Pubblicato il 22/06/2020 12:20:16
Come minzione di luna, questi raggi azzurri, pergamene d'argento nella notte sovrana; dea morta dal sangue blu, t'adora un popolo di servitori avvezzo al possesso, alla schiavitù morale del bene, del bello, guai, guai a sentire nella nostalgia le cose non dette, sussurrate appena, guai, guai a non rispecchiarsi nei tuoi raggi, dea, o a quelli petulanti e maldestri della rosa, gua-a-ai! Nascosto nell'apice dell'aurora c'è il segreto semplice, inetto, del vostro culto: la morte e la rinascita. Generazione maledetta e baciata dagli dèi, forte delle catene altrui di cui essa pure sottomessa si rallegra nel suo odio materno partorendo, vigliacca e schiava, dinastie sottomesse e utili al possesso, all'ingenuità della sopravvivenza, fiera di sovrintendere al proprio grigiore ancestrale.
È così che corre la vita, sotto al gelsomino, nella dolcezza del ciliegio, scorre l'odore del fiume nella sua spuma sulle rocce cantando una canzone lontana ed è l'effetto di quel fiume che riempie d'animi dilaniati il cuore delle madri.
Nella città poco più d'un ruscello deviato si interra nella fiumana dei passi, si perde macellato dallo stesso scorrere che lo imita in maiuscolo e invita il mio paese a stringersi nei tacchi, ad alzare il braccio, a correre imbottigliato da un quartiere all'altro, al rione, ai campanili, alle case, alle ditte, ai cimiteri dimenticati ché tutto accumuna il possesso foriero d'un messaggio: abbiate cura d'esser grigi fino all'ultimo lotto scavato, voi, figli d'un dio morto commiserati dal padre per la mistificazione dei suoi doni, e voi, adoratori della luna che accumulate luce riflessa da un sasso, siate grigi! Calpestate!
Non fiele, no, non scorre amaro tra queste dita che pure folli ebbi da una sorte folle, né luppolo, né china, né nel fegato bagnai le labbra, amaro come il disappunto, no, non fu nemmeno carità, ché l'unico giudizio che ci resta è la purezza ed è ben misera cosa; fu forse il compianto, la compassione di me stesso, piuttosto, e del riflesso vostro che vedo in me, sono buono e mite e ho più parvenza di piccione che di sparviero, io, che dei doni feci vergogna, dei miei peccati feci mostri enormi sino a sfiorare l'astro che riflette senza tuttavia mai toccarlo, chiusi me alle stesse catene del possesso anche se mai con cupidigia orgogliosa ma il vostro riflesso delle catene in me divorò con forza di titano il colore spento che portavo con tenere, ingenue braccia di bambino e la dolcezza dei gelsi sparsa nell'odore sanguigno sulle morbide dita dell'allora, dei fui e dell'inganno fu la mia malinconia.
Nel paese, un'opera bigotta e fascista, rea di lesa maestà, di vilipendio alla compassione e innumerevoli atti brutali verso l'idea, la Parola che grida più forte Italia mia figlia di catene, di madri sconclusionate, sciagurate Italia che fingi di non odiare, ah, potessi tu sprofondare nella terra che avveleni, t'inghiottisse il mare, razza baciata e maledetta dagli dèi!
Eppure, nei tuoi mandorli v'è l'occhio di quel Dio che così tanto negasti nelle tue opere diventando banchiere, amaro conservatore come cianuro e negl'occhi la dolcezza amara e nel ventre il veleno. T'amai con tutto l'odio che possedevo e che mi crebbe dentro da che dal grembo fui staccato nei giorni primaverili d'una tenera madre con la sola capacità d'amare e che d'amore fece l'unico suo peccato grande come il cielo: nella miseria, sulla miseria, nella croce del suo vivere e soffrire amò.
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