[ Intervista a cura di Giuliano Brenna ; fotografia di Massimo Forchino ]
Chi è Leonardo Bonetti?
Una persona affetta da inquietudine e tenerezza nei confronti della vita. Che cammina sulla riva dell’espressivo alla ricerca di un varco. Per dare fondo al nucleo d’energia avvertita intorno e dentro di sé.
Come ha iniziato a scrivere, e perché? Ci tratteggia la sua storia di scrittore?
Scrivo dai quindici anni, dal momento, cioè, in cui sono nato alla vita consapevole, non prima (sono un ritardatario, infatti). Ma agli inizi il mio approccio nasceva insieme a una predisposizione alla vaghezza e al gioco, in una mescidanza linguistica di musica e di poesia. Diciamo che il fascino sprigionato dalla parola vive per me nella sua risonanza materna, ancestrale e prelogica. E questo aspetto è ancora molto vivo all’interno della mia scrittura. Diciamo che l’espressività rappresenta per me una possibilità di congiunzione, esperienza e rifondazione del reale, del mondo. Di lì è venuto il resto, tra musica e poesia. Fino all’esordio in prosa; molto tardi, come dicevo, sulla soglia dei quarantasei anni.
Quali sono le voci ispiratrici della sua scrittura?
Le più profonde affinità sono legate alla poesia, a cominciare dal Tasso e dal Leopardi, per arrivare a Campana e a Sereni attraverso Baudelaire e i simbolisti francesi. Non disdegnando la scapigliatura nostrana. Di quest’ultima mi hanno sempre affascinato le incongruità delle premesse e degli esiti. Quella certa sciatteria o incompletezza sposata alle grandi ambizioni. E una sofferenza che quei poeti scontavano senza possedere la grandezza dei maestri. Quindi, sul versante della prosa, non posso non citare la grande esperienza del romanzo ottocentesco, tra la vastità dei russi e la sensibilità psicologica dei francesi. In Italia, per ciò che concerne il novecento, non posso dimenticare Verga, Tozzi e Svevo e, in seconda battuta, Pirandello. In Europa invece Mann, Proust, Joyce e Musil oltre, più di recente, a Bernhard e Sebald, che mi ha permesso di riscoprire il genio di Robert Walser. Tra gli italiani contemporanei cito Antonio Prete per la poesia e Michele Mari per la prosa.
Lei sta componendo una tetralogia di cui tre volumi sono già stati pubblicati: “Racconto d’inverno”, “Racconto di primavera” e “Racconto d’estate”, per Marietti. Come mai una tetralogia?
In realtà in origine non avevo chiaro il progetto complessivo. Mi muovevo nel piccolo raggio della parola, seguendola quanto più possibile con lo stupore delle sue mille scoperte. Appena scritto Racconto d’inverno, però, mi sono scoperto a immaginare e, quindi, a scrivere (quasi di nascosto) il Racconto d’autunno poi abbandonato e, a tutt’oggi, in fieri; quindi sono stato letteralmente sommerso dal Racconto di primavera che, bruciando le tappe, si è imposto quasi contro la mia volontà. Non è dunque l’aspetto logico e razionale il primum della mia ispirazione, ma semmai una rielaborazione di materiali spontanei, irriflessi, di cui poi, nel lavoro sussidiario, sono andato scoprendo agganci e rimandi più o meno espliciti. Ma la questione non è chiusa. Il Racconto d’autunno, infatti, sta tra le mie carte come un corpo freddo, di fronte al quale provo un dolore o una resistenza foriera di non so cosa. La questione, più in sostanza, è quella della compiutezza o compimento dell’opera. Si tratta di un problema avvertito intimamente, che frena o crea un attrito con la volontà di comprensione complessiva del reale che sta dietro allo sviluppo del ciclo delle stagioni. In termini più chiari: io non so se riuscirò a compiere quest’opera. E, immaginando che si tratti di un’affermazione troppo forte, nelle circostanze in cui mi trovo ad operare, prendo atto che c’è una parte di me che ostacola il completamento del disegno complessivo. Forse perché apparentemente troppo predeterminato. Ma non saprei dirlo con certezza. Del resto è anche vero che le richieste di quel “corpo freddo”, del Racconto d’autunno già a sua volta iniziato, poi abbandonato e, ora, soggetto attivo, desideroso di cure, postulante di resurrezione, diventa a tratti straziante. Mentre il disegno complessivo pretende ogni mia attenzione. Insomma, in questo frangente devo interrogarmi più a fondo per impedire che gli aspetti inessenziali e le implicazioni inerenti la scrittura e la pubblicazione, interferiscano in modo deleterio sull’organismo dell’opera. Viviamo tempi in cui i condizionamenti non vengono tanto dall’esterno, o non solo dal cosiddetto “mondo”, ma, con più evidenza e esizialità, dalle zone colonizzate della nostra anima. È lì che si combatte la battaglia più aspra. Una battaglia che prevede tregue solo molto brevi e mai risolutive.
