Bisogna partire dalle cose («una sedia di paglia accoglie il tuo corpo»), dal senso fisico, materico delle cose, le parole verranno dopo. Non c’è bisogno di alcun inganno sembra dirci Patrizia Pallotta, prima le res, le parole seguiranno. È quasi commuovente il nitore algebrico di questo libro di liriche dal verso breve «still life»: «Cormorani schierati / per l’addio alle procellarie / sono in fila militare / fra la curiosità di barchette / di carta…». Del resto, Patrizia Pallotta è ben lontana dal manifestare un qualche indugio o indulgenza verso la viandanza della Heimat, non sente più alcuna nostalgia di una Heimat, di una casa, tantomeno di un ritorno a casa, le basta l’abitazione di massa sita in una città massa (e che massa!) come Roma per renderla completamente immune dal perimetro della nostalgia. L’autrice romana è troppo colta e acuta per favoleggiare il ritorno di una nuova età dell’oro, troppo disincanto e disorientamento in questa nostra età del quotidiano per rincorrere il già detto del museo delle vanità. Il moderno Ulisse è ormai diventato nient’altro che luogo comune, Penelope è una delle tante zie zitelle che aspettano in casa il ritorno dell’eroe della vita quotidiana; un individuo indifferenziato, un individuo massa, un sistema segnaletico insignificante, se non come partner del sistema del mercato globale, che altro non è che il supersistema che garantisce il funzionamento della libera circolazione delle merci. Gli insoliti sguardi degli uomini sono quelli che l’efebo della copertina rivolge al lettore per invitarlo ad entrare entro la tesatura dei versi di una poesia fatta di «amore e musica», mentre non si sa se l’amore è ancora amore e la musica abbia qualche parentela ancora con la musica.
Nella poesia della Pallotta c’è il quotidiano ma come visto in controluce, attraverso il filtro della memoria smemorata. ed ecco che è giusto soffrire per un pesciolino che cade dal recipiente di vetro, ecco il disagio e il dolore degli eventi che accadono senza che ce ne accorgiamo. C’è anche la consapevolezza che, preso in sé, il quotidiano è impenetrabile, è un mistero e che l’unico modo per tentare di aprire qualche fessura in esso è appunto non prendere il quotidiano come una cosa seria, insomma, sul serio:
Il ciclo della saggezza
si ripete, come dopo ogni
temporale albeggia
l’arcobaleno.
Come si addice ad ogni ricerca seria e meditata il «silenzio» è sempre lì che lambisce il piano dell’esistenza come un drago invisibile:
Lo sfondo? Un portico,
il dondolio delle foglie
estive, la tenerezza
ormai cieca di un uomo
che può assaporare
il rispetto di un testo.