Un quotidiano stupore
Con “Uno stupore quieto”, Mario Fresa presenta una raccolta dalle cadenze molto articolate e per nulla rigide.
Si tratta di un’assidua attenzione rivolta a lineamenti minimi ma vividi, a distinte fisionomie che emergono per poi inabissarsi.
L’interesse per l’arte di raccontare è evidente in una scrittura che trova in sé e nel proprio oggetto le ragioni di un’intima consapevolezza capace di farsi forma, originale accento stilistico.
Il tono, appunto di “stupore quieto”, mostra una saggezza emotiva inconfondibile.
La vera saggezza, ben lungi dal giungere dall’esterno, è ben radicata nell’esistere e il suo apparente distacco deriva da raggiunta chiarezza, non certo da apatia.
Vedere chiaro non è aver risolto un problema, è prepararsi ad affrontarlo in modo opportuno.
In questi testi c’è vita: molto di quanto costituisce la nostra esistenza è lì, ci parla.
Dico “ci parla”, perché le parole del Nostro promuovono un confronto e inducono a rispondere.
Avvertiamo l’esigenza di dire (o pensare) qualcosa di opportuno di fronte a queste specifiche fattezze tendenti a diventare un’atmosfera, una condizione di vita in cui ci troviamo a essere sempre più coinvolti con il procedere della lettura.
Cenno dopo cenno, trama dopo trama, ci addentriamo in regioni affettive di cui, quasi senza accorgercene, entriamo a far parte: non si tratta di perdersi in uno sterile labirinto, ma di aderire a una fervida dimensione immaginativa capace di acquisire energia proprio in virtù della sua compostezza.
“Da oggi fisseremo sulla carta ciò che ci ha sfiorato
e non ci è mai stato chiaro”.
Il desiderio, come si vede, non si distingue dal proprio oggetto in un àmbito in cui non si vuole conquistare ma condividere, ossia non si ambisce a raggiungere una meta ma a percorrere un itinerario.
Il traguardo di questa scrittura è molteplice e diffuso, la sua intima propensione è quella d’illuminare sequenze di attimi che prevedono soltanto punti d’arrivo non definitivi.
La vita ci avvolge e qualunque avvenimento è parte di un più ampio accadere.
La conclusione
“Così queste parole saranno cancellate, dimenticate presto;
o finiranno in un miele appiccicoso
o in un terribile segreto”
può far pensare al prevalere di un silenzio inespressivo, di una sterile ambiguità, di un tragico “segreto”.
Io penso, invece, che siffatta pronuncia non vada letta quale dichiarazione aprioristica, ma che il suo senso profondo debba essere cercato (e trovato) in una coraggiosa apertura poetica, tale da non misconoscere l’importanza del dire proprio ammettendone l’indole accidentale.
Anche i caratteri incisi su bronzo o su marmo tendono a svanire con il trascorrere del tempo, eppure simile processo non sminuisce il valore dell’umano esprimersi per via di linguaggio.
Talune parole, senza dubbio, vengono ricordate più a lungo di altre (si pensi a certi versi di celebri poeti), ma questa circostanza non deve indurci a sottovalutare il buon discorso che pratichiamo ogni giorno.
I risultati più alti, partecipi anch’essi della materia di cui è fatto il mondo, illuminano gli aspetti consueti, non li oscurano.
Insomma, suggerisce Mario, l’eccellenza è già nel quotidiano e siamo tutti invitati a imparare a riconoscerla.
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