Qual è il fil rouge che lega i suoi quattro romanzi?
Poiché la mia quadrilogia delle stagioni, o almeno l’impianto che ha assunto tale forma allo stato attuale delle cose, è anche una negazione della quadrilogia stessa, non ci sono connessioni che possano rimandare a un disegno evidente. Manca infatti una consecuzione drammaturgica di situazioni, vicende e personaggi. Il centro di questo lavoro è, semmai, nella scoperta del ciclo esperienziale come dimensione interiore, scoperta avvenuta ad un certo punto della mia vita. Direi suppergiù dopo i quaranta anni, e segnata dall’esperienza della paternità. In modo riduttivo potrei dire che diventare padre ha significato per me un allargamento degli orizzonti e un passo indietro dell’io lirico di cui ero andato facendo esperienza sin dalle mie prime prove di scrittura.
E allora il senso della quadrilogia appare, in fondo, come una direzione. Con i romanzi delle stagioni (che si determinano significativamente come “racconti”, per essere precisi) ho la possibilità di illuminare da angolazioni diverse lo stesso nucleo duro, resistente, a cui fa riferimento l’espressione. Questo nucleo che, credo, ha a che fare direttamente con l’energia espressiva, un cuore del quale ho bisogno più che della bellezza stessa. Anzi, è proprio il rapporto tra bellezza ed energia che, nella vita come nell’arte, mi inquieta e mi attrae. Tutto questo avviene però nella continuità della focalizzazione interna: un io narrante, camera oscura della coscienza che si fa filtro, attraverso cui le vicende, i personaggi e le situazioni prendono corpo. Non si tratta, credo, di un espediente tecnico ma della stessa forma in cui è andato costituendosi questo cammino di scrittura. In quanto il bivio che si è posto di fronte al narratore è stato sempre quello della scelta tra due approcci opposti nei confronti della realtà: quello dell’indagine e quello dell’esperienza.
Quattro opere… richiamano alla mente Wagner, anche l’andamento delle stagioni può essere sovrapponibile all’Anello del Nibelungo; ritiene vi siano affinità fra la sua opera e quella wagneriana?
La tetralogia wagneriana è impiantata su una continuità drammatico-musicale che prevede svolte stilistiche solo parziali, salvo quelle dovute alla lunghissima gestazione dell’opera. Il mio ciclo, invece, è fatto di scarti anche bruschi dal punto di vista delle situazioni, delle vicende, dei personaggi e, ovviamente, degli stili. Ciò che è indubbio, comunque, è che l’elemento musicale, nel mio modo di scrivere, è sempre presente e avvertito.
Nella sua tetralogia si avverte un andamento sinfonico, è un effetto che lei insegue?
