Un romanzo garbato, ben detto, la cui parola aleggia sulla leggerezza (Calvino docet), nell'intento di rappresentare i fatti con la freschezza della percezione tra passato e presente, volendo mettere in evidenza l'esistenza ridotta ai suoi minimi termini alla epochè della sua realtà fenomenologica. Per quanto si tratti di un giallo tratto da fatti (efferati) realmente accaduti nell'Ottocento e rivissuti alla luce della Milano a noi contemporanea e viva, vista la presenza dell'Autore e di amici poeti scrittori e parenti e conoscenti, leggendo la narrazione di Maurizio Cucchi tra le vie di una Milano nello stesso tempo così amabile e discreta e nobile e popolare e preziosa anche dal punto di vista architettonico e toponomastico, così ben descritta a nostro beneficio in un tour ad hoc, si ha l'impressione di un godimento che nasce da un racconto che prende e trascina piacevolmente per mano tra il serio e il faceto. Serio e faceto che fanno parte dell'esistenza, come ne fanno parte il bene e il male. E il male non è meno umano del bene, questo il messaggio che emerge dalla lettura del romanzo. Il male esiste. E il suo vissuto non può essere secondo l'Autore ancorato agli stereotipi degli psicologismi, ma se ne deve prendere atto come un fatto. Andando controcorrente e stigmatizzando, giustamente, la deriva attuale delle interpretazioni psicologiche o biologiche degli assassini, alla Lombroso. Il male compiuto in diverse azioni perverse da parte dell’assassino, in questo caso l’Antonio Boggia, el Togn, è un fatto, che sta sotto i nostri occhi, ma sarebbe riduttivo pensarlo solo come fatto materiale, empirico. Essendo un fatto umano, il male non può essere, qui come altrove, che un fatto che inerisce la spiritualità. E Maurizio Cucchi, che conosce bene l’animo umano come lo può conoscere un poeta, certamente meglio di uno psicologo, ci descrive un mondo fatto di esteriorità e di interiorità, di corpo e di anima, di cielo e di terra, ma sempre ben collocabile a livello topografico, che non possono essere in alcun modo disgiunti e che solo una comprensione unitaria e realista della persona, delle persone, può permettere la giusta percezione delle dimensioni. Anche in questo caso, voglio dire in questo romanzo, in questo viaggio narrativo, la letteratura, intesa non come artificio dell’esistenza, ma come presa d’atto della realtà nella parola che aderisce all’esserci non può che far bene alla nostra crescita spirituale. E ancora una volta dobbiamo dire grazie a questo scrittore, a questo poeta, a Maurizio Cucchi, che tanto ha fatto e tanto continua a fare per le nostre lettere, per la nostra poesia, per la nostra cultura. Non per altro, ad esempio, se non per quelli che a me sembrano essere i momenti forti per il canone da lui proposto: che la parola, in poesia come in narrativa, sia essenziale e vada al nocciolo, pur lasciando la giusta apertura all’allusione, all’oltre-parola, facendo sempre e comunque assurgere a protagonista la vita, l’esistenza. Esistenza e parola vanno vissute con leggerezza e senza eccessiva enfasi, sempre, come in questo romanzo dove la narrazione sin dall’inizio ci fa presagire e come si ha modo di avvertire nelle ultime battute a chiusa del romanzo stesso, dove la parola, per quanto scabra e apparentemente indifferente, come l’assassino, non può fare a meno di guardare all’immediato oltre, affidandosi a qualcosa o qualcuno:
Antonio Boggia salì le scale che lo portavano alla forca, e le sue ultime parole, rivolte al boia, furono solo queste:“Me racumandi! Eh, me racumandi!, me racumandi!”.