[ Recensione di Domenico Vuoto ]
Ho sempre pensato che la poesia non viva di proclami, ma del fiammeggiante silenzio del suo farsi. E che solo così il suo incendio divampa oltre i confini della parola - la parola scritta, il verso.- per farsi materia di racconto qualitativamente esteso e prossimo all’oralità, flusso travalicante l’angustia di un io compiaciuto e chiuso. In altri termini, vasto ordito di esperienze, suscettibile di generose condivisioni.
Il poeta, nelle forme che più gli sono congeniali, non fa che percuotere le porte di un dio, del mondo, di se medesimo in cerca di risposte sul senso della realtà e sulla sua (dalla infinita stupidità umana) provocata dismissione.
Il caso di Sauro Albisani è emblematico di ciò che ho tentato di dire sopra. Albisani è autore schivo, nient’affatto incline ai proclami, e tuttavia irriducibile nella sua volontà di canto, ostinato nella ricerca fino all’azzardo, fino a un’ammirevole hybris.
E fabbro di certificato, meritato, valore.
Della sua indole poetica, della sua acribia di indagine e scandaglio ha già dato conto nel suo precedente libro in versi Terra e cenere uscito nel 2002 per le edizioni Il Labirinto. Con La valle delle visioni, edito recentemente da Passigli, il poeta si avventura nei suoi usuali territori tematici, provvisto però di un armamentario verbale accresciuto e, per certi versi, nuovo. Dove la straordinaria varietà linguistica (colloquiale, dialogica, teatrale, a volte) e di genere e la conseguente mobilità dei registri tonali (spesso prosastici, di una prosasticità ibridata dalle numerose forme della comunicazione quotidiana), le concitazioni e i molto frequenti passaggi discorsivi e loici portano la sua poesia a una sorta di oralità inclusiva delle angosce, dei timori e smarrimenti odierni: personali e collettivi. Il tutto convogliato in quella vocazione alla ricerca, appunto, che fa della raccolta quello che si potrebbe definire, parafrasando un titolo ricorrente nell’opera di Jabès, libro delle interrogazioni. E di interrogazioni e interrogativi sono ampiamente disseminati i versi del poeta. Perfino nei titoli dei singoli componimenti (Devo proprio rispondere? Ma dove vanno i migliori?, arieggiante, quest’ultima, la famosa domanda dell’Holden di Salinger, Giulia mi ascolti?, eccetera.) Interrogazioni incalzanti, rivolte spesso a se stesso o comunque a una platea di semblables e di frères e che ora non trovano risposta, ora aprono ad altri insolubili interrogativi, ad altre voragini, altre temibili sospensioni nel vuoto: […] È chiaro che ho fallito, ma / nessuno si è sentito in obbligo di dirmi in cosa. / […] Cosa farò da grande? / Beviamoci su, non ci sono colpevoli. / Allora perché tanto dolore? / (Salice Piangente). O ne contengono una, di risposte, inquietante nella sua apoditticità : Sai qual è il fondo della solitudine?/ A volte mi metto in cucina, / […] Apro la mano / ci guardo dentro e d’improvviso / mi viene una maledetta voglia di piangere. / Senza perché. Non è tanto il fatto / di aver voglia di piangere, no, / è questa la risposta. / (Risposta).
I temi frequentati dal poeta in Terra e cenere si perpetuano, come si diceva, in questa seconda raccolta: ed è una svariata geografia oggettuale, animale, umana, di esperienze personali (la scuola, l’insegnamento), affetti. Il tutto dispiegato nella varietà di forme cui si è accennato. E che si affidano sovente al gioco, all’ironia, a una pianezza. Sotto, come a contrasto, una materia magmatica, dolorosissima nella sostanza, e ustionante.
Di terribilità della poesia di Albisani ha testimoniato, a ragione, Baldacci in un’acuta notazione critica. Il riferimento è alla prima raccolta, ma esso vale anche per questa. Anzi, maggiormente per questa seconda raccolta. Si legga l’ultima sezione del volume, Coniugali, dove una coppia di diavoletti danteschi, un farfarello e una farfarella, debitamente riportati ai nostri tempi, si pungono ( a volte si dilaniano) con soave ferocia.
Si è detto pure della cristianità del poeta. Ma è, la sua, una religione, una fede che sfidano le certezze e percuotono disperatamente – una composta disperazione! - le porte di un dio che si rivela muto e distante. Come negli splendidi versi di In dove non sei : … Ci hai dato questo lenzuolo / tappezzato di fori di luce. / Noi li chiamiamo stelle, / […] e più ci addentriamo con lo sguardo / più ciò che è piatto diventa profondo. / Noi lo chiamiamo mondo. / Ci hai dato la valle delle visioni / in cambio della tua lontananza /.