“Andamento sinfonico” mi sembra formula particolarmente adeguata, una notazione felice, soprattutto se rapportata alla varietà timbrica che è alla base di ognuno dei miei romanzi. Quella certa coloritura compiuta attraverso il linguaggio. La sinfonia viene giocata sui registri del colore, del tempo, dell’alternanza del ritmo e del respiro. Un desiderio di sperimentare l’intera gamma espressiva in vista della questione finale: l’energia che muove l’interrogazione intorno all’esperienza del vivere. Quell’elemento irriducibile con cui facciamo i conti ad ogni istante. Si tratta di un’interrogazione praticata nello stupore. Una mescolanza di stadi intellettuali ed emotivi che è alla base dell’esperienza poetica vera e propria. Così il lento, il moderato, il rapido, l’allegro, sono movimenti attraverso i quali si potrebbero trasporre altri aspetti di forma e sostanza narrativa, i colori e le loro sfumature (nero, verde, giallo, rosso), gli elementi (acqua, terra, aria, fuoco), i tempi verbali (passato remoto, imperfetto, presente, futuro), le fasi della vita (gestazione, parto, emancipazione, morte), le età (maturità, fanciullezza, gioventù, vecchiaia). Questa, credo, sia la sinfonia dei miei romanzi delle stagioni; a concorrere i leit motiv, le variazioni, gli sviluppi, le riprese.
Pensa che in un panorama letterario come quello italiano, frammentario e in cui molti lettori inseguono la novità, offrire un lavoro composito come la sua tetralogia possa “fidelizzare” il lettore alla sua penna?
Non credo che un’opera di ampio respiro possa oggi attrarre o, ancor meno, creare artificialmente un “pubblico”. D’altronde la contraddizione di chi scrive appare evidente già in origine: si nega la realtà del lettore espellendolo dal proprio spazio privilegiato e sovrano (quello della propria scrivania), pretendendo poi che assurga a interprete del proprio mondo. Un mondo che non è più nostro nel momento stesso in cui lo licenziamo pubblicandolo. Eppure tale contraddizione, essendo esperienza imprescindibile, mostra una specificità drammatica davvero trascurabile. Perché è un’altra la questione davvero essenziale e impossibile da aggirare. Un motore tanto profondo da perdurare inalterabile nel corso del tempo. Mi riferisco alla qualità primaria di ogni autentica pratica espressiva, quell’urgenza che ha come correlativo l’esperienza del dono e dell’atto gratuito. Così che il rapporto tra scrittore e lettore è meno subdolo di quanto si possa credere. Esso nasconde, nonostante tutte le filosofie del sospetto e del cinismo oggi imperanti, un cuore tenero e indifeso, capace di una lealtà che gli scettici considererebbero d’altri tempi. Scrivere non è insomma atto deprecabile e narcisistico ma, semmai, dedizione a un’opera realizzata con amore e per amore. Se non crediamo in questo è impossibile ogni scrittura. Dobbiamo sconfiggere quella tendenza tipicamente moderna e, soprattutto, postmoderna, a costruire maschere di indifferenza atte a nascondere il cuore dell’umano: perché noi siamo la nostra scrittura.
Proust per evitare l’effetto “già visto” (o del sequel) cambiò i titoli di quei capitoli che dovevano essere Sodoma e Gomorra 3 e 4, lei non teme lo stesso effetto proponendo quattro titoli così simili? (Capisco che nell’economia dell’opera deve essere così, sto cercando di immedesimarmi in un lettore medio che scorre distratto i titoli).
Il lettore esiste nel momento stesso in cui ci dimentichiamo di lui. È così che otteniamo il suo rispetto. Quando scriviamo, infatti, il lettore non c’è o, per meglio dire, viene trascinato con noi nella fatica della scrittura prima di divenirne il lettore. A ritroso, per così dire, anche lui scrittore come noi prima di divenire se stesso. Così come noi, terminato il nostro compito, ormai sovrani spodestati, siamo presi per mano da coloro che ci leggono iniziando un cammino intorno e all’interno del testo.
Le esigenze legate all’effetto di un titolo su un ipotetico lettore rappresentano in fondo un aspetto secondario, esterno, seppure rispettabile. E del resto è l’opera stessa ad imporle un titolo piuttosto che un altro.
A questo proposito, esiste un “lettore ideale”?
Non credo a una figura dai connotati stabiliti una volta per tutte. L’esperienza della lettura è così vasta e implica ogni volta un cambiamento così profondo e sottile, che il suo profilo mi appare più nelle forme del divenire che della fissità.
Oltre alla tetralogia in quali altri lavori è impegnato?
