. 305). Più chiari di così sulla questione della presunta oscurità non si può essere. Come pure qualcuno ha osservato, un’eccessiva ‘facilità’ della poesia – ma possiamo dire della scrittura letteraria in generale – farebbe sì che non ci si soffermi adeguatamente su quanto si legge, cogliendo solo ciò che è detto, senza essere costretti a gettare uno sguardo sull’indicibile cui pure quelle parole rimandano.

   Il tema dell’oscurità ci rimanda a un altro poeta, accusato in primis di oscurità per i propri versi, che ha lasciato notevoli considerazioni su altri aspetti del fare letterario: Paul Valéry. Riguardo all’oscurità, e al tipo di comunicazione proprio della poesia, Valéry scrive: “Compito del poeta non è comunicare un ‘pensiero’, ma far nascere in altri lo stato emotivo al quale convenga un pensiero analogo ma non identico al suo” (p. 230). Questa germinazione di pensieri analoghi si collega al carattere proprio della poesia, come sempre Valéry osserva: la poesia genera una molteplicità di significati perché essa gioca sulla non-univocità delle parole, gioca proprio su quell’intervallo, su quell’oscillazione semantica che le rende ambigue: le parole della poesia sono cioè equivoche, plurivoche, polivalenti ecc. Nella poesia c’è quindi una risonanza del pensiero, non una sua univoca trasmissione. Temi questi già affrontati con forza da Leopardi, pensiamo alle sue “idee concomitanti” ma anche alle “corrispondenze” di Baudelaire. Qui si giocano altre questioni sul rapporto tra poesia e filosofia (anche queste proprie di Leopardi che inizialmente anticipa la posizione crociana di distinzione degli ambiti, per seguire poi sviluppi diversi) che non è possibile approfondire, per quanto importantissime. La poesia non può diventare semplice esposizione di contenuti filosofici: i casi come quelli di Lucrezio sono rari come equilibrio tra livello dell’argomentazione filosofica e qualità poetica. Ma la poesia può avere, pur restando nel suo specifico, in quanto forma di conoscenza, una valenza filosofica. Lo stesso Valéry è stato studioso di Nietzsche, quel Nietzsche che aveva scelto la filosofia, l’arte come organon della filosofia. Proprio Valéry considera la poesia prodotto della razionalità, dell’intelletto, quasi sconoscendo l’ispirazione. Anche questo è tema fondamentale. La poesia, crocianamente, viene spesso ricondotta al sentimento: è quanto in realtà fa il senso comune. Eppure i maggiori poeti, nelle loro riflessioni, hanno insistito sulla poesia come “mestiere” nel senso alto del termine. Senza il “mestiere” non si fa vera poesia, tutt’al più si è versificatori. Per andare indietro nel tempo, come ci conduce per mano Urraro, Orazio stesso diffidava dei poeti che si affidavano soltanto all’estro e alla fantasia, addirittura additandone la pericolosità sociale perché agivano sulla sfera emotiva provocando disordini. Il problema è quindi, in generale quello di un equilibrio tra ingenium, cioè la fantasia, e ars, il mestiere appunto. Anche Boileau doveva insistere sull’importanza dell’impegno, del lavoro nel fare poetico. E sulla ‘fatica’ della poesia, di contro a una mera irruzione d’una estemporanea ispirazione insisteranno un po’ tutti.

   E vi insiste anche Raffaele Urraro, riproponendo l’importanza del fare poesia in un’epoca in cui la poesia, e la figura del poeta, appaiono ben poco accattivanti per l’opinione pubblica, ben oltre l’analisi che Montale faceva della diminuzione d’importanza del ruolo del poeta. Ma a fronte di una scarsa attenzione per la poesia, e di un esiguo numero di lettori, sono invece tanti, tantissimi, troppi i facitori di versi. Forse è opportuno ricordare, come fa Urraro, il monito dell’“aristocratico” Rilke: “Questo anzitutto: domandatevi nell’ora più silenziosa della vostra notte: devo io scrivere? Scavate dentro voi stesso per una profonda risposta” (p. 247).

 



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