Che cosa può dire un figlio rimasto orfano a causa di una guerra mai dichiarata, ma combattuta con armi e proiettili veri. E cosa può dire ancora dopo che l’immagine del padre ucciso, sebbene innocente, viene infangata per anni. Tutti potrebbero immaginarsi odio, frustrazione, voglia di vendetta. Non sempre è così, Mario Calabresi ci racconta con animo pacato, sebbene profondamente ferito, quale corso hanno preso le vite sua, dei suoi fratelli e della madre dopo la barbara uccisione del padre, il famoso commissario Calabresi, reo, agli occhi manipolati della società, dell’omicidio dell’anarchico Pinelli. Fatto mai commesso da Calabresi e completamente scagionato da una inchiesta, ma sulla quale molti hanno continuato a ricamare e tessere storie inverosimili, pur di offrire agli italiani un nemico, che è stato necessario giustiziare. La cosa che salta agli occhi, e al cuore, leggendo questo appassionato libro è come una morte sia sempre un dolore inimmaginabile, una persona strappata alla famiglia, ai cari, in qualsivoglia modo, per qualunque motivo, crea sempre un abisso di dolore, incolmabile, inconsolabile. Calabresi racconta con passione e sincerità la fatica di crescere senza un padre, i momenti di panico, in cui i fatti di quella tragica mattina tornano ad apparire vividi agli occhi di chi li ha vissuti, intatti, mai scalfiti dagli anni che sono passati. E’ in modo commovente che gli anni vengono raccontati da calabresi, senza sentimentalismi o manierismi, ma mettendo a nudo il proprio cuore, e quello della famiglia, sino a giungere alle ulteriori spine conficcate nei cuori, dalla mancanza di giustizia, dal voler a tutti i costi ricordare accanto a chi è morto chi ancora vive, vittime dello stesso abbaglio politico, degli stessi errori, ma con effetti così devastanti ed evidenti che pare una eresia accostarli. Ma questo è quel che è successo. Calabresi dipinge il dolore di chi vede gli assassini del padre sedere sugli scranni di Montecitorio, o pontificare dalle colonne dei giornali su quelli che furono gli anni di piombo, riuscendo a farsi passare come delle vittime, o affermando il proprio diritto a rifarsi una vita dopo aver pagato il fio per quanto commesso. Ed ogni volta che una di queste persone afferma il proprio diritto ad avere una vita completa, malgrado gli errori fatti, e tralasciando di ricordare come gli errori fatti continuino a pesare per chi ha perso parte di sé e come se i misfatti perpetrati continuino ad essere presenti, e non vadano mai a finire in quello che la memoria generale chiama passato e dimentica presto. Chi è stato ucciso non può tornare, ma chi ha ucciso pare aver diritto a continuare a far sentire la propria voce, anche senza un vero e chiaro pentimento. A costoro si associano tutti quelli che avevano in qualche modo giustificato l’omicidio, dando connotazioni politiche e di giustizia al fatto, ma purtroppo ignorando (o non volendo sapere) la verità dei fatti. Non vi è spirito di vendetta nelle pagine di Calabresi, figlio del noto commissario, ma vi è sete di giustizia, di verità. Desiderio che tanti anni passati nel dolore, nella paura, abbiano almeno quella visibilità che viene concessa agli assassini, l’ingiustizia sta nel fatto che chi ha una colpa può cancellarla, anche senza un vero pentimento, e chi invece non c’è più? Calabresi condivide questi suoi sentimenti con altre vittime del terrorismo, persone ormai dimenticate, ma che continuano a vivere con uno strappo nelle loro esistenze, qualcosa è stato tolto a forza e il vuoto continua ad essere incolmabile. La lettura è molto interessante, getta una luce inedita su fatti del recente passato del nostro paese, senza le consuete manipolazioni dei media. La narrazione umanissima, con tinte politiche è molto avvincente e riesce a commuovere e a far riflettere. In alcuni passi l’orizzonte della scrittura si fa ampio e giunge all’eterno dilemma su chi può decidere di togliere la vita a qualcuno e con quali conseguenze su chi rimane? Mario Calabresi conclude il libro con un dolcissimo ed intimo ricordo, che però dà la tinta di fondo a tutto il libro. In un momento speciale e in un luogo speciale, ricordando il padre, l’autore conclude il suo racconto così:
[…] trovai il nonno, poi papà Gigi. Rimasi ad ascoltarlo a lungo e sentii che era giusto andare avanti, camminare, impegnarsi per voltare pagina nel rispetto della memoria. Dovevo portarlo con me nel mondo, non umiliarlo nelle polemiche e nella rabbia, così l’avrei tradito. Bisognava scommettere tutto sull’amore per la vita. Non ho più cambiato idea.