Ho scritto un libro di meditazioni o aforismi o frammenti in prosa poetica dal titolo A libro chiuso. Opera che è stata pubblicata nel marzo scorso e ha ricevuto un importante riconoscimento con il Premio Montano. Prossimamente uscirà per Raffaelli la mia traduzione de Il libro di Daniele, dall’Antico Testamento. Intanto traduco anche da I fiori del male di Baudelaire, un’esigenza che sento forte, non legata a progetti editoriali. Quindi altre scritture, dalla poesia alla prosa, qualche saggio (uno su un racconto di Calvino da Le Cosmicomiche che uscirà prossimamente su L’Illuminista), un’altro sull’ultimo libro di Antonio Prete, Se la pietra fiorisce, in pubblicazione sul prossimo numero de l’immaginazione per Manni.
Ci vuole parlare di “A libro chiuso”?
Il libro è per me legato a un’esperienza che affonda nell’infanzia. Un totem e un mistero legato alla sua sostanziale insondabilità. Da subito ho vissuto il rapporto con il libro come un desiderio di scoprire il segreto che custodiva. Sentivo che qualcosa di importante e profondo sarebbe venuto dall’esperienza della lettura. Ma ogni volta dovevo rimandarne gli esiti ad un punto successivo. C’era una delusione e nello stesso tempo uno stimolo imprevisto a spingermi di nuovo verso il libro dopo averlo chiuso. E mi sono reso conto che a distanza di tempo, di molto tempo, il libro chiuso, finito, abbandonato nella libreria, aveva operato in me senza che me ne rendessi conto. Da qui è nata l’esigenza di ripercorrere in una serie di meditazioni o aforismi la linea iterativa, quasi liturgica, che stava alla base del mio rapporto col libro, della mia riflessione intorno alla figura del libro.
Essenziale, a questo proposito, è stata la collaborazione - una sorta di controcanto sapienziale - con Ettore Frani, pittore ed artista cui una lunga consuetudine e un rapporto umano e di ricerca mi legano profondamente. È stato lui ad interpretare la partitura immaginale di questo lavoro. Così che le riproduzioni delle sue opere, create in un rapporto di autonomia e nello stesso di risonanza con il testo, stanno al centro del volume come cuore vivo e prodigio capace di rendere questo mio lavoro davvero unico. Seppure umile e piccolo e indifeso.
Cosa pensa dei premi letterari? Uno scrittore li può considerare come traguardi o sono solo bei momenti in un percorso?
I premi sono, per me, un segno della realtà di quanto vado scrivendo, ulteriore presa d’atto che il corpo dell’opera è vivo. Dapprima c’è la pubblicazione, poi il contagio nell’immaginario dell’altro, del lettore; quindi il riconoscimento ad opera di una giuria scelta. Ma questo, ovviamente, non rappresenta un traguardo. L’opera è un cammino fatto in piena autonomia, e noi non abbiamo più alcun potere su di essa. È lei, semmai, a tenerci in scacco, a segnare il punto dei nostri limiti, delle nostre insufficienze. Conducendoci, attraverso l’eperienza di chi ci è vicino - lettore, critico o giurato - lungo un percorso imprevedibile.
Quali sono gli obiettivi che si prefigge con la sua scrittura?
La scrittura, credo, non può avere obiettivi. È interna a se stessa pur non essendo mai puramente autoreferenziale. Nel senso che nutre in sé la sua forza e la sua giustificazione vivendo in un rapporto autentico con ciò che è vivo e profondo. Per questo è possibile che esperienze tanto intime come quelle dell’espressivo possano divenire universali e valide oltre i recinti delle epoche storiche.
Che cos’ha di caratteristico la sua scrittura, rispetto a quella dei narratori suoi contemporanei?
Il fatto è che non mi considero un vero e proprio narratore ma, semmai, una persona che cerca attraverso il linguaggio la via dell’espressivo. E per far questo intraprende percorsi artistici veri e propri, quelli dell’artifex, paziente artigiano alle prese con la materia da plasmare. Ma nel corso dell’opera - pur essendo tale pratica un valore assoluto fatto di amore e dedizione senza la quale l’espressivo resterebbe un puro sfogo spontaneista - non dimentica che c’è un prima della forma, un prima della scrittura, momento che rappresenta il cuore misterioso e originario dell’umano. È in questo senso che la contraddizione dello scrivere mi pone su vie apparentemente diverse da quelle di altri scrittori. Sebbene io creda che l’espressivo sia un fiume già scavato, giocato su due sponde, fra tradizione e infrazione, tra lingua materna e lingua ufficiale. E che questo valga per me come per tutti quelli che si trovano ad affrontare tale esperienza.
Come avviene il suo processo di scrittura? In quali ore e luoghi, con quali modalità?
Scrivere è vivere. Sebbene vivere non sia, propriamente, scrivere. E allora non esistono momenti e luoghi, perché tutti i luoghi e tutti i momenti sono già scrittura. E dirò di più: ogni essere umano scrive, ma sulla sabbia, nel cielo, su uno specchio d’acqua. Ciò che distingue le pratiche della scrittura sono le scelte iniziali e quelle di lungo respiro; quale materia, quali corpi, quali mondi. Perché lo scrittore, a un certo punto - e a me è avvenuto un po’ contro la mia volontà, avendo tentato di resistere contro l’iscrizione a tale categoria - si rende conto che ha operato su una pietra, ha inciso una parola definitiva, che sfida il tempo, e allora deve prendere atto che questa è già in parte la sua condanna. La scrittura potrebbe vendicarsi su di lui.
E allora, poiché scrivere è vivere, e questo è vero per me come per ogni altra persona lungo questa via, sul corso di questo cammino, si continua a farlo in ogni luogo, sempre e comunque. Si osserva la realtà e se ne fa esperienza dallo speciale punto di vista di chi incide la pietra con la parola.
I modi nei quali si andrà via via realizzando materialmente tale scrittura potranno essere i più disparati: computer, taccuino, foglio di carta, libro. Ma da quel momento scrivere è vivere.
Ha mai pensato a “Racconto di primavera” come a un film? Le piacerebbe vedere i suoi personaggi muoversi su uno schermo?
No. Anche se ho realizzato personalmente alcuni video nei luoghi della vicenda, esperienza esaltante e che ha operato su di me una fortissima suggestione. Ma un film, un lungometraggio di Racconto di primavera non è entrato nella mia immaginazione. Cosa che invece è avvenuta per il mio primo romanzo, Racconto d’inverno. Se dovessi pensare a un’opera cinematografica a partire da uno dei miei libri, infatti, penserei senz’altro a quest’ultimo.
Ha qualcosa da dire agli autori che pubblicano i loro testi su LaRecherche.it? Che cosa pensa, più in generale, della libera scrittura in rete e dell’editoria elettronica?
Credo che ogni mezzo capace di dare spazio alla creatività e all’espressione sia il benvenuto e debba essere utilizzato nel modo più virtuoso.
Senonché il problema della scrittura in rete è legato, a mio avviso, al “rumore” che ne determina il contesto di fondo. La letteratura è un’esperienza intima, di riflessione, c’è in essa un aspetto persino religioso, e gli strumenti della moderna tecnologia stimolano, invece, la velocità e la connettività su più livelli, sacrificando uno degli aspetti essenziali della lettura: il silenzio. Senza quest’ultimo è inevitabile che si legga più con gli occhi di un pubblico che con il cuore di un lettore.
Il libro, ritengo, è insostituibile proprio perché non permette distrazioni. La sua natura rimane fondamentalmente “dispotica” e totalizzante. Mentre la lettura attraverso gli strumenti che presiedono alla rete si struttura secondo una orizzontalità che muove a una continua distrazione.
Per questo penso che il libro trionferà, ma solo nell’intimo della coscienza, e soprattutto senza bisogno di trionfalismi.
Agli autori che pubblicano su LaRecherche, invece, dico: concentratevi sulla vostra opera e non dedicatevi ad altro. Fate il vostro lavoro con dedizione e pazienza. Di lì, ne sono certo, verranno le scoperte e le sorprese più durature.